«cheilSignoretibenedica»

Un gruppo di amici, colleghi e allievi dell’Università della Calabria, abbiamo ideato una sorpresa in occasione dei 70 anni di Piero Fantozzi. Ne è scaturito il libro “LE PAROLE DI PIERO”, un vocabolario scientifico e civile di 35 parole, da Amicizia a Welfare, che alterna e intreccia racconti e aneddoti su relazioni umane e di ricerca, valori e categorie analitiche, vicende e luoghi che hanno contrassegnato la sua vita. Da parte mia, ho commentato il saluto che Piero mi ripete spesso.

                                                                                     «cheilSignoretibenedica»
   
                                                                                               (Giacomo Panizza)

Ciao Piero,
il saluto di commiato «cheilSignoretibenedica» che rivolgi alle persone care, pronunciato di filato con sottintesa la S maiuscola, insieme all’amicizia, mi agevola la discussione su certi argomenti interessanti la «tua» sociologia e la «mia» teologia.
Da te a casa tua o all’Unical, oppure da me alla Comunità progetto sud, come in vari luoghi istituzionali o sociali o ecclesiali, ci incontriamo da quarant’anni a esaminare questioni divenute grandi come il mondo e da quarant’anni puntualmente ci si ripresenta la questione “povertà”, da noi attenzionata nelle sue forme mutabili per indagarne le cause e cercare di individuare strategie in grado di contrastarla su più fronti possibili.
Non so spiegarmelo, ma sentirsi benevolmente abbracciati da «cheilSignoretibenedica» sento che induce a riconoscersi persone, tutti e tutte più grandi del nostro “oggi”, particolarmente quelle povere, quali detentrici di una suprema dignità (o sacralità, per il lessico religioso) che ne afferma il valore inestimabile. Su questo assioma valoriale abbiamo ideato esperienze sociali, articolato (o criticato) delibere e leggi regionali, gestito progetti e interventi necessari per emanciparsi da disparate condizioni di povertà. Insieme ai nostri “giri” e reti di riferimento ci siamo anche indignati e abbiamo denunciato le condizioni in cui venivano segregate tante persone povere e vulnerabili. Quante maltrattate invece che professionalmente e degnamente aiutate presso enti assistenziali anche di matrice religiosa, sfruttatori del nome di un papa buono, di santi e sante, o irrispettosi profittatori di sigle con dentro “Amore”, “Pace” e “Misericordia”!
Alla scienza del professore sociologo e a una sorta di sapienza del prete cattolico, nei fatti, la lettura della povertà è risultata molte volte affine, proprio in forza di un’omogenea fondata interpretazione del concetto (astratto?) di “persona umana”. Ci ritroviamo spesso affiancati a scegliere da che parte stare nelle diatribe insorgenti tra coloro che operano nel riconoscimento della dignità umana a ciascuna persona versus altri che vogliono suddividerci in classi o caste. Allo stesso modo, non abbiamo dubbi a schierarsi con coloro che s’impegnano a comporre comunità coese e accoglienti versus altri che vogliono erigere muri e recinti di separazione.
Abbiamo avuto a che fare con schieramenti detentori di diverse tesi sulla povertà, sommariamente raggruppabili in due ampie cornici contrastanti. Dentro la prima, potrebbero figurare coloro che aspirano a salvaguardare e a promuovere la dignità delle persone per affrancarsi e liberarsi insieme dalla povertà attraverso politiche solidali e corresponsabilizzanti il più possibile ciascuno e tutti, in vista di conseguire democrazie partecipative; nella seconda cornice, invece, potrebbero figurare coloro che aspirano a salvaguardare unicamente i propri averi, poteri e prestigi, e a strutturarsi in oligarchie e poliarchie ostative all’accesso dei «diversi» classificandoli inferiori.
È sotto gli occhi di tutti il divario esistente nella produzione e nella distribuzione della ricchezza, che si autoriproduce con l’aumento numerico dei poveri che diventano sempre più poveri e col decremento dei ricchi che diventano sempre più ricchi. I dati statistici che conteggiano questo fenomeno, ci consegnano percentuali e numeri scandalosi, ponendo problemi etici, di giustizia e di equità anche al sociologo e al prete. La dignità calpestata dei poveri, già deboli e ulteriormente indeboliti, accusa la politica governativa che rinvia puntualmente la vera lotta alla vera povertà. Insomma, uno Stato veramente democratico dovrebbe dichiarare guerra alla povertà e non ai poveri!
