Bambini e bambine uguali nel diritto all’istruzione, anche i rom italiani

di Giacomo Panizza
A Lamezia Terme è già cominciata la dispersione scolastica. I piccoli rom sono rimasti a casa, al campo di Scordovillo. Fino a quando durerà? Istituzioni democratiche e società: come noi sentiamo il problema dei bambini e delle bambine che perdiamo? Perché le Istituzioni competenti in materia non si sono mosse in tempo, sapendo che in settembre si aprivano le scuole dell’obbligo?
Il primo giorno di scuola in qualche plesso gli alunni di quinta si erano preparati a consegnare il testimone ai nuovi iscritti in prima elementare ma, ad esempio, come al IX Circolo di Lamezia Terme sei banchi riservati ai nuovi iscritti sono rimasti vuoti. Erano pronti per l’accoglienza di piccoli rom. Altrettanto è avvenuto anche in altri plessi scolastici.
La scuola dell’obbligo dei figli chiama in gioco la responsabilità dei genitori. Tocca a loro in primis, rom o gaggè, curare la scolarizzazione dei propri figli. A Lamezia Terme conosciamo benissimo la verità formale di questa legge sacrosanta, ma altrettanto bene sappiamo anche che i genitori dei moltissimi bambini e bambine rom del campo di Scordovillo non hanno mai frequentato a loro volta la scuola. È per questo che da anni qualcuno si è mosso, in una virtuosa collaborazione tra Comune, Scuole e terzo settore, con la finalità complessiva di accompagnare: i piccoli rom alla scuola di tutti, i genitori a capirne l’importanza, la cultura rom a non diffidare di culture forti differenti dalla loro, la cultura italiana a dialogare coi rom. Insomma, in seguito a una pluridecennale esperienza, in questo 2008, anno del dialogo interculturale promosso dal Consiglio d’Europa, pensavamo che fosse stata finalmente compresa la necessità della mediazione culturale, in presenza di una minoranza che teme la maggioranza e sottovaluta i benefici che la Repubblica offre a tutti, tra i quali l’istruzione. Sarà per questo che sul pullmino mandato dal Comune al “campo” per raccogliere gli alunni delle elementari e delle medie nessun bambino né bambina rom vi è salito?
Noi crediamo che debba continuare il servizio di mediazione culturale e sociale, senza interruzioni o ritardi, che causano cittadini di serie B. Occorre che qualcuno vada ancora al campo rom. E che le Istituzioni preposte prevedano in tempo questi servizi. Vi è il dovere degli Amministratori pubblici di farsi garanti dei diritti dei bambini. La Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia afferma che “il bambino ha il diritto all’istruzione” e che “la scuola deve essere obbligatoria e gratuita per tutti” (art. 28); sostiene che “ogni bambino ha il diritto di poter stare insieme agli altri” (art. 15); ribadisce che “il bambino che appartiene ad una minoranza ha il diritto di usare la sua lingua e di vivere secondo la sua cultura e la sua religione” (art. 30); ma soprattutto parla dei doveri degli amministratori delle istituzioni pubbliche, ricordando loro che “gli interessi del bambino devono essere considerati per primi in tutte le decisioni che lo riguardano” (art. 2). Il terzo settore si incanala su questi principi e articoli legislativi di alta civiltà, evitando di sostituire chi di dovere e rifiutandosi di dare àlibi ad alcuno.
Affinché a questa prima settimana di dispersione scolastica non ne seguano altre, i gruppi, le associazioni e le cooperative sociali del Cnca Calabria, hanno pensato di lanciare questo allarme-scuola per i piccoli rom, in accordo con alcuni loro genitori. Siamo confortati dall’esperienza che il dialogo interculturale, l’istruzione scolastica, le iniziative extrascolastiche, coi rom di Lamezia Terme e non solo con loro, sapranno ancora offrire risultati efficaci in preparazione all’inclusione sociale, al lavoro, alla pratica dei diritti e dei doveri di cittadinanza.

