Condividere la disperazione oggi percorrendo sentieri di speranza

di Giacomo Panizza.
Intervento  in  occasione V Edizione de “La Bibbia sulle strade dell’uomo”, Campus universitario – Catanzaro – 15 novembre 2012.
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Solo una testimonianza
Sono onorato dell’invito, ma mi sento impacciato a esprimermi: sulla speranza ristiana, per la vostra attenzione esigente, e per essere qui con il professore Jurgen Moltmann, del quale ho letto meditato divorato molti libri. Per parlarvi della speranza che ho incontrato sulle strade della Calabria, proverò a riferire qualcosa di ciò che ho appreso dall’esperienza e dalle preghiere, dagli studi e dalla gente.

La speranza ha peso, più dei problemi
Dal nord, io mi trovo al sud per caso, in seguito alla decisione disperata di alcuni giovani con disabilità che, sfiduciati di poter soddisfare i loro bisogni di salute e assistenza in Calabria, si erano rivolti altrove. L’invecchiamento dei genitori, le difficoltà di accudimento in casa e di movimento in città, le limitate opportunità di relazioni umane, e soprattutto l’effettiva necessità di fruire quotidianamente di prestazioni sociali e sanitarie, hanno acceso in loro questa speranza di trovarsi risposte efficaci in altre parti d’Italia. Sconoscendo qualsiasi possibilità di poter praticare una vita normale al sud, speravano in un ricovero speciale al nord.
S’erano arresi. Rassegnati, si stavano preparando a seppellire la loro giovane vita in istituti distanti mille chilometri da casa, spezzando per sempre i legami coi famigliari e i conoscenti. Ci siamo incontrati per caso in questo frangente storico; ci siamo scambiati ideali e speranze; ci siamo alleati; e quel destino si è capovolto. Messo su un piatto della bilancia il peso dei problemi, e sull’altro piatto il contrappeso delle speranze, l’ago della bilancia ha dato più valore alle speranze. Perciò, invece che migrare altrove a elemosinare servizi li abbiamo creati qui, noi, insieme. Un gruppo coeso, di persone pur deboli e in gravi situazioni di handicap, non ha impoverito ma arricchito la Calabria di servizi necessari e di diritti per sé e per molti altri.

Una speranza che ascolta i “piccoli”
“Saldo nella speranza contro ogni speranza” è un versetto fondamentale della fede cristiana; però io lo ritrovo sempre duro e impietoso. Soffermandomi a ripensarlo, lo trovo contro logica. Meditandolo, non pervengo a conclusioni. Mi “dice” di più se utilizzo icone bibliche con interpretazioni ineffabili quindi aperte a significati ulteriori.
Alla mamma, col figlioletto gravemente menomato in braccio, che chiede: “Cosa ho fatto di male, io, per avere un figlio così?”, io, privo di argomenti, mi rifugio nell’icona del vangelo di Giovanni, dove racconta: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” Rispose Gesù: “Né lui né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”» (Gv 9, 1-3).
Tralasciando l’argomento sul peccato, il versetto puntualizza la grandezza dell’uomo cieco dalla nascita; e anche dei ciechi, degli storpi, dei muti, dei sordi, dei malati; in definitiva di tutte le persone deboli e indebolite del mondo che non ce la fanno a sopravvivere da sole. Dal brano mi viene l’istruzione che Gesù si aspetta che le opere di Dio si manifestino nel cieco nato e non tanto, o non soltanto, negli amorevoli genitori o nei valenti volontari che l’assistono. Coloro che la società rende invisibili, Dio, al contrario, li tiene in cima ai suoi pensieri, e si aspetta che compiano grandi cose. Insomma, mentre la società li esclude Dio li pensa giganti, li prefigura autori di grandi cose. Anche quando vengono resi vittime di oppressione, egli – come ha fatto con Gesù – pone la sua speranza attiva in loro. L’Onnipotente che spera, sembra suggerire che la speranza sia più grande di Dio, bisognosa della nostra complicità… Non mi addentro nell’esegesi della citazione “sperare contro ogni speranza” perché non mi tornano mai i conti; però questo messaggio ha la forza di mettere e rimettere in moto tante mie energie, e mi sprona a scommettere su quel fragile bimbo in braccio a sua madre e su altri e altre che, come lui, fanno tanta fatica a vivere. E mi fa stare e fare “con” loro e mai nulla “su” di loro. Mi pone in ascolto della loro misteriosa grandezza.
Ho potuto, così, ammirare persone gracili impegnate ad aprire sentieri di speranza ad altre più in forze di loro. Ho visto persone vulnerabili rigenerare relazioni interrotte; far nascere dal niente gruppi solidali di famiglie, di volontariato e di auto e mutuo aiuto; buttarsi in iniziative per il bene comune della polis. A Lamezia Terme, quando nessuno si sentiva il coraggio di fare il primo passo contro lo strapotere delle cosche mafiose, un raggruppamento di questi “piccoli”, considerati diversi e inferiori, a proprio rischio e pericolo hanno compiuto una “grande opera”: hanno scelto per primi di utilizzare le case confiscate alla ’ndrangheta, col preciso intento di rompere l’immaginario collettivo di paura dei clan e rimettere in cammino la speranza.

