La ‘ndrangheta come luogo di educazione totale
di Giacomo Panizza
Le due scuole
Il western dava la prima scena di botte. «Vai vai, menalo», tuonò all’improvviso Giuseppe nel buio della sala. Digrignava «Uccidilo! spaccagli le mani!». Il “buono”, scaraventato all’esterno del vagone postale, stava fortunosamente aggrappato allo stipite della porta del treno che sfrecciava nella prateria. In affanno, era alla mercé del “cattivo” il quale, senza perder tempo, corse alla sacca dei dollari e se la svignò per le carrozze posteriori. «Cornuto!» sentenziò Giuseppe, mentre io sulla poltrona accanto appuntavo nella mente alcune domande da rivolgergli al momento opportuno.
Quella sera Giuseppe aveva da poco compiuto 17 anni. Poiché era minorenne, il giudice l’aveva affidato al nostro Gruppo appartamento in alternativa al carcere, in prova, al fine di poter vagliare al meglio sue eventuali possibilità di sganciamento e riabilitazione da quel gruppo criminale di stampo mafioso di adulti insieme ai quali era stato catturato al Passo Aquavona, sopra Lamezia Terme, durante uno scontro a fuoco coi carabinieri.
Non avevo mai visto nessuno indignarsi tanto col “cattivo” perché questi se ne scappava coi soldi senza aver prima eliminato il “buono”, sfracellandogli le nocche delle dita di quelle mani ben enfatizzate dalla macchina da presa per creare suspense, che lo mantenevano penzolante fuori dal treno in corsa.
Al rientro gli evocai il tifo accalorato che aveva espresso durante certe scene del film, e dal suo dire risaltava il suo impersonarsi negli avversari degli “infami della legge” e il suo preciso quadro valoriale circa come si sta al mondo. Ci credeva. In sintesi, mi spiegò che nessun Gruppo appartamento o carcere minorile o degli adulti né altro avrebbe potuto fermare i giovani di ’ndrangheta. Per la prima volta in vita mia capivo che non stavo ascoltando parole sulla mafia ma dalla mafia. Era giovanissimo. Non aveva concluso le scuole dell’obbligo ma si notava che alla mafia vi era stato educato e aveva imparato benissimo.
Dopo quell’episodio, solo rare volte ho avuto la sensazione di riudire parole di mafia dal di dentro. Sensazione che provai anche immerso nella lettura di Anime nere di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) fresco di stampa.
«A quel tempo ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte (…) Il porco camminava tranquillo, non aveva mai chiesto soste acqua o cibo, così arrivammo prima del previsto (…) La mattina seguente, come sempre, prendemmo l’autobus delle 6 e 30 che ci portava in città ai banchi del liceo, dove ci ritrovammo, seduti, ad affrontare cinque ore di lezione. Tre studenti normali».
I tre giovanissimi protagonisti frequentano il liceo e le operazioni di sequestro. Sono due scuole, di cui la prima – il liceo – serve loro per apprendere saperi tecnici e funzionali, mentre la seconda – fatta di sequestri, omicidi, traffici di droga, carceri, eccetera – rappresenta i basilari saperi della vita.
Quello che l’Autore definisce romanzo, sostenendo che il libro tratti fatti e personaggi frutto di pura fantasia, pare più la descrizione circostanziata di avvenimenti accaduti a persone e “famiglie” vere. I vissuti dei clan e gli elenchi di fatti di mafia locale e di “mafia export” (vedi Mafia export di Francesco Forgione, Baldini Castoldi Dalai 2009) sono particolareggiati, alcuni paiono come appresi di prima mano e altri con la prima socializzazione. Frasario, logiche ed episodi gli escono dalla penna e da sotto la pelle come espressioni di persona ben informata e consapevole. Tranne (voluti?) paragrafi misurati, sembra di leggere genuine esperienze dei giovani di ’ndrangheta, avvenimenti reali romanzati.
Da ciò e da come scrive, l’Autore mostra di conoscere da vicino i comportamenti di ’ndrangheta, esperienze che toccano un’alta percentuale di giovani calabresi in quanto facenti parte di quel contesto, o perché lo vedono da vicino, o lo captano da discorsi e da modi di dire, o attraverso la lettura dei frequenti articoli di cronaca, o dai commenti a sentenze dei tribunali e ad altri atti giudiziari. La stessa vicenda di suo fratello Pietro, catturato recentemente in seguito a una latitanza di undici anni e condannato a venti, che sta scontando in regime di 41bis, non viene menzionata nel libro, ma di certo contribuisce a fornirgli le parole di una cultura che traspare dai tantissimi risvolti che emergono dal “romanzo”. Libri simili diventano necessari per aiutare i più a comprendere l’humus culturale della ’ndrangheta andando oltre la sua dimensione militare e di business. Come il caso di Gomorra, essi illuminano il lettore sulle chiavi interpretative di un quotidiano rimosso ma ben attuale, che polarizza e indirizza i giovani di ’ndrangheta e anche oltre, perché è fuor di dubbio che la ’ndrangheta insegna forma ed educa anche oltre i perimetri dei clan insinuandosi fin dentro le famiglie “normali” nel senso di ordinarie. Quelle che tacendo consentono alla ’ndrangheta di spadroneggiare. Infatti, il luogo d’incidenza della sua interazione educativa è la situazione reale: ieri la famiglia e il territorio, e oggi, con la globalizzazione, vi ha aggiunto il mondo. Da Gomorra:
«Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo:
“Robbe’, cos’è un uomo senza laurea e con la pistola?”