Lamezia Terme, 21 settembre 2008

Don Giacomo Panizza

I rom non hanno bisogno di soli blitz

di Giacomo Panizza

I rom di Lamezia Terme abbisognano di una giustizia propositiva e non solo repressiva. Il blitz al campo di Scordovillo e l’arresto di alcuni presunti estorsori dimostra che le forze dell’ordine stanno svolgendo con cura il loro dovere. Non viene difficile affermare che rimarrà un blitz di ferragosto, un’operazione temporanea e per nulla incisiva, se anche le altre Istituzioni dello Stato democratico non faranno con altrettanta cura il loro dovere verso la popolazione rom.
Il blitz potrebbe essere un bluff, non risolvendo alcun problema lametino se non ci sarà anche uno sforzo intelligente per riunire i diritti alla sicurezza pubblica con gli altri diritti umani basilari delle persone e delle famiglie, comprese quelle rom. Non bisogna combattere i rom ma la miseria che li attanaglia. Non otterremo piena giustizia se le sole Istituzioni di Ordine pubblico svolgono i propri compiti, ma se pure le altre Istituzioni della Repubblica democratica faranno altrettanto, specialmente gli Enti locali. Un’iniziativa giusta quale un blitz legittimo, se rimane isolata tra mille omissioni illegittime (o ritardi astrusi come quelli che sta subendo l’attuazione del PON Sicurezza per l’integrazione dei rom!), fa ingiustizia somma.

Lo Stato che conosco attraverso la Carta Costituzionale è quello dedito a combattere il crimine e contemporaneamente impegnato a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impedendo il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione democratica.
Quali altre Istituzioni troviamo vigili nella rimozione di ostacoli alla piena cittadinanza dei rom?
I rom di Lamezia Terme non trovano soddisfacimento del loro diritto alla casa, pur esistendo da tempo una lista inspiegabilmente indecifrabile per l’aggiudicazione delle case popolari.
I rom di Lamezia Terme non trovano diritto alla loro salute, resasi ormai precaria se non impossibile in quel ghetto fogna a cielo aperto di contrada Scordovillo.
I bambini e le bambine rom della città non vengono sostenuti nel loro sacrosanto diritto allo studio, e ancora oggi non è dato sapere se avranno il servizio di accompagnamento alla scuola dell’obbligo nell’imminente anno scolastico.
I rom di Lamezia Terme non trovano pari opportunità di lavoro quanto i coetanei, perché essi vengono stigmatizzati e le loro capacità ignorate e non valorizzate.
I rom di Lamezia Terme vivono assembrati in un fazzoletto di terreno circondato da un muro alto circa quattro metri, un muro che nei giorni scorsi è apparso sulle tv in mondovisione, commentato come vergogna non dei rom ma di una città incivile.
I rom onesti, al pari dei cittadini onesti di Lamezia Terme, tirano un respiro di sollievo quando le forze dell’ordine ottengono successo con qualsiasi delinquente, sia rom o italiano o straniero.
Accanto a una giustizia fatta di blitz però occorre che le Istituzioni tutte s’impegnino effettivamente per una giustizia orientata anche a costruire uguaglianza tra tutte le persone che convivono in questa nostra città.

Lamezia Terme, 13 agosto 2008

Lasciarsi investire, non esaurire dalla sicurezza

di Giacomo Panizza
Discutere di sicurezza quanto basta, sostiene Giacomo Panizza rivolgendosi agli operatori sociali.
Quanto basta per non banalizzare la domanda di sicurezza. Ma pronti anche a sottrarsi al rischio di impantanarsi, come operatori sociali, in approcci che rischiano di dimenticare che dietro molti problemi sul territorio ci sono problemi di giustizia, accesso ai servizi e prima ancora al lavoro e alla casa, ridistribuzione della ricchezza, prepotenza della criminalità organizzata, spinte alla segregazione. E dunque, «lasciarsi investire, ma non esaurire dalla sfida della sicurezza», per interrogarsi criticamente su stili di vita e modello di sviluppo, legalità e giustizia, controllo sociale ed etica dell’inclusione.
(Pubblicato in Animazione Sociale, maggio 2008, pagg. 89-91)

