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Quello che siamo diventati: scatti e scritti che raccontano le dipendenze

Il 16 dicembre alle ore 18.00 nei locali della Biblioteca Comunale “Oreste Borrello” di Lamezia Terme, apre al pubblico la mostra fotografica “Quello che siamo diventati” primo  progetto fotografico di Andrea Vesci (tattoo artist e fotografo amatoriale), a cura di Maria Chiara Caruso (giornalista).

Le immagini raccontano il mondo delle dipendenze da droghe e alcol e le conseguenze che ne derivano.

Grazie alla disponibilità della Comunità Progetto Sud i giovani e le giovani  della Comunità  terapeutica Fandango, si sono messi in gioco e hanno rivissuto la loro storia, dolorosa e intima,  raccontandosi alla penna di Maria Chiara Caruso.

I loro sguardi, le loro parole, gli attimi sospesi, sono stati invece catturati dall’ obiettivo di Andrea Vesci.

All’evento inaugurale prenderanno parte: il co-fondatore di Comunità Progetto Sud, Don Giacomo Panizza, Roberto Gatto, responsabile dell’area dipendenze della Comunità Progetto Sud e l’assessore alla cultura del comune di Lamezia Terme, Giorgia Gargano, a cui va un ringraziamento particolare.

“Una mostra che vuole essere una manifestazione viva di uguaglianza, parità assoluta e totale assenza di giudizio nei confronti di chi soffre e che spesso viene emarginato dalla società e etichettato come tossicodipendente o alcolista – dice la curatrice Caruso.”Per questo motivo – continua –  Andrea Vesci ci tiene a ringraziare pubblicamente tutti i ragazzi che si sono messi a nudo rivivendo i loro drammi ma anche le loro storie di rinascita, gli operatori tutti che hanno reso possibile questo progetto e chiunque riesca a guardare quelle immagini con la consapevolezza che ogni vita va sempre rispettata”. “Vi aspettiamo  – conclude maria Chiara Caruso – sabato 16 Dicembre per condividere importanti storie di vita”.

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Mettiamoci in gioco coordinamento regionale della calabria: cifre da capogiro impiegate nel gioco d’ azzardo e la politica calabrese ritratta sulle uniche forme di contrasto esistenti. Chiediamo di essere auditi

4.205.993.489,89 di euro: è la stima dei miliardi giocati in Calabria nel 2021; 1.193.473.451,98 in presenza e quindi in ticket e lotterie varie e 3.012.520.037,91 nei gioco online.

«Difronte a questi numeri crescenti e preoccupanti, dei quali sentiamo il peso in ricaduta di qualità della vita e visto il numero sempre crescente di persone coinvolte nella dipendenza da azzardopatie, abbiamo chiesto di essere auditi in commissione regionale in merito alla proposta di legge 107 recante: “Modifica all’art. 16 della legge Regionale 26 aprile 2018, n° 9 (Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della ‘Ndrangheta e per la promozione della legalità, dell’economia responsabile e della trasparenza)”».

Questo l’oggetto e le motivazioni della lettera firmata da Roberto Gatto, presidente del coordinamento regionale Mettiamoci in Gioco e indirizzata al Presidente del Consiglio Regionale della Calabria On. Filippo Mancuso, al Presidente della Commissione Consiliare contro il fenomeno della ‘ndrangheta, della corruzione e dell’illegalità diffusa On. Giuseppe Gelardi e al vicepresidente della stessa commissione, On. Amalia Bruni.

«A seguito del nostro appello del 30 aprile del 2022, – scrive Gatto nella missiva –  il Consiglio regionale ha corretto la proposta di rinvio dell’entrata in vigore delle nuove regole sulle slot-machine, approvando il rinvio al 31/12/2022. Ad oggi veniamo a conoscenza che la commissione consiliare contro il fenomeno della ‘ndrangheta, della corruzione e dell’illegalità diffusa sta procedendo su iniziativa di alcuni consiglieri alla modifica dell’Art. 16 che impone dei limiti alla diffusione delle sale gioco nei territori dei comuni Calabresi».

«Riteniamo – continua – che dopo un breve periodo di pausa dovuto alla pandemia, le giocate sulle slot-Machine, sia in presenza che online, siano in rapida ascesa e si apprestano a raggiungere la cifra dei 110 miliardi di Euro (stima ul territorio nazionale). Molta gente pensa di affrontare la povertà con l’effimera speranza di una vincita al gioco e contemporaneamente vediamo che sempre più persone cadono nella dipendenza da Gioco d’Azzardo Patologico rivolgendosi quotidianamente ai nostri servizi. Quindi riteniamo che modificare la legge in senso peggiorativo togliendo i già flebili limiti all’offerta del gioco nei nostri territori sia un errore gravissimo».

«Quindi – conclude Roberto Gatto –  invitiamo la commissione a fermare la modifica dell’art. 16 della legge n° 9 del 2018 e contemporaneamente chiediamo di essere auditi presso la commissione per portare il nostro contributo e le nostre proposte. Da parte nostra, proponiamo che si attivi un Piano di accompagnamento e sorveglianza all’entrata in vigore dell’art. 16 della legge 9/2018, promosso dalla Regione con la partecipazione delle parti interessate, ovvero comuni, gestori delle sale e noi associazioni impegnate contro i rischi del gioco».

Il coordinamento calabrese Mettiamoci in gioco è composto da (ADA, Anteas, Centro Agape, ARCI Lamezia-Vibo, CREA, Coldiretti, Comunità Progetto Sud-CNCA, FEDERSERD, Federconsumatori, FICT, Forum delle associazioni familiari, Lega Consumatori, Libera, Vivere In)

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Rafforzare le relazioni, ripartire dalla comunità. Fandango per l’ open day 2020

“Rafforzare le relazioni, ripartire dalla comunità” è tema dell’ open day 2020 promosso dal Tavolo Ecclesiale Dipendenze di cui fanno parte Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Casa dei giovani, Compagnia delle opere-Opere sociali, Comunità Emmanuel, Comunità di Sant’Egidio, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict), Salesiani per il sociale-Federazione Scs/Cnos, in collaborazione con la Caritas italiana.

In tutta Italia il 14 e 15, il 21 e 22 novembre, diverse strutture delle organizzazioni sono state aperte alla cittadinanza e alle comunità ecclesiali, anche in modalità online a causa dell’epidemia di Covid-19 per fare conoscenza, ascoltare storie e condividere un pezzo di strada insieme. Aprire le porte per raccontare noi stessi, il lavoro che facciamo, le storie di chi anima le nostre strutture e i nostri progetti.

Anche la Comunità Progetto Sud, con la sua Comunità Terapeutica Fandango, che fa parte della rete del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (CNCA), ha trovato il modo per portare fuori dalle mura di Via delle Vigne, il proprio vissuto.

Durante le attività quotidiane in queste settimane abbiamo trovato il tempo di mettere insieme testimonianze di vita e di sentimenti che stanno attraversando i ragazzi e ragazze in questo tempo di pandemia.

Le abbiamo trascritte e oggi, domenica 22 novembre dalle 16.00 alle 17.00 le abbiamo condivise.

È stato fatto un lavoro di gruppo, come spesso avviene qui. Alle sollecitazioni degli operatori hanno risposto le persone che all’ interno di Fandango stanno facendo un percorso di cura  e reinserimento.

Ognuno ha trovato il proprio modo per esprimersi. Tanti hanno scritto e poi letto. Amedeo ha composto “Scriveremo”, musica e parole, per una canzone che racconta come è la pandemia vista da qui.

Un giorno lo racconteremo ai nostri figli o ai nostri nipoti mentre loro lo apprenderanno dai libri di storia e ci chiederanno: «Ma c’eri pure tu? Anche tu portavi la mascherina?» Diremo: «è passato, ma non è stato semplice» e ciò che immagino è che lo racconterò, di sicuro con un sorriso sulle labbra, aggiungendo «sai mi piaceva tanto usare mascherine simpatiche con tanti fiori pur non mostrando il mio sorriso».

