Lamezia, voci e testimonianze nell’Open Day alla Comunità Fandango

di Giulia De Sensi

Sono storie straordinarie, di speranza, fragilità, accoglienza, a volte di redenzione, dalle quali si può imparare: sono le storie degli ospiti della Comunità terapeutica Fandango, che nasce a Lamezia nell’aprile 1992 da un percorso già avviato all’interno della Comunità Progetto Sud, come centro dedicato al recupero dalle dipendenze.

Dipendenze che oggi sono spesso multiple, e comprendono non solo l’abuso di sostanze stupefacenti, ma anche l’alcolismo, la ludopatia e la dipendenza da internet molte volte associate. A parlarcene in maniera introduttiva sono Angela Muraca, responsabile del programma terapeutico, e Roberto Gatto, responsabile dell’area dipendenze, che aprono le porte alla stampa in occasione dell’Open Day organizzato dalla rete nazionale del Tavolo delle dipendenze, cui Fandango aderisce. “Dagli anni ’90 ad oggi – sottolinea la Muraca – la situazione delle dipendenze si è notevolmente evoluta, sia dal punto di vista dell’esordio, che è sempre più precoce, sia per quanto concerne il tipo di droghe più diffuse: siamo partiti in un periodo in cui chi arrivava faceva uso quasi esclusivamente di eroina, poi è stato il momento della cocaina che non rappresenta più come in passato una sostanza d’elitè. In realtà oggi abbiamo soprattutto dei poliassuntori, che assumono cioè sostanze diverse, spesso tagliate con farmaci, benzodiazepine, o anche chetamina, e che sviluppano spesso per questa ragione disturbi psichici associati: è la cosiddetta “doppia diagnosi” che interessa oggi circa il 50%dei nostri ragazzi. Si sta verificando inoltre un ritorno dell’eroina, con un rischio crescente di episodi di overdose. Anche l’alcol dilaga come moda, ed è un ponte verso altre dipendenze: già verso gli 11/12 anni capita ai ragazzi di cominciare con la cannabis o addirittura con la cocaina.”

 

I ragazzi arrivano in Comunità soprattutto attraverso i Serd, e arrivano non solo dalla Calabria ma da tutto il territorio nazionale. La prima fase, quella dell’accoglienza, dura dai due ai sei mesi, ed è quella durante la quale si cerca di scalare il metadone. “L’approccio è fortemente personalizzato – continua la Muraca – e si viene seguiti da uno psicoterapeuta e spesso anche da uno psichiatra, associando eventualmente una terapia farmacologica per superare aggressività e disturbi del comportamento che ostacolano la vita comunitaria. In questa fase si comincia ad imparare ad autogestirsi, ad avere cura di sé stessi e dell’ambiente in cui si vive, condividendo la pulizia degli spazi, la preparazione autonoma di un pasto, la cura dell’ambiente esterno – orto, uliveto, animali da cortile – facendo quelle esperienze positive che prima la dipendenza non aveva permesso.” Chi si libera del metadone e decide di proseguire il percorso passa alla fase di comunità vera e propria, che dura 8/10 mesi, durante la quale si cerca di “ricostruire la propria identità, liberandosi dalla maschera della dipendenza, e scoprendo sé stessi in maniera autentica.” Se nella prima fase si viene seguiti e protetti fra le mura della comunità, nella seconda fase si comincia ad uscire. “La nostra è infatti una comunità aperta – ci dicono gli operatori –  abbiamo contatti con le scuole, dove facciamo prevenzione, e con i gruppi scout che spesso vengono a trovarci per vivere con noi esperienze di comunità. Facciamo inoltre visite guidate in aziende presenti sul territorio, per un primo orientamento al lavoro.” Sono attualmente 23 gli ospiti effettivi della Comunità, ma Roberto Gatto chiarisce che l’Asp, attualmente commissariata, garantisce fondi solo per la metà di essi: “Se sul resto del territorio nazionale il budget che la sanità riserva alle dipendenze è l’1,5% della spesa complessiva, in Calabria circa lo 0,5%. La risposta ai Lea qui è anche inferiore che altrove, ma noi dobbiamo andare avanti comunque.” Dopo la comunità c’è la fase del reinserimento, durante la quale si cambia luogo di residenza e si vive in autogestione per 6/12 mesi, sempre in contatto con la comunità.

Le storie che ascoltiamo hanno spesso in comune il racconto di un’infanzia difficile, un’esperienza pregressa in più centri di recupero – 2, 10, 15, addirittura 17: luoghi che sempre “hanno lasciato dentro qualcosa”, ma quel qualcosa non è stato sufficiente a motivare un cambiamento definitivo di vita. Quindi si ricade nello stesso errore, poi ci si ravvede, si sceglie un altro percorso, si arriva a Fandango – o anche, dopo un consulto con i responsabili, ci si ritorna. Ciò che colpisce negli ospiti incontrati all’Open Day è il fatto che nelle loro voci non si legge mai un disagio per essere dove si è: tutti sembrano avere la coscienza di essere liberi nella scelta di restare, tutti sanno di non poter essere salvati senza il proprio consenso. E di avere qui un’opportunità. A volte si proviene da un periodo di detenzione – ma magari si è contenti di essere stati presi – altre volte si sono comunque avuti contatti con la criminalità. In tanti ammettono sinceramente di aver fatto “cose terribili”, a sé stessi o agli altri, cose di cui in quel momento non si aveva piena coscienza, anche per effetto delle sostanze, e che ora sembrano far parte di un passato molto lontano, quasi di un’altra vita alla quale non si vuole assolutamente ritornare. A volte è stata una madre – o l’intera famiglia – a schierarsi per l’ingresso in comunità. Ma chi resta e arriva fino in fondo lo fa perché ha ritrovato in sé la fiammella di una volontà non ancora del tutto spenta. Chi ci riesce non ha necessariamente avuto meno problemi degli altri: fra loro c’è chi oltre ad aver abusato di sostanze viene dall’abisso della ludopatia e chi ha sperimentato la dipendenza dall’alcol. Qualcuno ha assunto metadone per più di vent’anni o è stato ricattato dagli strozzini, qualcuno ha anche tentato il suicidio. Eppure si tratta di ragazzi nei cui occhi adesso c’è la voglia di vivere. Tanti hanno una fidanzata, una moglie, dei figli già nati o in arrivo. Alcuni stanno imparando un mestiere, o magari lo esercitano di già. Nella sala comune, dove siamo seduti a discorrere insieme, il più giovane ha solo vent’anni, e l’ultimo arrivato è lì da poche settimane, eppure siamo tutti sullo stesso piano, e si fa quasi a gara per parlare. Nell’aria si respira la paura ma anche la voglia di liberarsi dal metadone – che è “come svegliarsi da un sogno” –  dopo un “innamoramento” per le sostanze che è costato troppo, e i particolari, a volte ancora troppo freschi nella memoria, rimangono sospesi in un’iperbole detta a mezza voce.

Un ringraziamento a Giulia De Sensi e alla direzione de illametino.it