Attraverso un crescendo di puntualizzazioni e interrogativi, l’articolo di Franca Olivetti Manoukian (ri)sollecita chi svolge lavoro nel sociale a «riaprire il dialogo con la società», prefigurando che per il futuro prossimo diventerà «cruciale che i servizi accolgano il disagio collegato alla percezione di insicurezza dilagante». Non si può non convenire con affermazioni rimarcanti lo spartiacque tra due paradigmi di welfare – l’uno difensivo, residuale e paternalistico e l’altro promozionale ed egualitario -, paradigmi che influiscono differentemente sull’operatività delle professioni sociali, sui principi fondativi dei servizi sociali, sulla funzione delle politiche sociali prevista nella Carta della Repubblica. Stessa controversia di sessant’anni fa, solo che allora i cittadini «bisognosi» erano la maggioranza della popolazione, mentre adesso sono ribaltate le percentuali, mutate le condizioni sociali, moltiplicate le attese e ridotte le ipotetiche risorse da mettere in campo. Quindi l’articolo invoglia a ulteriori interrogativi.

La forza istintiva della domanda

Dalle domande di ordine pubblico provengono sollecitazioni forti e risolute, ma al contempo alteranti l’offerta di aiuto dei servizi sociali. Come reagiscono gli operatori pubblici? E il terzo settore?
In un simile clima di pressione, quando al servizio sociale comunale si riscontra il ricongiungimento familiare di un clandestino, si rischia in primis di denunciarlo piuttosto che dedicarsi a esplorare possibili percorsi proficui a rinsaldare quel legame familiare. Similmente anche lo straniero sarà propenso a inventare storie lacrimevoli e identità fasulle pur di prolungare la sua permanenza.
E quando un capofamiglia rom stanziale presenta credenziali totalizzanti un punteggio che gli farebbe ottenere l’abitazione popolare prima dei gaggè residenti, quali sommovimenti e prudenze si scatenano nell’ufficio comunale?
La domanda di ordine pubblico tende anche a snaturare il ruolo super partes di pubblici amministratori timorosi di perder voti qualora promuovessero servizi rivolti a «certe categorie» sociali: l’altro ieri i tossicodipendenti, ieri gli extracomunitari e oggi i rom.
La domanda di sicurezza pubblica non risparmia inoltre il terzo settore, in specie quello proprietario di servizi. Lo forza a scelte ambigue, ad agire più come cliente gestore di prestazioni su fornitura del «pubblico» piuttosto che a divenirne partner. Lo spinge a ripiegare su posizioni di appaltatore di pacchetti di servizi prestazionali, piuttosto che costruttore di legami e di agio sui territori.
Il mondo del non profit si va interrogando su come posizionarsi nell’attuale panorama politico e culturale. Alcune sigle già si «adeguano» a fare da utili idioti col soldo delle pubbliche amministrazioni e col favore «popolare» di chi invoca il pugno forte quale risposta e soluzione delle problematiche sociali incombenti.

«Chi» è soddisfatto di «cosa»?