Domani sarà così, oggi però il mio sorriso è ancora coperto da una mascherina. Ma oggi non uso più le mascherine di stoffa con i fiorellini, preferisco quelle ffp2 perché sono più sicure e perché il virus sta ancora prendendo troppo piede e perciò bisogna stare molto più attenti. Come dice mia nonna: “è disgraziatu e tu figlicella mia statti attenta”; sorrido ma dentro di me ho paura. Ho paura soprattutto per te, nonnina.

Il mio sorriso traspare ugualmente dagli occhi, ed è bello sentirselo dire dagli altri che se ne accorgono.  Non è facile spiegare che cosa si nasconde dietro la parola “coronavirus”.  Vivere una pandemia nel XXI secolo? Chi l’avrebbe mai detto! Dalla storia dobbiamo imparare e per dirlo con le parole di Alessandro Manzoni “Non sempre ciò che viene dopo è progresso”. È arrivato nel mondo in punta di piedi e improvvisamente ha preso il sopravvento nelle nostre esistenze.

Ha sconvolto il mondo intero, tutta la nostra quotidianità e sta mettendo a dura prova le nostre fragilità. Queste fragilità per molti si stanno trasformando in punti di forza e per tanti altri, purtroppo, si stanno trasformando in dolori difficilmente gestibili.

Il mondo intero si è trovato disarmato. Una mascherina non basta a proteggere le nostre vite. Però la frase, lo slogan di questo periodo “Ce la faremo” ci ha dato e ci dà coraggio.

Tutta questa situazione suscita paura, a me fa paura, a noi fa paura.

Perché? Ho paura per mia nonna, che ha 89 anni, mi fa paura per mio padre che ha problemi respiratori e mi fa paura per tutti quei ragazzi che oggi affrontano nella nostra Comunità un percorso Riabilitativo. Ragazzi e ragazze a cui la droga o l’alcool hanno contribuito a danneggiare la loro salute.

E io porto il carico della responsabilità non solo verso me stessa ma anche e soprattutto verso di loro.

La mattina prima di iniziare il turno entro in comunità disinfettando tutto e inizio la classica vestizione che tutti gli operatori del Sanitario fanno ormai da mesi tutti i giorni.

Come li capisco… capisco quanto sia pesante per ore e ore respirare con una mascherina che però protegge me e gli altri dal Coronavirus.

Una mascherina che protegge ma che mi fa respirare a fatica. Una tuta che mi impedisce di muovermi, che mi fa sentire un caldo assurdo, che mi fa sentire ingombrante. Ho gli occhiali e la mascherina mi impedisce di vedere in modo chiaro: tutto si appanna e io sto lì a pulirli in continuazione, a indossare guanti troppo grandi per le mie manine troppo piccole.

Tutto ciò non mi impedisce però di avere paura. L’attenzione è sempre alta, come ripete sempre la nostra responsabile: «la guardia non va mai abbassata!».

E poi ci sono loro, gli ospiti della Comunità: «Dai Angelì non c’è bisogno che mi stai lontano», «Angelì toglila questa mascherina che si vede che non ce la fai più», «non ti preoccupare che tu Covid non ne hai», a volte è difficile spiegare anche l’importanza che ha lo stare in silenzio, mi chiedo se loro stando ormai da mesi in struttura abbiano la consapevolezza di quello che succede ormai da mesi all’esterno.

Di certo a loro non fa piacere stare “chiusi”, non poter uscire per frequentare corsi di formazione, svolgere attività all’esterno, andare all’Erbaio e dedicarsi alla coltivazione del nostro orto sociale.

Forse non vivere “fuori” permette di non cogliere l’emergenza che ci circonda? Forse stare lontani dal contagio permette di vivere più sereni? Forse mi sbaglio. Forse non so neppure io cosa passa in ognuno di noi e forse ognuno di noi affronta la paura del Covid in modo diverso. Forse se ognuno di noi avesse più amore verso gli altri e verso se stesso riuscirebbe ad avere una soglia di attenzione maggiore? Forse… Quando fai un lavoro come il nostro una pacca sulla spalla di un collega aiuta, e tanto! Uno sguardo compiaciuto di una nonnina ti dà forza! Ma abbiamo imparato che anche un abbraccio, pur solo virtuale, inviato in un sms da un’amica ti dà coraggio, una parola di un ospite in Comunità e l’affetto e la carica che riceviamo ogni giorno ci spinge a continuare a far bene il nostro lavoro.

Chi mi conosce sa che riesco sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno, come si dice. E lo so che vedremo la luce in fondo al tunnel anche se ora sembra ci sia solo nebbia. O forse sono gli occhialini che mi appannano la vista 😉

Credo nel senso civico delle persone, anche se è stato necessario attuare misure estreme affinché la distorta percezione del rischio per qualcuno diventasse reale. Credo nel sacrificio che è stato richiesto a ognuno di noi. Credo anche che il Covid stia avendo un rilevante impatto psico-sociale oltre che economico. È una vera battaglia e le vere armi per combattere il virus siamo noi, le persone, la speranza, l’empowerment, il buon senso, i farmaci, i DPI, i professionisti con la loro formazione e professionalità, la responsabilità, la ricerca. Noi continuiamo a lottare insieme, ognuno con le proprie competenze e possibilità.   Forza e coraggio, non solo oggi, ma anche domani. #ANDRATUTTOBENE.

 Angelina Ianchello, operatrice della Comunità terapeutica Fandango, Lamezia Terme.

 

Sono Adriana un’operatrice della Comunità Terapeutica “Fandango”, a Lamezia Terme, in Calabria.

Mi è stato chiesto di raccontare la mia esperienza di lavoro e le mie sensazioni in questo tragico periodo di crisi che sta attanagliando l’umanità a livello globale. Penso non serva specificare a cosa mi riferisco perché purtroppo abbiamo tutti imparato a convivere col termine “Covid-19”. Tutto è partito in Cina a ridosso tra il 2019 e il 2020 quando il telegiornale continuava a parlare di una particolare epidemia che stava decimando la popolazione, mettendo in ginocchio l’epicentro di un’ignota cittadina chiamata Wuhan. Già … in Cina. Ma noi eravamo in Italia giusto? Quindi perché dovevamo preoccuparci per un qualcosa che stava accadendo tanto lontano da noi?

Eppure, ahimè, in brevissimo tempo tutto è cambiato mettendoci di fronte a un’emergenza che in poco tempo avrebbe scombussolato la vita di tutti.

A febbraio l’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità) dichiara l’emergenza sanitaria e in brevissimo tempo si sarebbe parlato di “pandemia”, una parola a cui la nostra generazione non era abituata se non per quanto letto sui libri di storia alla voce “Spagnola”.

Da quel momento tutto è cambiato. Dal 10 marzo 2020 l’Italia intera diventerà zona protetta: ci è stato chiesto dal nostro Governo di restare a casa e l’Italia si è fermata! Per limitare il diffondersi della malattia ci viene chiesto di indossare delle mascherine, di mantenere il distanziamento sociale, di lavarsi frequentemente le mani, mantenere puliti i nostri ambienti e di controllare la nostra temperatura corporea. Abbiamo iniziato a indossare le tanto odiate mascherine, da quelle chirurgiche alle FFP2 a quelle di stoffa colorate e fantasiose; all’inizio è stato molto difficile accettare tutto questo ma ora prima di uscire di casa ognuno di noi, oltre a chiavi e cellulare, ha con sé una mascherina!

Durante l’estate tutto è sembrato essere tornato alla normalità… abbiamo messo da parte l’emergenza dimenticandoci del virus.

Ma è arrivato ottobre e il virus sembra essersi risvegliato… Aumento dei contagi, nuovi focolai, di nuovo scatta l’emergenza e l’Italia viene colorata nuovamente: un po’ rossa, un po’ gialla e un po’ arancione.