“Uno stronzo con la pistola”.
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea senza pistola?”
“Uno stronzo con la laurea…”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea e con la pistola?”
“Un uomo, papà!”
“Bravo, Robertino!” »
Dentro la mentalità comune confluiscono più forme di mafiosità: quella dei boss e quella delle donne di mafia, quella dei giovani in carriera nelle cosche e quella degli altri giovani, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città. Tutto ciò non accade per caso. Si esprime attraverso regole “educative” piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, non certo della crescita umana dei suoi giovani componenti, per i quali è stabilito che sia secondario persino il sentimento di amicizia.
Rivolte all’interno come regolamenti rigidi, queste regole si impongono nelle comunità locali come regolazione sociale. Esse insegnano ai giovani il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali, come ad esempio riscuotere il pizzo, mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, ottiene fiducia e fa carriera interna. L’educazione dei giovani criminali avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano e dimostrano che uno sparuto gruppo di persone riesce ad “ammaestrare” interi quartieri e un’intera città.
I giovani di oggi, rispetto a quelli di ’ndrangheta di un decennio fa, non hanno solo da imparare dai loro “vecchi”; a loro volta possiedono strumenti nuovi per poter insegnare cose nuove e utili ai genitori, ai capi, ai boss, perché come i loro coetanei hanno familiarità con linguaggi e saperi digitali, capacità specifiche di contabilità, ragioneria, partita Iva, finanza, fiscalità, acquisite alla “scuola normale”.
L’educazione della forza
Se come proposto da Luigi Monti nel primo numero della rivista “gli asini” (Oggi e domani, 2010) per educazione intendiamo «tutti i discorsi, gli ambiti e le attività legate alla formazione dei valori e alla trasmissione della cultura», l’educazione praticata nelle famiglie di ’ndrangheta è fatta di comportamenti e parole che esprimono significati e giudizi di valore stabiliti dalla ’ndrangheta stessa; e questo essa lo trasmette all’interno e all’esterno fin dove le serve. Cosa sia bene e cosa sia male non viene ricercato o studiato nella realtà oggettiva, ma viene stabilito dai clan in maniera autoreferenziale, a seconda dei loro mutevoli interessi di dominio e di ricchezza che connotano onorabilità dubbie, essendo persino modificabili a piacimento. Ad esempio, in determinati periodi storici, nella ’ndrangheta si reputava disonorevole gestire la prostituzione e il traffico di droga, invece da qualche lustro non è più così: alcuni clan calabresi controllano prostituzione e tratta e altri si sono trasformati nei maggiori trafficanti di droga del mondo.
Abitualmente si pensa alla ’ndrangheta come a un’organizzazione introversa ammantata di omertà. In verità, il non parlare e non far sapere non le si addice, poiché essa vuole dire, insegnare, educare. «La ’ndrangheta è un’associazione segreta che vuol farsi conoscere da tutti» (è il titolo di un mio articolo apparso su “Lo straniero” n.82, 2007) poiché non occulta le azioni che compie – nemmeno quando fa sparire qualcuno di lupara bianca -, ma le firma, vi imprime i “suoi” significati e li comunica. Non conquista solo denaro, merci, beni e persone, ma anche i significati. In stridente opposizione alle varie pedagogie emancipatrici, la ’ndrangheta più che la forza dell’educazione attua l’educazione della forza. Considera tutte le componenti della definizione di educazione citata di Luigi Monti, però ha “suoi” discorsi, ambiti, attività, valori, e li trasmette coi codici culturali che essa stessa foggia ed esprime, sia con le buone che con le cattive maniere.