La speranza non è tutta pura
L’esperienza mi ha fatto toccare con mano una speranza “sporca”, ovvero quel certo modo di sperare nel quale Dio non ha l’esclusiva, una speranza composta di molti desideri e interessi umani ma di una sola briciola di Assoluto.
Una siffatta speranza l’ho vista in alcuni genitori che si lamentavano dei “figli perduti”. Erano Papà che per i figli avevano programmato una carriera da dottori o dirigenti, mentre questi occupavano il loro tempo cogli emarginati. «Ho sborsato soldi per farlo laureare, e lei lo accomuna ai disabili, tossicodipendenti, malati di Aids, rom… Invece che in uno studio, lavora sulla strada!» Li percepivano come inutili protettori di scansafatiche e parassiti della società; però, col passar del tempo, comprendevano che, viceversa, quei figli erano degli utilissimi promotori di speranza e di riscatto sociale. E ne uscivano fieri.
In Calabria, come dappertutto, compaiono anche speranze equivoche, nelle quali Dio non viene neppure messo tra parentesi! Vi sono persone che – chi con leggerezza e chi con convincimento – conciliano le loro malefatte con le tradizionali pratiche religiose. Come quelle dei giovani aspiranti alla carriera di boss di ’ndrangheta, che si impongono per portare in spalla le statue religiose nelle processioni. O quelle di certi politici e imprenditori che sperano di procacciarsi affari e carriere affidandosi a compagini corrotte; o quelle di individui e gruppi organizzati a strappare privilegi per sé stessi a discapito della collettività.

La speranza esiste solo laddove c’è chi spera
Ho conosciuto Giuseppe e la sua speranza di venire perdonato dai tossicodipendenti, ai quali aveva causato grossi problemi. Era stato un venditore di morte, un “grossista” di eroina e cocaina, ma quando in carcere gli hanno diagnosticato il tumore che gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita, ha supplicato il giudice il quale gli ha concesso di uscire dal carcere, cogli arresti domiciliari da scontare presso la Comunità Progetto Sud. A Lamezia Terme, Giuseppe ha potuto conoscere la fatica di chiedere perdono e trascorrere l’ultimo periodo della vita sperimentando gratuità e gratitudine.
Ho conosciuto Toruzzo su una panchina del Corso che egli usava come “casa sua”. Cavavo dalla borsa un panino una birra e una sigaretta per volta facendo a metà di tutto; comunicavamo tra noi a gesti e cogli occhi più che a parole, a causa delle sue difficoltà di intendere e di volere e di esprimersi, e delle mie difficoltà di comprendere il dialetto di Nicastro e di pronunciarlo correttamente. A motivo della sua povertà intellettiva era soprannominato “Capo ninna” (testa piccola) e umiliato come “scemo del villaggio” dai cafoni. Anche i ragazzini lo schernivano, dandogli del “tu” nonostante avessero quarant’anni di meno; mentre lui rideva, derideva, ma ne soffriva. Dopo alcuni mesi di chiacchierate sconclusionate ma empatiche, un giorno di Pasqua Toruzzo si è auto-sfrattato dalla panchina ed è salito alla Comunità Progetto Sud, dove, introducendosi con la speranza dei semplici, impossibile da non esaudire, ci ha detto: «Questa è la casa mia!».
Ma ho incontrato anche le speranze sbagliate di giovani con la morte dentro, perché pensavano di riempire con le droghe il vuoto dell’esistenza. Così la morte si mostrava in altri giovani, dai volti disperati e rassegnati, durante i tempi terrificanti dell’esplosione del virus dell’Aids.
Ciò nondimeno, io mi sono sorpreso a cogliere la pochezza della mia speranza solo il giorno in cui ho visto un uomo disperato decidersi a cambiare vita. Egli, soggiogato dalla mafia, sperando contro ogni speranza, si è ribellato e ha denunciato gli estorsori. Senza saperlo, mi ha regalato la speranza più inaspettata e, in seguito, altri padri di famiglia, imprenditori e commercianti hanno denunciato quei mafiosi che li tenevano assoggettati. In questo contesto, la speranza – unita a una forte paura – è passata anche da me, quando alcuni mafiosi mi hanno minacciato di morte, sconvolgendomi la vita.

Mi è difficile sperare
Io trovo difficilissimo sperare davvero. Da solo, ci provo in molti modi ma alla fine un seme di speranza mi piove dal cielo gratis, al di là di ogni mia scaletta logica o teologica. Mi viene più semplice “sperare di sperare” coi disperati, coi quali piango e rido, e m’innamoro. Ugualmente, mi trovo bene con coloro che già sperano, raggiunti prima di me dal Dio della speranza. Insieme agli altri, insomma, la speranza mi si rivela più calda, più praticabile, più tutto. Insieme, anche quando percorriamo la via della croce, l’Invisibile si fa più vicino