Questa volta solo alcune regioni si colorano di rosso, tra cui la nostra amata terra Calabra e ci troviamo a vivere nuovamente nella confusione, nell’incertezza e nella paura già provata quest’inverno quando si iniziò a parlare di Covid-19.

Non nascondo di aver attraversato anch’io momenti di paura. A tratti li vivo tutt’ora.

Chissà, forse avranno ragione anche quelli che dicono che la TV esagera e che forse stiamo ingigantendo la cosa, ma al momento mi sento come se la mia “normalità” fosse in qualche modo in standby. Ferma.  Ad aspettare quel pizzicotto che ti sveglia da quell’ incubo assurdo che stai facendo. Insomma, avete presente la tranquillità e la spensieratezza a cui eravamo abituati? Ecco, per ora siamo da tutt’altra parte.

Devo ammettere però che la vita di Comunità ha aiutato molto anche me. Per carità, non nego che sia molto difficile svolgere le normali attività bardati coi DPI, ma ci si adegua e si cerca in tutti i modi di salvaguardare la salute dei nostri ragazzi e ragazze. In fondo, non bisogna dimenticare che per loro siamo noi operatori il pericolo maggiore. Siamo noi quelli che andiamo in giro, e di conseguenza siamo noi che potremmo portare il virus nella nostra struttura rischiando di contagiare gli utenti dei quali ci prendiamo cura ogni giorno.

Ma devo dire che recarmi al lavoro mi fa stare meglio. Con i colleghi e gli utenti, all’interno della struttura, ci sentiamo in qualche modo isolati, protetti, al sicuro. E nonostante i disagi, i dispositivi di sicurezza e le distanze che sempre manteniamo, in qualche modo quello che facciamo mi dà serenità. Infatti, mi chiedo: in questo momento sono io che aiuto gli utenti di Fandango, o sono loro che contribuiscono a non farmi scontrare continuamente col pensiero della pandemia?

Io una risposta non sono ancora riuscita a darmela, ma di sicuro ce la metteremo tutta per salvaguardare la salute dei ragazzi e per ripagarli in qualche modo per l’aiuto che anche loro ogni giorno danno a me. Quando questo nemico invisibile sarà sconfitto anche la confusione e la paura scomparirà lasciando spazio alla spensieratezza e alla libertà!

Non mi arrenderò e non mi abbatterò. Mai mollare … Ce la faremo …!

Adriana Barbarossa, operatrice della Comunità terapeutica Fandango. 


Riflessioni a ruota libera

“Covid” questa è la parola che risuona nelle nostre orecchie, la parola che ci fa pensare, che mette in moto le nostre più profonde paure, attenzione, precauzione, contagio, morte, salvezza, speranza, resistenza, tutto un cocktail di emozioni, gesti e pensieri a cui ci appelliamo per cercare di fronteggiare questa terribile bestia. Persone che hanno gridato aiuto e purtroppo tutto questo non è servito. Pandemia così è stata definita.

Il mondo si è fermato per tre lunghi mesi, nella storia l’umanità ancora una volta è messa alle strette con un qualcosa a cui ancora non trova rimedio e non può fronteggiare.

Chiusi e al riparo da questa tempesta la preoccupazione di poter essere contagiati, la stanchezza di essere rinchiuso, l’amarezza di non poter abbracciare un proprio caro un proprio amico o semplicemente una normale vita quotidiana. Distanziamento, ci dicono, la vita da ora in poi non è più la stessa. La paura ci opprime, il dubbio di non potercela fare ci rende ancora più irrequieti.

L’umanità lotta con tutti i mezzi a disposizione ma senza conclusioni, senza concretezza. Un lockdown continuo, aumentano i morti e i contagi, la morte bussa e la porta è sempre aperta.

Scienziati, infermieri, medici, volontari, lottano quanto meno nella speranza di avere un responso positivo e poter dire che qualcuno c’è l’ha fatta ed è guarito.

La speranza: sì proprio a questa ci appelliamo come nostra unica salvezza, ancora una volta affidiamo la nostra vita in mano ad essa, in mano a un destino che se davvero lo vorremmo non ci volterà le spalle ma ci renderà persone migliori.

Amedeo

Le mie emozioni per il coronavirus che sto vivendo in questo momento: sono paura e ansia anche perché io ho problemi di salute e quindi la paura è doppia. Spero che tutto possa tornare come prima.

Giuseppe

 

Io, questo coronavirus lo sto vivendo con la preoccupazione che nonostante essendo in una struttura protetta gli operatori che sono al nostro servizio, avendo anche loro una vita provata all’esterno della struttura, aumenta il rischio di poter essere contagiati.

Sebastian

 

Io in questo momento sto vivendo la comunità un po’ diversa dai primi tempi, nel senso che si comincia ad avvertire un po’ di ansia perché non si esce più, vedo gli operatori con mascherine e tuta e mi convinco che il rischio c’è ed è reale nonostante siamo tutelati.

Fabio

 

Penso che sia arrivata la fine del “mondo”, non c’è bisogno di andare oltre la frase. Finisce, punto.

Pasquale

 

In questo momento le sensazioni che provo per il coronavirus non sono tante visto che siamo chiusi. Non avendo contatti con l’esterno non mi rendo conto della gravità che realmente si vive fuori visto che la prima ondata l’ho vissuta all’esterno ed è stata una brutta esperienza; non potevo andare neanche dai miei per vederli. Come emozioni si vive ansia, paura e angoscia. Qui dentro non ho provato tutte queste cose ma un po’ di paura quando qualcuno si ammala, io in primis.

Francesco

 

Niente. Io sono entrata in comunità il 9 ottobre. Sono partita che già fuori c’era questa pandemia così brutta da dire, e da vedere tramite il telegiornale. Niente. Sopra a questo punto di vista la cosa più brutta è stato quello di stare chiusa in una stanza per 10 giorni.

Ma prima di succedere ciò sono stata altri 15 giorni a casa da papà e altri 20 all’ospedale … onestamente tutto ciò che mi fa molto paura anche perché con la mia salute attuale che ho ciò mi fa spaventare parecchio.

Mi fa stare male ciò ancor di più. Spero che tutto ciò si possa sistemare nel migliore dei modi e che la vita torna a essere come prima.

Valentina

Questo coronavirus lo vivo male, perché il mio unico pensiero sono i miei figli, per cui vorrei essere vicino a loro per dargli la forza con la mia presenza.

Carmelo

 

A me sinceramente del coronavirus non è che poi me ne frega più di tanto. Anche perché a mio modesto parere, la cosa viene amplificata. Da noi in Svizzera un vero e proprio lockdown non c’è mai stato, perciò non riuscirei nemmeno a spiegare o a raccontare un’esperienza di questo genere. Le devo descrivere la sensazione o l’esperienza che sto vivendo in questa situazione particolare del Covid-19 all’interno della comunità, posso dire che la vivo abbastanza tranquillo. Se proprio dovessi descrivere un momento di ansia o preoccupazione, è ogni qual volta ci viene comunicato dai responsabili lo stato attuale fuori, ma poi passa subito.

Dato che ho un genitore fuori, mio padre, che si sta sottoponendo a degli esami e a delle terapie per un malore, è questa l’unica circostanza che mi fa riflettere e preoccupare un po’. Per il resto, non credo a tutti gli effetti ai media, giornali e notizie sul web. Per non parlare del governo ridicolo, vergognoso, incoerente e corrotto che amministra questo paese. FUCK COVID19. Viva la libertà. Viva la salute.