Verso i “suoi” giovani si manifesta come educazione totale in cui azioni, senso ed etica assumono le spiegazioni attribuite dai clan, da ritenere esaustive e impermeabili a interpretazioni diverse, derivanti dalla ragione o dalla religione o dal senso comune. È un’educazione etero diretta, in cui all’educando non viene concessa alcuna possibilità di emanciparsi e di raggiungere un individuazione del sè, per cui i giovani di ’ndrangheta faticano a distanziarsi e a mettere sotto critica il quadro di riferimento dei propri modi di agire, pensare e giudicare. Non si percepiscono “criminali” come generalmente vengono intesi, o come definiti sul dizionario, o come configurati dalle leggi dello stato. Lo stesso termine “crimine” a loro dice forza, superiorità, avvedutezza, bravura e affini, gratificanti significati. “Crimine è la funzione ricoperta dall’affiliato che ha la responsabilità delle azioni criminali del locale” (Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, Pellegrini 2006). È un’educazione performante, al punto che essi intendono come “bene” ciò che per gli altri è inteso come “male”. Siamo di fronte a un’educazione totale poiché totale è il controllo operato da parte di chi educa e totalizzanti sono i metodi e i significati che trasmette a chi viene educato. Lo si deduce anche dal come le mafie – non solo la ’ndrangheta – padroneggiano e manipolano sentimenti e valori della famiglia, da come usano e stravolgono simboli e significati religiosi, da come ritualizzano, formano, premiano e castigano.
Un’esperienza diretta mi ha fornito una lezione chiara sulla pervasività di quest’educazione totale.
Cito dal mio Finchè ne vollero. Diario spirituale perché materiale, Paoline 2002: «11 Luglio 1997. Oggi devo nascondere dei “piccoli” con la mamma, la quale intende denunciare le violenze subite in una ’ndrina, una famiglia che fa parte di un clan. Li accompagno in automobile fino a uno dei nostri “rifugi”, dove li seguiremo per alcune settimane, fintanto che la mamma farà la deposizione dal giudice. Al contempo si dovrà trovare casa e lavoro lontano dalla Calabria e dai luoghi di classica emigrazione calabrese. Conto su suor Rosetta e sulle sue suore.
Il piccolo maschio davanti a due sorelline, una più piccola e l’altra più grande di lui, e alla mamma, si atteggia a comandante. Fa il capofamiglia. Mi dice che è colpa delle “donne” se tutti loro sono costretti, ora, a nascondersi alla ’ndrangheta. Soggiunge: “Siamo in questa situazione perché loro (e mi addita tutte e tre le donne) hanno cantato!”. Vivevano in una cosca che li “proteggeva”, i figli non hanno lo stesso padre, e nessuno li ha legalmente riconosciuti se non la mamma. Lei non ce l’ha fatta più e ha denunciato chi picchiava lei e chi maltrattava le piccole. Ma lui, il capofamiglia, non vede queste cose. Il piccolo ha capito (sic!) che cosa devono vedere e fare i maschi e che cosa le femmine.”
Nel tempo trascorso con la ’ndrina, quel bambino aveva ricevuto l’educazione sufficiente per assimilarsi ad essa, assorbendo i discorsi, gli ambiti, le attività legate alla formazione dei valori e alla trasmissione della mentalità.
L’educazione della forza – che è il contrario della forza dell’educazione -, nella storia d’Italia non è retaggio dei soli contesti di mafia o di alcune regioni del Sud. Ad esempio, l’hanno conosciuta molti italiani di ieri, formati con l’educazione totale del regime fascista, come in altri modi la si conosce in molti anche oggi, nella forza suadente di poteri vari e di mass media che intasano il pensiero, distruggono l’intelligenza critica, inondano di sofismi qualsiasi spunto di indagine sulle obiettività dei fatti e sul dibattito antropologico ed etico. È un’educazione strisciante che si percepisce meno della brutalità fascista, ma l’approccio pedagogico è identico, è dispotico.
L’undicenne capofamiglia sopra citato, tuttavia, alla fine del viaggio in automobile mi ha fatto gustare la sua parte viva di cucciolo d’uomo.
«Al pomeriggio li accompagno in macchina verso il nascondiglio. Mentre viaggiamo sta piovendo. Il piccolino (di dieci anni), che si è messo sul sedile davanti, mette il dito sulla foto di Niki (dieci anni) che tengo sul cruscotto. “Chi è?”, mi domanda. (…) insiste: “Chi è?”. Tradisce un’ansia e una curiosità che colgo subito. “È mio figlio”, gli dico (…) mi chiede se va a scuola, se gioca al pallone, per quale squadra di serie A tifa… E parla, parla, parla.” (ancora da Finchè ne vollero).
Questa “parte viva”, umana, pulita, non si riaccende solo nei bambini; essa irrompe anche nelle coscienze dei giovani di mafia, incoraggiandoli a smettere di abbruttirsi e a desiderare di cambiare vita. L’educazione alla ’ndrangheta non produce automaticamente risultati totalizzanti, però, troppi di coloro che la subiscono vengono costretti a esercitare la forza, minacciare persone, far esplodere saracinesche e automobili, estorcere denaro a commercianti e imprenditori, sparare pallottole nelle case, sequestrare uomini donne e bambini, contrabbandare, uccidere, compromettendo così ogni possibilità di vivere la propria esistenza libera e unica, poiché adesso conoscono troppe cose della ’ndrangheta, compresa la certezza che essa permetterà loro di distaccarsi solo da morti.