Caro Piero, ti confesso di essermi arricchito più volte sulle tue spalle, attingendo ai tuoi saperi sociologici, ad analisi, cornici, cause e interpretazioni della povertà (specie del nostro Sud), che ho trovato utili per decifrarla e poter meglio comprendere quei poveri che incontro, che avvicino e che mi avvicinano. Le conversazioni tra noi due sulla condizione sociale di persone e gruppi poveri di pane e di affetti, di istruzione, di salute, di casa, di lavoro, di senso, di potere, di legami e di libertà, hanno favorevolmente impastato la «mia» religione con la «tua» scienza. Anche tu, forse, avrai notato una scienza impastarsi con una religione. Le due teorie, seppur distinte nei rispettivi oggetti di studio, obiettivi e metodi, a me sono parse friendly e adatte a sollecitare e avvincere il sociologo di professione e il prete di mestiere.
Come a dire che il prete, per capire i poveri che incontra, oltre alla sua teologia, ha bisogno di comprendere il contesto strutturale e relazionale della povertà nelle sue cause, nei suoi meccanismi, fino ai suoi immancabili effetti deleteri; e (oserei riassumere) che il sociologo studioso della povertà, per capirla, oltre alla sua scienza, ha altresì bisogno di incontrarsi coi poveri, coi loro volti e le loro storie, con le loro capacità fragilizzate e il profondo delle loro aspirazioni. Mi viene da dire che oltre a noi, una più puntuale collaborazione potrebbe arricchire anche entrambe le nostre scuole, istituite l’una per gli studi delle discipline delle scienze sociali e l’altra dello spirito umano.
Negli ultimi decenni, la chiesa cattolica si è trovata in buona compagnia delle altre chiese cristiane, quali le ortodosse e protestanti, l’anglicana, l’armena e la copta, a svolgere insieme numerose ricerche e sperimentazioni alla luce degli insegnamenti della Bibbia e mutuando molto dalle scienze umane.
La Bibbia tratta parecchie volte della povertà e della ricchezza ritenendole entrambe valori che disvalori a seconda di come-quando-perché ogni persona, famiglia o raggruppamento le praticano nella loro esistenza e nel loro ambiente. Le esamina dentro il contesto storico in cui si manifestano, valutando l’etica dei soggetti attori, autori o vittime, insieme alle cause che le generano e gli effetti diretti e indiretti che provocano su sé stessi e sugli altri, sui vicini e sui lontani, sui contemporanei e sui posteri. La Bibbia giudica la povertà anche in relazione e spesso connessa in opposizione alla ricchezza, e viceversa, perché sia l’una che l’altra hanno il potere di onorare e, al contrario, di umiliare gli uomini e le donne che compromettono. Entrambe svalorizzano le persone quando antepongono la ricchezza al prossimo, valorizzando qualcosa al di sopra di qualcuno. Ricordi la frase: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio?».
Però, nella Bibbia riscontriamo la presenza di una povertà che Dio non vuole e di una povertà che Dio vuole. Non vuole la povertà che chiamiamo miseria, quella di chi è privo dei beni necessari per vivere dignitosamente; non vuole la povertà di chi viene abbandonato privo di relazioni fraterne, senza un “tu” che gli faccia da specchio; non vuole la povertà come privazione del diritto e del potere di vivere alla pari a fianco e di fronte ai propri simili.
Anawim è uno dei termini ebraici antichi che indicano la persona povera, sparuta, magra, priva di parvenza umana, misera e pezzente, maltrattata, che s’affligge e implora aiuto perché da sola non riesce a opporsi alle ingiustizie che subisce né ad affrontare le difficoltà che incontra. Anawim è scritto spesso così, al plurale, intendendo i poveri non solo singolarmente ma anche come categoria sociale, in quei tempi composta dagli orfani e dalle vedove, dai piccoli e dagli indifesi impossibilitati a resistere alla violenza, esposti all’oppressione e sfruttati dai prepotenti. Anawim è un termine onomatopeico che indica il vento quando batte sul canneto piegando le canne col suo soffio. È la metafora di coloro che, fragili, vengono costretti a curvarsi, a sottomettersi ai soprusi dei violenti.
Nella Bibbia, però, c’è anche una povertà che Dio vuole (e mi piacerebbe analizzare questo aspetto insieme alle nuove leve dei sociologi contemporanei!). Il Dio che non vuole la povertà trasformata in miseria disumanizzante, apprezza quella di chi rifiuta di arricchirsi a scapito del suo prossimo, apprezza anche quella che mantiene liberi dai compromessi iniqui, quella onesta, utile e positiva. È la povertà del povero che vive a testa alta umile e fiero e in opposizione agli orgogliosi; è quella di chi si riconosce creatura e non si colloca al di sopra degli altri e tantomeno al posto del creatore; è quella capace di gratitudine e di gratuità nei confronti dei suoi simili; è quella che al denaro per sé e al potere sugli altri preferisce la giustizia con tutti. Il povero di Dio è colui e colei che – dice sempre la Bibbia – ha mani innocenti e cuore puro, e nelle alterne vicende della vita si fida di Dio «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre».