Gianfranco

 

In questi giorni di quarantena per il coronavirus da quasi un anno, pensavamo che l’avevamo superata tutta questa situazione ringraziando tutti i medici e tutte le persone che si sono dati da fare. C’è stato un periodo di chiusura, si poteva uscire di casa solo per emergenza. Adesso purtroppo la situazione è molto grave rispetto a quella di febbraio, c’è tensione, paura, e se hai febbre o tosse pensi subito al coronavirus. Io adesso sono lontano dalla mia famiglia e penso a quelle persone che hanno perso parenti e figli. Io sono entrata in comunità il 5 novembre del 2020. Ho dovuto fare il tampone prima di entrare e ho fatto 10 giorni di quarantena. È brutto stare in una stanza senza uscire, usare la mascherina, stare a distanza dagli altri.

Io la sto vivendo così in comunità perché dentro non capisci cosa sta succedendo veramente. Sai qualcosa solo tramite i telegiornali, mi fa stare male vedendo i medici carabinieri con quelle tute, con mascherine e guanti di lattice. Io spero che ce la faremo e supereremo questa crisi, e che passerà tutto.

Natascia

 

In questo periodo che sto trascorrendo in comunità viviamo questo grande problema causato dal covid 19. Non essendo la prima comunità ora la sto vivendo malissimo perché a causa di ciò non si può uscire, non si possono fare incontri con i parenti, insomma tutto è in un “circuito chiuso” e bisogna ogni giorno adoperare le dovute precauzioni per la nostra e l’altrui salute. Le sensazioni e le emozioni che mi sto vivendo non sono delle migliori, ci sono giorni tristi che non ho neanche voglia di parlare con gli altri, però poi pensando a quello che sta succedendo fuori di qui mi rianimo e cerco di trovare la forza e la motivazione per ritornare a sorridere e trascorrere le giornate più positivamente. La paura che questo virus possa entrare qui all’interno è altissima, e anche se siamo tutelati l’ansia che provo dentro di me mi fa essere diverso, e a volte anche di notte ci penso e prego perché si riuscirà a studiare un vaccino idoneo e che tutto ritorni nella normalità.

Fabrizio

 

Ai tempi del covid-19 io sono stato fuori e ho avuto difficoltà a vivere con questo coronavirus. Quando sono entrato in comunità ho visto una vita diversa, da fuori ho visto gente che veramente soffre, persone che lavorano in questi tempi difficili. Qui ho visto i nostri operatori fare molti sacrifici per stare con noi.

Andrej

Decido io di entrare in comunità per curarmi: il periodo non è facile, a causa covid incontro qualche difficoltà a entrare… Tampone obbligatorio; esito negativo. Appena entrato: quarantena 10 giorni, brutti, sempre solo e non potevo stare con gli altri. Lì capisco la gravità di ciò che significava covid 19, parola da me sempre ignorata e presa alla leggera. Nemmeno a un mese di distanza mi ammalo di FEBBRE … sono tanti i miei pensieri; visto in tv ciò che succedeva ho temuto di aver contratto il covid 19, isolamento, e di nuovo noia e riaffiorano sensi di colpa e tanta rabbia. Doloroso stare staccato dal gruppo, anche se non ero da solo.

1° tampone nell’attesa del risultato il buio e l’ansia, ma tutto bene negativo. Tachipirina e passa la febbre, ma ancora in isolamento … uff.

2° tampone più approfondito, la stessa sensazione. Negativo per la seconda volta. Tutto si è risolto, momentaneamente. Via dalla quarantena si ritorna a vivere ma con molta prudenza.

Orazio

 

Io credo che la cosa venga “ingigantita”. All’interno della struttura mi sento tutelato perché credo che sia molto difficile essere raggiunti dal virus, ma non si può avere mai la certezza. Comunque confido nelle persone che sono qui a darci una mano, ma non possono farlo in tutto; mi riferisco al fatto che io come tanti altri abbiamo figli fuori e se devo essere sincero vorrei essere lì in questo momento. Tuttavia confido nella mia famiglia e cerco di starmene tranquillo. Per il resto la percezione all’interno della struttura, di quel che succede fuori, la si ha dai nostri operatori che svolgono un ruolo di enorme responsabilità nei nostri confronti e nelle loro famiglie. Per questo mi sento di dirgli grazie perché quello che fanno non è da tutti. Spero vada tutto bene e che si torni prima possibile alla normalità.

Marco

 

Quello che sto vivendo in comunità in questa terribile pandemia è un momento lungo e particolarmente confuso che mi ha costretto a pensare di meditare sulle ineluttabilità ma anche sulle fragilità della vita umana e sulla possibilità sempre più vicina di morire. Quando siamo entrati in emergenza questo inverno sono stata male e ho avuto paura.

Lara

 

Quello che sto vivendo adesso di sicuro è molto diverso dal mese di marzo, perché la prima ondata del virus mi trovavo fuori dalla comunità e quindi non davo molto peso alla cosa. Uscivo sempre senza preoccupazione, per me pensavo solo alla mia famiglia e cercavo di proteggerli il più possibile. Adesso, invece, posso dire che mi ritengo fortunato a essere in un luogo protetto come la comunità perché adesso sembra che la situazione dei contagi specialmente in Calabria sia più grave, vedendo le notizie del telegiornale, perché in questo luogo non si dà peso realmente alla gravità della cosa non vivendo fuori la vita quotidiana.

Il mio pensiero è questo: secondo me stanno esagerando con il divulgare certe notizie perché questo si sa che è il periodo delle prime influenze e dei primi raffreddori, quindi si dovrebbe stare attenti e rispettare tutti i protocolli e le regole ma non si può vivere tutti i giorni con la paura di un semplice raffreddore. Sentendo i virologi parlare in questo periodo, è normale avere sintomi di tosse, febbre, dolori, ecc. quindi di non preoccuparsi più di tanto perché secondo me fanno pure tanto falso allarmismo.

Gianpiero

Inizio pandemia e informazione dicembre 2019, molta confusione e tanta paura. Non si conosce tutt’oggi bene il covid-19, all’inizio aumentano i casi e facevo solo caso ai numeri dei decessi e anche dei guariti e dei positivi. Non erano corrette molte informazioni se non provenienti sul sito del ministero della salute. Molte notizie fake in rete on-line, spesso mi capitava di andare in confusione sull’argomento “mascherina sì, mascherina no”. Poi sentivo dire di restare a casa, con la pubblicità del ministero della salute di restare a casa e che se si avevano sintomi influenzali di comunicarlo al numero dedicato. Avevo molta paura perché non avevo ancora realizzato cosa mi circondava, poi, durante tutte le ricerche e le testimonianze, finalmente esce il “tampone” dove ti dava una speranza per capire se avevi contratto il virus o meno. Fino al 3 maggio 2020 molta paura e chiuso in casa, se si usciva uscivo solo per andare in farmacia o a comprare le sigarette. Con le mascherine introvabili e usando i guanti monouso mi facevo forza e facevo ciò che era opportuno fare. Durante il periodo e dopo il 3 maggio continuavo a far uso di eroina, un po’ per non affrontare la paura e l’ansia.

Il 6 luglio entro in comunità, prima del 6 dello steso mese feci il tampone aspettando l’esito, finalmente “negativo”. Entro in comunità e subito in quarantena per 14 giorni dove ho vissuto in camera solo e con la tv che mi faceva compagnia per tutta la mia quarantena. Non ho avuto sensazioni di malessere perché mi guardavo attorno e vedevo persone negative al covid e mi rassicuravo. Devo dire che la quarantena è stato un tempo per rilassarmi e concentrarmi su me stesso e dove mi trovo. Oggi alla seconda ondata mi sento sicuro e tranquillo perché so che sono in un ambiente protetto, utilizzando prodotti speciali e dovute precauzioni si può attenuare la tensione che si può percepire.

Prima della seconda ondata non ho per niente avvertito il pericolo, proprio perché mi ritrovo per fortuna in una struttura protetta. “Essendo attenti a tutto, non dobbiamo temere il coronavirus, ma egli stesso deve temere noi”.

