Ricordo di Goffredo Fofi

di Marco Gatto*

Nell’ultimo viaggio assieme verso Lamezia, a maggio scorso, entrambi contenti dell’esito di un bel convegno dedicato ad Alessandro Leogrande che si era svolto all’Unical, Goffredo mi aveva parlato dei progetti a cui lavorare nei mesi successivi. Un nuovo seminario sulla questione meridionale, forse un foglio di rivista su temi urgenti e soprattutto – lo ripeteva con convinzione – una radio capace di farsi megafono militante. Mi chiedeva, come al solito, di cercare giovani capaci e collaboratori attenti. “Più materiale, meno intellettuale!”, mi ammoniva. Era particolarmente felice (ne avrebbe scritto proprio in quei giorni su “il manifesto”) di aver scoperto un’attenzione vera e sincera per l’opera di Leogrande e per le questioni che il Sud solleva oggi nelle menti delle generazioni più esposte alla tragedia dei nostri tempi.

Goffredo è stato un convinto meridionalista. Spesso lo si dimentica. La sua struttura culturale prendeva respiro dall’esperienza in Sicilia con Danilo Dolci negli anni Cinquanta e si prolungava, nel tempo, con la necessità, che sentiva particolarmente pressante, di interrogare i grandi centri meridionali, da Palermo a Napoli, e soprattutto i margini, nei quali provava a riconoscere e a sollecitare germogli di resistenza al torpore normalizzato. Il suo lavoro – un lavoro unico, che lo rende irriducibilmente novecentesco e che, nello stesso tempo, lo indentifica come maestro del domani – è stato quello di esplorare e conoscere in profondità e in presa diretta i luoghi, le persone, le situazioni sociali, i momenti di conflitto, valorizzando le esperienze meno riconosciute, meno legittimate dal discorso istituzionale. In esse vedeva la realtà delle cose, una trasformazione possibile.

Tra i tanti insegnamenti, molti dei quali gli provenivano dai pensatori nonviolenti e da una schietta traiettoria socialista, ne vorrei ricordare due. Il primo, vissuto come imperativo morale, è quello di non accettare, di saper dire di no, di praticare il dissenso; il secondo, che al primo è legato, prevede di essere spietati con se stessi, per resistere alle lusinghe del potere, piccolo o grande che sia. Nella lezione di Goffredo, critica e autocritica convivono, sotto il segno di un fallimento che deve sempre costituire motivo di rilancio e mai di rinvio, mai di deresponsabilizzazione. Ecco perché uno dei suoi inviti da preservare consiste nel difendersi dalla trasformazione della cultura in sterile gioco di società o, come amava dire ultimamente, in oppio del popolo. Se questa mutazione del sapere in spettacolo avviene al Sud, bisogna protestare: perché non di festival, di sagre o di premi qualunquistici, né di sedativi occasionali, buoni per i turisti o per chi resta, avremmo bisogno, bensì di politica – e, per Goffredo, politica e cultura erano sinonimi.

Chiediamoci allora che senso abbia raccoglierne l’eredità. Il suo bastone ci avrebbe indicato due o tre cose da fare (da fare subito e seriamente): mettere insieme le forze, cercare di capire assieme cosa stia succedendo qui e nel mondo, collegare i conflitti, e comprendere che i nostri privilegi coincidono spesso con le sofferenze altrui. Purché lo si faccia senza narcisismi, senza la viltà delle consorterie, senza avere la presunzione di rappresentare i “buoni”. Una rivista, una radio: la costruzione di una collettività che non accetta e che spinge gli altri a non accettare. Per dirgli grazie e per cercare ancora.

*Marco Gatto è Professore Associato  di Critica e Letteratura Comparata all’Università della Calabria

Nella foto in evidenza: Goffredo Fofi e Marco Gatto. Foto dall’archivio di Marco Gatto