In definitiva, la Bibbia non sviluppa trattati sulla povertà pur parlando insistentemente dei poveri. Manifesta un Dio amorevole verso l’umanità intera, però giudica le situazioni umane identificandosi coi poveri, con le vittime e non coi carnefici. Ai poveri «il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri. Ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge i forestieri. Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi».
Interpretando la Bibbia con la Bibbia, potremmo riassumere che in essa il povero ha sempre un nome, un corpo e un volto, è rivestito di una dignità inalienabile che taluni possono misconoscergli ma mai togliergli perché gli è stata impressa indelebilmente dal Dio che l’ha «creato a sua immagine». Pertanto, la povertà umana che Dio non vuole è quella che impedisce alle persone di poter realizzare sé stesse, di vivere appieno la vita libere e amorevoli, creative e giuste accanto e di fronte alle altre.
La povertà, dunque, è riduttiva se intesa solo come insufficienza dei beni materiali ed economici indispensabili per vivere, perché essa è anche privazione di autonomie, di affetti e libertà. È povertà anche non avere difensori contro le violazioni della propria dignità. Il povero è caratterizzato dall’impossibilità di poter essere sé stesso. Questi principi millenari di vita religiosa e sociale sono illuminanti di ciò che oggi, insieme ai sociologi, possiamo denominare come vecchie e nuove povertà.
È grazie a scienze umane come la sociologia, che la chiesa si può avvalere di termini pertinenti per ridefinire l’andamento delle povertà nei diversi luoghi del mondo e nelle diverse fasi della storia. Non è cosa di poco conto, perché esse hanno coraggiosamente svecchiato le stigmatizzanti concezioni del “povero” e si sono potute affinare le indagini sulla povertà aggiungendo indicatori di lettura ulteriori a quello economico. Sono così emersi aspetti prima trascurati, come quelli esistenziali, di disagio, di vergogna, di fragilità, di senso del vivere, di fatica, di contare in quanto persone e in quanto cittadini e cittadine, e via di seguito, al punto che oggi, almeno per il mondo accademico, pare sia superato (che mi dici?) quel pensiero unico da taluni qualificato come “dittatura del PIL” che occultava la dimensione integrale della persona umana in sé stessa e nella sua natura sociale. È segno di questa consapevolezza il non sentire più tanto scandire alle manifestazioni lo slogan «dePILiamoci!».
La stessa Dottrina sociale della chiesa, infatti, ringrazia una Sociologia che analizza il fenomeno della povertà, e fa tesoro di tanti risultati scientifici. In particolare, esorta all’utilizzo di indicatori (come ad esempio il benessere equo e sostenibile (BES) utilizzato dall’ISTAT in Italia o United Nations Development Programme patrocinato dall’ONU (UNDP), ecc.), elaborati in una visione multidimensionale della povertà e gravitanti sulla centralità della persona, intesa come valore supremo e indispensabile risorsa. Insomma, alla Dottrina delle religioni cristiane che alla Sociologia in generale, sembra concorde la tesi che nelle situazioni di povertà non sono i poveri il problema, semmai essi sono i soggetti-risorse imprescindibili per poter uscire dai problemi della povertà e dai drammi della miseria.
Le scienze sociali, e la Sociologia in primis, hanno stimolato la chiesa a rimodulare le sue vecchie letture e risposte alla povertà improntate alla beneficienza, attivando nuove risposte di assistenza organizzata, di promozione dei diritti e di tutele della dignità umana. In questi passaggi, la chiesa è stata favorita dai grandi valori presenti nel “suo” Vangelo e nei suoi elaborati dottrinali, nonché dalle analisi scientifiche, dai modelli sperimentali e dai nuovi metodi e tecniche d’intervento professionale. Si è istruita e lasciata aiutare per poter “fare bene il bene”.
Carissimo Piero, adesso ripartiamo dal tuo e mio pensionamento, e con rinnovata grinta e serenità facciamo continuare il dialogo tra noi, le nostre scienze e sapienze, augurandoci: «cheilSignorecibenedica».

La lettera