Daniele

 

Se mi avessero raccontato quello che ho fatto e continua a fare il mondo fuori da qui, ad oggi, non ci avrei creduto. Chi avrebbe mai detto che per entrare in comunità mi sarei dovuto sottoporre ad un, fino ad allora sconosciuto, tampone molecolare, fastidioso grosso “cottonfiok” che ti inseriscono in gola fino a strofinarti le tonsille e poi nel cavo orale, fino a toccare le pareti della laringe. Bene! Spero solo di essere tra quelli che lo potremo raccontare ai propri nipoti come una storia di pura fantasia, ma realmente esistita, con vincitori su tanti purtroppo vinti, da un nuovo virus chiamato CORONA.

CORONA fino ad oggi non era più di un oggetto da principessa o regina o al massimo un cognome. Oggi 17.11.2020, quando lo si nomina fa paura, incute timore e voglia di proteggersi da chi lo pronuncia. Sarà forse la fine? Sarà forse un nuovo inizio? Sarà solo una delle guerre mediatiche? Infine, spero tanto che possa essere solo un fatto da raccontare, con tanto di rispetto e stima per chi non c’è più, e per chi, con tanto sforzo e sacrificio, lavora in condizioni quasi disumane. Che possa essere di monito, per chi come me, finora non ha fatto altro che giocare alla roulette russa con la propria vita, talvolta distruggendola ad altri. Corona: che tu possa presto essere sconfitto …

Paolo

 

Era marzo del 2020 quando sentii parlare per la prima volta di covid-19. Io non mi ero reso conto della gravità, perché essendo chiuso in una comunità terapeutica dal 15/11/19. Prima che scoppiasse questa epidemia la mia reazione fu così: mi ricordo che dissi “sarà la solita influenza che durerà il tempo di un vaccino”, ma rimasi scioccato quando vidi che i mesi passavano e il problema rimaneva anzi peggiorava. Mi ricordo che non solo noi utenti eravamo presi da sgomento, ma anche gli operatori.

Perché vi dico che noi utenti non sentivamo tanta pressione perché essendo chiusi in una struttura terapeutica non si percepiscono tanto le paure del mondo esterno, perché ovattati nel nostro microcosmo. Davvero è difficile capire quello che succede nel mondo, se non attraverso i media, notizie che mettevano i brividi perché confuse e imprecise. Ma devo in questo caso ringraziare i nostri angeli custodi che sono le persone che ci seguono per i problemi di tossicodipendenza che è già un dramma, per noi, ma con l’aiuto loro siamo stati tranquillizzati e il panico iniziale cominciò a scemare senza però sottovalutare questa epidemia, prendendo seriamente il fatto di disinfettare noi stessi e l’ambiente in cui abitiamo. Ora è il secondo lockdown che faccio in comunità spero che le cose ritornino come prima.

Salvatore

 

La vita in comunità in questo momento storico ha subito molti cambiamenti che si sono manifestati in maniera pratica e altresì con impatto psicologico. Noi tutti abbiamo avvertito questo cambiamento nella quotidianità di tutti i giorni, le continue e allarmanti notizie dei media ci hanno bombardato con segnali preoccupanti. I nostri operatori ci hanno continuamente aggiornato sulle situazioni esterne alla comunità, poiché noi viviamo una condizione che si può definire protetta, vivendo in un luogo isolato e abitato con delle persone che non hanno contatti l’esterno. Praticamente le nostre brevi uscite sono state sospese, così come il nostro lavoro in campagna che ci portava per mezza giornata fuori dal nostro ambiente e che ci ristorava con l’esperienza di un contatto con la natura e l’aria aperta.

Le regole all’interno della comunità sono cambiate in quanto abbiamo dovuto adeguarci alle misure di prevenzione. Personalmente questa situazione mi fa un po’ paura. Sentire i bollettini di tanti morti nel mondo e così tanti infetti, che non mancano neanche vicino a noi, mi provoca un senso di confusione e anche di impotenza di fronte ad una minaccia così grande. Temo, più che per me, per i miei cari e sono diventato molto apprensivo.

Raccomando sempre alle mie figlie di essere previdenti e attente, sebbene hanno la loro giovane età sono molto mature.

Spero vivamente che questo orrore possa finire presto, anche se i tempi per un vaccino su scala mondiale si preannunciano lunghi. Beh, che dire … “io speriamo che me la cavo!”

Roberto

 

Non ricordo con preciso, ma è stato prima della mia entrata in comunità, tra il 10 e 15 febbraio, aspettavo un amico in un calcio scommesse al caldo, dovevamo andare a fare la “storia”. Per passare il tempo davo un’occhiata alle news del mondo che davano sullo schermo, là lessi per la prima volta COVID-19.

Questo appellativo inizia ad avere un senso vero e proprio i primi mesi di marzo, quando l’Italia dà l’alba ai primi provvedimenti COVID-19, fino alla chiusura totale, ed io, probabilmente, non me ne rendevo ancora conto della sciagura che tutt’ora viviamo. Una data che ricordo bene è il 18 febbraio, un giorno che per me oggi ha tutta un’altra consapevolezza. Per chi crede nella fortuna, io ho avuto fortuna!

Quel dì entrai in comunità. Di certo il mio fato sarebbe stato diverso da quello di oggi, se non fossi entrato prima del “Lockdown”. Dio solo sa cosa mi sarebbe successo, vivendo l’inferno là fuori: io, il covid e la mia tossicodipendenza, una threesome da urlo. Non da poco, da prendere in considerazione, la prassi che hanno dovuto seguire i miei compagni per entrare in seguito al lockdown, una quarantena di 15 giorni chiusi in una stanza, soli e in piena astinenza da sostanza, probabilmente, conoscendomi, non ce l’avrei fatta. Un giorno, prima dei provvedimenti COVID, vennero in comunità i famigliari di Vincenzo, un utente. Si presentarono con mascherina e restavano a distanza da noi. Il primo pensiero “questi sono matti”, perché per noi il COVID era solo un nome, non un problema. Era ancora il classico pensiero che fai, del tipo, un problema lontano da noi, succede altrove, non certo qua, per noi era ancora solo una notizia al TG.

Si potrebbe pensare che per un ragazzo in comunità, il lockdown dovrebbe essere stato più semplice, tanto è abituato a stare chiuso, lo pensavo anche io, ma non avevo messo in conto alcuni fattori. L’agitazione e la paura che gli operatori ci trasmettevano venendo qua da fuori, perché giustamente loro lo vivevano fuori il dramma, ne erano più consci, e noi sempre tra sogno e realtà, tra realtà e follia. Il non vedere per nulla le proprie famiglie, visite abolite, anche qua pensavo fosse più facile ma non lo è stato e non lo è per niente. Il fattore più importante è la paura dell’ignoto, il non sapere che fare, non saper di che morte morire. Con l’estate il tutto si è mollato un po’, oggi l’angoscia torna, cosa accadrà?

Bernardo

 

È da mesi ormai che si sente parlare di coronavirus (covid-19) esattamente qui in comunità dove mio trovo dal 25/02/20 la quotidianità è venuta a cambiare i primi di marzo, tutto lo staff, gli operatori, i responsabili e lo psichiatra di conseguenza noi utenti, siamo stati costretti a modificare anche le solite abitudini.

Dall’esterno se ne sente parlare molto. All’inizio con la prima ondata di contagi, concentrata più al nord Italia essendo ignoranti sul virus, la comunità ha cercato di ottenere più informazioni possibili per limitare i danni. Personalmente, visto la chiusura e non potendo avere contatti con l’esterno, il concetto di pericolo di contagio vero e proprio non l’ho mai avuto. Con la seconda ondata di contagi esterna, avvenuta da 20 giorni a questa parte, anche il modo di gestire la situazione è stata più accurata, considerando anche il fatto che molte regioni del sud prima non erano zona rossa. Adesso però a livello di contagi abbiamo superato addirittura città del nord, c’è una paura maggiore e si è alzato il livello di prevenzione da parte di tutti, staff e utenti al seguito, soprattutto per una tutela nei nostri confronti e della comunità.

Fin dalla prima riunione di gruppo con Sergio che facemmo nel campo per mantenere la distanza tra di noi, che poi si è rilevata una dinamica non applicabile visto che convivendo insieme nella stessa struttura non è applicabile, perché il contagio ci sarebbe a catena! Quindi gli operatori o chiunque della progetto sud con orari e protezioni varie cercano di svolgere con normalità il loro lavoro. Mentre noi siamo stati educati ad usare delle norme igieniche più accurate ed evitando quanto più possibile il contatto con l’esterno. Il prezzo più alto da pagare per me, ma penso anche per gli altri utenti, è quello di non poter vedere i propri familiari. Con questo è impossibile svolgere le attività di gruppo al di fuori, ed è un altro limite per me difficile da superare, ma ho imparato nella vita ad adeguarmi alle situazioni e quindi pur essendo impossibilitata a vedere i miei figli non potendo andare a casa e rinviando alcuni impegni esterni a quando si potrà di nuovo ritornare alla normalità, “speriamo presto”, impegno il mio tempo concentrandomi su me stessa per adesso. Però ho una prospettiva di visione su come potrà essere il mio futuro una volta che sarò fuori. Infatti, anche da situazioni negative si può trarre spunto e vantaggio ed è quello che ho fatto. L’idea di iscrivermi al corso di OSS è scaturita anche da questo, aiutare gli altri nel sociale soprattutto in questo periodo la richiesta al livello socio-sanitaria è molto richiesta, mi ha acceso la lampadina e ora più che mai nonostante alcune dinamiche di avversità e imprevisti tra cui proprio il coronavirus, che mi sta rallentando, vado avanti. Qui si evita più possibile ogni situazione di contagio, quindi personalmente mi sento limitata, ma al sicuro, aspettando in una somministrazione di cura per tutti i contagiati un augurio che questo periodo finisca e che tutti i cittadini del mondo ritornino a una vita per lo più normale, anche se non sarà facile per i familiari delle vittime del covid-19. Andare avanti è l’unica cosa che mi ci permette di limitare i danni! Vivere il presente anche se con difficoltà per avere un futuro migliore.

Luana

 

G.A.P. AL LICEO FIORENTINO SE NE PARLA CON LA CAMPAGNA METTIAMOCI IN GIOCO

Don Armando Zappolini, portavoce nazionale della campagna contro il gioco d’azzardo “Mettiamoci in gioco” e Mimma Scigliano, giornalista, scrittrice e autrice che da diversi anni realizza reportage narrativi, hanno incontrato gli studenti del Liceo Classico Francesco Fiorentino di Lamezia Terme.

Nel salone della Biblioteca, i co-autori di “Mettersi in gioco? L’ azzardo: dalle storie di dipendenza alle strategie per combatterlo” hanno tenuto un incontro, organizzato da Roberto Gatto e dai membri del coordinamento calabrese della  campagna Mettiamoci in gioco, che ha messo a confronto le narrazioni e le riflessioni raccolte nel libro edito dalla San Paolo con il prezioso lavoro di ricerca sulle dipendenze da gioco realizzato, con l’ ausilio esterno dell’  associazione «VIVERE IN» e con il  servizio dipendenze dell’ ASP, dagli studenti lametino. Non una semplice rappresentazione della consapevolezza del problema “azzardo”, ma una raccolta dati che, grazie ad un questionario somministrato agli alunni delle classi II e V, ha restituito uno spaccato razionale della percezione del fenomeno Gioco d’ azzardo Patologico (G.A.P.).

Se il 90% degli intervistati non sa cosa sia il GAP, il 57% dispone mensilmente, in media, tra 50-70Euro (ha quindi a disposizione un “gruzzoletto” – parliamo di ragazzi tra i 15 e i 17 anni) che nella maggior parte dei casi sono frutto della cosiddetta “paghetta” familiare.

Il 61% pensa si possa diventare giocatori d’ azzardo e, dato positivo, secondo quanto dichiarato,  l’ 80% non ha casi in famiglia, mentre il 3% delle classi seconde ed il 4% delle quinte ammette di avere avuto dipendenza. Ben oltre la metà e cioè il 71% degli intervistati è consapevole che esiste un legame tra le mafie e il gioco d’ azzardo.

La proiezione dei dati 

videointervista a Don Armando Zappolini

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METTERSI IN GIOCO? L’ 1 FEBBRAIO AL LICEO FIORENTINO DI LAMEZIA TERME

Armando Zappolini e Mimma Scigliano, autori di “Mettersi in gioco? L’ azzardo: dalle storie di dipendenza alle strategie per combatterlo” edito da San Paolo con la prefazione di Padre Alex Zanotelli, saranno al Liceo Classico Francesco Fiorentino di Lamezia Terme sabato 1 febbraio alle 11 per incontrare la comunità scolastica e affrontare, con gli alunni e le alunne dell’ Istituto lametino, la tematica delle AZZARDOPATIE.

Per gli alunni della V C sarà l’ occasione di mostrare gli elaborati frutto dei laboratori curricolari in cui èstato possibile approfondire  il tema legato al gioco d’azzardo patologico.

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Gli autori

Don Armando Zappolini è parroco di Perignano, Quattro Strade, Lavaiano e Gello, tutti paesi del pisano. Dal 2011 al 2018 è stato presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza.

Nel 1990 ha fondato la comunità per tossicodipendenti di Usigliano e nel 1991 l’associazione Bhalobasa in favore delle comunità del Sud del mondo. Nel 2018 è stato nominato direttore della Caritas della Diocesi di San Miniato. 

È portavoce nazionale della campagna contro il gioco d’azzardo “Mettiamoci in gioco”.

Nel 2017 ha pubblicato il suo primo libro “Un prete secondo Francesco” ed. San Paolo.

Mimma Scigliano, giornalista, scrittrice e autrice, da diversi anni realizza reportage narrativi, raccontando storie vere e analizzando fenomeni sociali.

Come nel suo primo libro Amori senza diritti. Storie di coppie omosessuali con figli, pubblicato nel 2010 da Editrice Zona.

Da due anni è autrice della casa editrice San Paolo, ha collaborato ai libri: Un prete secondo Francesco di Armando Zappolini, (R)esistere a Scampia di Ciro Corona e La toga addosso di Paola Ortolan.

È anche autrice di audio-documentari per il programma di Radio 3 “Tre Soldi”.

 

Sinossi 

METTERSI IN GIOCO? 

Partendo dall’esperienza di don Armando Zappolini, portavoce della campagna contro l’azzardo “Mettiamoci in gioco”, il libro racconta e documenta un fenomeno sociale molto diffuso, del quale non si ha ancora una percezione profonda. 

L’intento è di informare tutti e di aiutare chi è caduto in questa spirale, e i suoi famigliari, con indicazioni utili e precise.

Il filo narrativo è rappresentato dalle testimonianze di giocatori patologici, in percorso di recupero presso la Comunità residenziale di Festà, in provincia di Modena. 

Alle loro storie s’intrecciano le voci di operatori, attivisti e collaboratori della campagna “Mettiamoci in gioco”, un osservatorio privilegiato sui temi del gioco d’azzardo: i costi economici e sociali, i rischi sanitari e per la collettività, le facce di una dipendenza “senza sostanza”, difficile da intercettare e da prevenire, il limite tra il gioco legale e il gioco illegale.

Infine, gli autori fanno il punto normativo sul tema: dal divieto di pubblicità del gioco d’azzardo alla necessità di una legge che ancora aspetta di venire alla luce.

I proventi sui diritti d’autore di questo libro saranno devoluti a “Mettiamoci in gioco”, campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo

Robero Gatto

L’on. Franco Sergio tenta di sabotare la norma regionale sulle slot-machine

La legge regionale 9/2018, all’art.16, disciplina gli orari di apertura e le distanze che devono avere le sale giochi con vincite in denaro, dai luoghi di aggregazione sociale (scuole, impianti sportivi, stazioni ferroviarie, ecc).

E’ stata una vittoria delle associazioni che da anni denunciano i gravi rischi connessi alla totale liberalizzazione delle slot-machine e delle macchinette che distribuiscono sogni e regalano povertà e dipendenza patologica. La legge regionale 9/2018 è un risultato parziale perché in molte parti la norma non è ancora realmente attuata, ma è un risultato da salvaguardare dagli attacchi quotidiani che provengono dai gestori delle sale giochi.

In questo contesto, ci risulta che l’on. Franco Sergio, presidente della prima commissione del Consiglio Regionale della Calabria, stia per proporre un emendamento alla legge 9/2018 che punti ad annullare l’effetto regolatorio della norma regionale.

Fin d’ora esprimiamo la nostra posizione assolutamente contraria a qualsiasi forma di depotenziamento della norma regionale vigente ed al contrario auspichiamo la sua piena attuazione.

Nel caso in cui la commissione consiliare volesse valutare la possibilità di apportare modifiche alla legge regionale chiediamo di essere preliminarmente ascoltati per esporre la nostra posizione al riguardo.

Mettiamoci in Gioco è un coordinamento nazionale di associazioni contro i rischi del gioco d’azzardo. Il coordinamento calabrese è composto da (ADA, Anteas, Centro Agape, ARCI Lamezia-Vibo, CREA, Coldiretti, CNCA, FEDERSERD, Federconsumatori, FICT, Forum delle associazioni familiari, Lega Consumatori, Libera, Vivere In)

Lamezia Terme (CZ), 23 novembre 2019

Immagine in evidenza: Roberto Gatto, coordinatore regionale campagna Mettiamoci in Gioco

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Lamezia, voci e testimonianze nell’Open Day alla Comunità Fandango

di Giulia De Sensi

Sono storie straordinarie, di speranza, fragilità, accoglienza, a volte di redenzione, dalle quali si può imparare: sono le storie degli ospiti della Comunità terapeutica Fandango, che nasce a Lamezia nell’aprile 1992 da un percorso già avviato all’interno della Comunità Progetto Sud, come centro dedicato al recupero dalle dipendenze.

Dipendenze che oggi sono spesso multiple, e comprendono non solo l’abuso di sostanze stupefacenti, ma anche l’alcolismo, la ludopatia e la dipendenza da internet molte volte associate. A parlarcene in maniera introduttiva sono Angela Muraca, responsabile del programma terapeutico, e Roberto Gatto, responsabile dell’area dipendenze, che aprono le porte alla stampa in occasione dell’Open Day organizzato dalla rete nazionale del Tavolo delle dipendenze, cui Fandango aderisce. “Dagli anni ’90 ad oggi – sottolinea la Muraca – la situazione delle dipendenze si è notevolmente evoluta, sia dal punto di vista dell’esordio, che è sempre più precoce, sia per quanto concerne il tipo di droghe più diffuse: siamo partiti in un periodo in cui chi arrivava faceva uso quasi esclusivamente di eroina, poi è stato il momento della cocaina che non rappresenta più come in passato una sostanza d’elitè. In realtà oggi abbiamo soprattutto dei poliassuntori, che assumono cioè sostanze diverse, spesso tagliate con farmaci, benzodiazepine, o anche chetamina, e che sviluppano spesso per questa ragione disturbi psichici associati: è la cosiddetta “doppia diagnosi” che interessa oggi circa il 50%dei nostri ragazzi. Si sta verificando inoltre un ritorno dell’eroina, con un rischio crescente di episodi di overdose. Anche l’alcol dilaga come moda, ed è un ponte verso altre dipendenze: già verso gli 11/12 anni capita ai ragazzi di cominciare con la cannabis o addirittura con la cocaina.”

 

I ragazzi arrivano in Comunità soprattutto attraverso i Serd, e arrivano non solo dalla Calabria ma da tutto il territorio nazionale. La prima fase, quella dell’accoglienza, dura dai due ai sei mesi, ed è quella durante la quale si cerca di scalare il metadone. “L’approccio è fortemente personalizzato – continua la Muraca – e si viene seguiti da uno psicoterapeuta e spesso anche da uno psichiatra, associando eventualmente una terapia farmacologica per superare aggressività e disturbi del comportamento che ostacolano la vita comunitaria. In questa fase si comincia ad imparare ad autogestirsi, ad avere cura di sé stessi e dell’ambiente in cui si vive, condividendo la pulizia degli spazi, la preparazione autonoma di un pasto, la cura dell’ambiente esterno – orto, uliveto, animali da cortile – facendo quelle esperienze positive che prima la dipendenza non aveva permesso.” Chi si libera del metadone e decide di proseguire il percorso passa alla fase di comunità vera e propria, che dura 8/10 mesi, durante la quale si cerca di “ricostruire la propria identità, liberandosi dalla maschera della dipendenza, e scoprendo sé stessi in maniera autentica.” Se nella prima fase si viene seguiti e protetti fra le mura della comunità, nella seconda fase si comincia ad uscire. “La nostra è infatti una comunità aperta – ci dicono gli operatori –  abbiamo contatti con le scuole, dove facciamo prevenzione, e con i gruppi scout che spesso vengono a trovarci per vivere con noi esperienze di comunità. Facciamo inoltre visite guidate in aziende presenti sul territorio, per un primo orientamento al lavoro.” Sono attualmente 23 gli ospiti effettivi della Comunità, ma Roberto Gatto chiarisce che l’Asp, attualmente commissariata, garantisce fondi solo per la metà di essi: “Se sul resto del territorio nazionale il budget che la sanità riserva alle dipendenze è l’1,5% della spesa complessiva, in Calabria circa lo 0,5%. La risposta ai Lea qui è anche inferiore che altrove, ma noi dobbiamo andare avanti comunque.” Dopo la comunità c’è la fase del reinserimento, durante la quale si cambia luogo di residenza e si vive in autogestione per 6/12 mesi, sempre in contatto con la comunità.

Le storie che ascoltiamo hanno spesso in comune il racconto di un’infanzia difficile, un’esperienza pregressa in più centri di recupero – 2, 10, 15, addirittura 17: luoghi che sempre “hanno lasciato dentro qualcosa”, ma quel qualcosa non è stato sufficiente a motivare un cambiamento definitivo di vita. Quindi si ricade nello stesso errore, poi ci si ravvede, si sceglie un altro percorso, si arriva a Fandango – o anche, dopo un consulto con i responsabili, ci si ritorna. Ciò che colpisce negli ospiti incontrati all’Open Day è il fatto che nelle loro voci non si legge mai un disagio per essere dove si è: tutti sembrano avere la coscienza di essere liberi nella scelta di restare, tutti sanno di non poter essere salvati senza il proprio consenso. E di avere qui un’opportunità. A volte si proviene da un periodo di detenzione – ma magari si è contenti di essere stati presi – altre volte si sono comunque avuti contatti con la criminalità. In tanti ammettono sinceramente di aver fatto “cose terribili”, a sé stessi o agli altri, cose di cui in quel momento non si aveva piena coscienza, anche per effetto delle sostanze, e che ora sembrano far parte di un passato molto lontano, quasi di un’altra vita alla quale non si vuole assolutamente ritornare. A volte è stata una madre – o l’intera famiglia – a schierarsi per l’ingresso in comunità. Ma chi resta e arriva fino in fondo lo fa perché ha ritrovato in sé la fiammella di una volontà non ancora del tutto spenta. Chi ci riesce non ha necessariamente avuto meno problemi degli altri: fra loro c’è chi oltre ad aver abusato di sostanze viene dall’abisso della ludopatia e chi ha sperimentato la dipendenza dall’alcol. Qualcuno ha assunto metadone per più di vent’anni o è stato ricattato dagli strozzini, qualcuno ha anche tentato il suicidio. Eppure si tratta di ragazzi nei cui occhi adesso c’è la voglia di vivere. Tanti hanno una fidanzata, una moglie, dei figli già nati o in arrivo. Alcuni stanno imparando un mestiere, o magari lo esercitano di già. Nella sala comune, dove siamo seduti a discorrere insieme, il più giovane ha solo vent’anni, e l’ultimo arrivato è lì da poche settimane, eppure siamo tutti sullo stesso piano, e si fa quasi a gara per parlare. Nell’aria si respira la paura ma anche la voglia di liberarsi dal metadone – che è “come svegliarsi da un sogno” –  dopo un “innamoramento” per le sostanze che è costato troppo, e i particolari, a volte ancora troppo freschi nella memoria, rimangono sospesi in un’iperbole detta a mezza voce.

Un ringraziamento a Giulia De Sensi e alla direzione de illametino.it

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16 NOVEMBRE 2019. OPEN DAY DIPENDENZE: “VIVERE LA RELAZIONE PER MOTIVARE LA SPERANZA”

“Vivere la relazione per motivare la speranza”La Comunità Terapeutica Fandango aderisce alla rete del Tavolo ecclesiale dipendenze (Ted) per la seconda edizione dell´Open day – 16 novembre 2019.

 

Sabato 16 novembre 2019 dalle 10  alle 12, le porte di “Fandango” saranno aperte ai giornalisti del territorio perché possano ascoltare e raccontare le storie di chi tra difficoltà e speranza, decide di accedere ad un programma di recupero dalla propria dipendenza patologica per ritornare alla vita.

 Aderiamo così alla seconda edizione dell ´open day voluto dal Tavolo ecclesiale dipendenze (Ted) che quest´anno si ha come slogan “Vivere la relazione per motivare la speranza”.

«Facilitare l´incontro con gli altri per superare l´emarginazione ed educare alla speranza, con questo spirito apriamo le porte dei nostri servizi alla stampa, in attesa del 30 novembre, quando a farci visita sarà una scolaresca della vicina Decollatura».  – dice Angela Muraca  responsabile della struttura che fa capo alla Comunità Progetto Sud – «con un´idea ben precisa: raccontare per far conoscere le fragilità ma anche il riscatto di vite ai margini che, grazie all´opportunità date dalle comunità di recupero ritrovano la strada del reinserimento». «Raccontare – continua ancora la Muraca –  vuol dire anche permettere  a tutti di sapere i rischi che conseguono dalle dipendenze da droghe, da alcool e da gioco patologico, e dunque equivale al delicato compito, che hanno i giornalisti, di informare».

 

ASSOCIAZIONI ADERENTI  AL  TED

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Casa dei Giovani, Compagnia delle Opere-Opere sociali, Comunità Emmanuel, Comunità di Sant’Egidio, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict), Salesiani per il sociale-Federazione Scs/Cnos, in collaborazione con la Caritas italiana.

Lamezia Terme (CZ), 13 novembre 2019

“EDUCARE E NON PUNIRE”, A SAN PIETRO A MAIDA LA GIORNATA MONDIALE CONTRO LE DROGHE

Banchetti informativi, arte e musica hanno caratterizzato la 32esima giornata della lotta al traffico illecito e all’abuso di sostanze stupefacenti organizzata in piazza a San Pietro a Maida dalla Comunità terapeutica Fandango in collaborazione con la associazione Piergiorgio Frassati e la locale sezione AIDO.

Protagonisti gli ospiti della Comunità terapeutica Lametina che hanno testimoniato con l’ arte, la musica e i loro talenti il valore della vita libera da ogni forma di dipendenza, facendo proprio lo slogan delle Comunità Nazionali di accoglienza (CNCA) “EDUCARE E NON PUNIRE”.

IL SERVIZIO DELLA TGR CALABRIA

 

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IN PIAZZA PER IL 26 GIUGNO GIORNATA CONTRO L´ABUSO ED IL TRAFFICO ILLECITO DI STUPEFACENTI

LA RISPOSTA DEL SISTEMA DEI SERVIZI DELLA NOSTRA REGIONE È COMPLETAMENTE INADEGUATA. IL RISCHIO È IL COLLASSO DELLE STRUTTURE PER MANCATO BUDGET

 Il 26 giugno è la “Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di stupefacenti”. L’Associazione Comunità Progetto Sud con la sua Comunità Terapeutica Fandango ha deciso di tornare a denunciare il dato in aumento di morti per overdose e per sollecitare la Regione Calabria, quantomeno ad equiparare la possibilità di cura dei cittadini calabresi che si ritrovano a fare i conti con la tossicodipendenza.

I dati diffusi dal Governo dicono che: un terzo della popolazione tra i 15 e 64 anni nel corso della propria vita ha sperimentato sostanze illegali; che 1 su 10 lo ha fatto nell’anno 2017, che ogni giorno vengono immesse sul mercato nuove sostanze stupefacenti attraverso forme nuove di vendita (soprattutto internet) ancor prima che vengano considerate sostanze “illegali”.

Il giro di affari riguarda circa un terzo del PIL ed è stimato in 14.4 miliardi di euro e sono in costante aumento i decessi direttamente attribuiti all’uso di sostanze stupefacenti: 194 nel 2017 (in aumento del 10% dall´anno precedente) e non definiti quelli indiretti tipo arresti cardiaci, incidenti stradali che potrebbero essere attribuiti a una precedente assunzione di droghe.

Il problema eroina inoltre, sta ritornando prepotentemente, con immissione sul mercato di quantità ingenti a costi sempre più bassi (anche 5€ in alcune piazze d’ Italia).

In questa tragica realtà è completamente inadeguata la risposta del sistema dei servizi della regione  Calabria che ne fissa la spesa al 0.15% del proprio bilancio a fronte di una media nazionale dell’1%,  ed ha attivi, al momento, solo 2 tipologie di servizi a fronte (per esempio) della regione Lombardia che ne prevede 23.  La regione, ha inoltre stabilito il fabbisogno di posti letto a 490 e i posti in regime semiresidenziale di 117, dei quali ne ha accreditato 462 residenziali e 94 semiresidenziali, ma poi riduce ancor di più poiché attraverso le ASP ne acquista soltanto 175 residenziali e 20 semiresidenziali.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che i cittadini calabresi non hanno la possibilità di essere curati alla pari di quelli residenti in altre regioni (che presentano comunque criticità perché la normativa nazionale è ferma al decreto legislativo 309 del 1990).

«La nostra Comunità – dice il responsabile del servizio Roberto Gatto – ha una lista d’attesa di utenti Calabresi che gli stessi SerD (servizi per le dipendenze dell’ASP) ci chiedono di inserire nei nostri servizi, ma non possiamo includerli nel percorso terapeutico nonostante i posti accreditati (29 posti residenziali e 19 semiresidenziali) perché la regione ha acquistati solo 13 dei 29 posti residenziali e 4 dei 19 semiresidenziali. Rispetto al budget assegnato rischiamo di dover dimettere, dopo l’estate, gli utenti a causa dell´esaurimento dei fondi».

«In questa giornata  – conclude- sentiamo il dovere di denunciare questa situazione di gravità sia per le persone bisognose di riabilitazione e di servizi sottoutilizzati dalle ASP e dalla Regione».

Domani, 26 giugno 2019 in coincidenza con la giornata mondiale contro l´abuso e il traffico illecito di stupefacenti, dalle ore 18 a San Pietro a Maida (presso la villetta in località Fiume), in collaborazione con l’Associazione P.G. Frassati e AIDO, gli operatori della Comunità Terapeutica Fandango allestiranno degli stand per fare informazione e prevenzione e per comunicare la voglia di vivere. Il messaggio che si vuole trasmettere è quello che è possibile costruire la propria esistenza utilizzando la creatività e la voglia di stare insieme liberi da intermediari chimici, da droghe varie e da azzardo spacciato per gioco.

CS_Giornata mondiale contro l´abuso e il traffico illecito di stupefacenti