L’ottimismo implicito nella proposta dialogica e costruttiva della Manoukian incontrerà strade tutte in salita, seppur affascinanti. Anzitutto perché esige selettività. Ingaggiare, motivare o rimotivare, attrezzare operatori pubblici e privati che scommettano sulla realizzabilità del dialogo tra servizi ispirati alla sicurezza sociale e una società viceversa vogliosa di sicurezza pubblica non sarà certo impresa facile; tuttavia, la Manoukian ha tutte le ragioni, poiché la sua proposta rappresenta giustizia e necessità. Al di là di essa i servizi sociali cessano di essere «sociali». I servizi tarati sulla sicurezza pubblica socializzano poco e motivano meno, livellano in basso i saperi professionali, non innescano processi relazionali paritari tra assistenti e assistiti e non intrecciano virtuosamente soggetti e interessi diversi. Piuttosto li fa scontrare.
Ci manca solo di affidare il sociale a «risposte» di separazione e carcerazione, piuttosto che ai servizi di prevenzione, educazione, riabilitazione, socializzazione, inclusione, mediazione e altro che ben conosciamo.
Credo che la domanda crescente di sicurezza pubblica ponga fine ai dubbi di coloro che si interrogano se i servizi sociali siano o debbano essere neutri. Valori umani e democrazia non esulano dal welfare.
I soddisfatti o gli insoddisfatti dei servizi saranno per primi coloro che avranno la ventura di averne bisogno. Ma la soddisfazione del lavoro sociale tocca in modo speciale chi lo svolge. Penso immediatamente a studenti e studentesse che si preparano ad esercitare una professione sociale: come si potrà dir loro che stanno studiando per imparare a sorvegliare le persone e non ad aiutarle a promuoversi?
E chi già opera? Come pensare di far assimilare a un educatore pratiche repressive? Oltre alle metodologie non altererà gli scopi sociali del suo servizio? Come opererà in una casa famiglia coi minorenni provenienti dall’area penale, o in un drop-in con persone tossicodipendenti attive, se non distinguerà il suo ruolo sociale di educatore da quello avulso di tutore dell’ordine?
Oltre a ciò, ritengo che vada menzionata la grinta di operatori che «disobbediscono», in nome della dignità umana e dell’etica professionale, alle lusinghe di amministratori che tentano di indurli a fare controllo sociale anziché servizio sociale.
Accanto al costante aumento di richieste di individualizzazione e autonomia dei fruitori dei servizi, il totem della sicurezza inibisce gli operatori sociali nel loro disegno di intervenire sulla «normalità» per ricacciarli sui «casi» e sulle categorie. Richiestissimi quando i mass media sbattono in prima pagina adolescenti che uccidono i genitori, bambini che travalicano con episodi di bullismo, disabili che chiedono di staccare la spina. Nella vita normale essi sono messi da parte. In fin dei conti credo nella tesi che il dialogo tra gli operatori e la società potrà ripartire solo con lo start up degli operatori stessi, ma a patto che essi sappiano assumersi la fatica di ascoltare le dinamiche sociali, abbiano l’autorevolezza di lasciarsi investire ma non esaurire dalle domande di sicurezza, siano radicati sui territori.

L’occultamento delle peculiarità

Cosa si chiede al Sud, di cui sono parte, quando si propone di riaprire il dialogo degli operatori con la società? Certo, in generale possiamo e dobbiamo parlare di operatori sociali, di società e di bisogno di sicurezza, ma questi termini nel Mezzogiorno si declinano diversamente dal resto d’Italia. Ad esempio, il dialogo dei servizi con la società, tranne eccellenze rare e puntiformi, non si è potuto o saputo o voluto mai aprire, in quanto storicamente i servizi sociali sono rimasti a lungo inesistenti o inconsistenti o occupati dalle clientele politiche. E quel periodo non è ancora finito.
Il territorio subisce il controllo più dalle mafie che dallo Stato; pertanto i temi della sicurezza presentano peculiarità aggiuntive e qualitativamente differenti rispetto a quelle generali di cui si parla quando esprimiamo a livello nazionale un bisogno di sicurezza.
Gli operatori sociali dei territori del Sud sono essi stessi investiti dalla responsabilità di fare letture locali competenti, adeguate, circa il bisogno di sicurezza esistente, bisogno che non è legato solo ai temi dei rom o degli immigrati, ma anche a quelli delle mafie, della disoccupazione, della malasanità, della carenza di servizi e infrastrutture, delle scarne esperienze di lavoro sociale e di cittadinanza attiva, e così via.
Come intervenire sui confini tra la sicurezza sociale e la sicurezza pubblica in territori nei quali la sicurezza pubblica viene da una parte richiesta e dall’altra ostacolata? Non è così a Napoli per la spazzatura, a San Luca per le faide e i latitanti, a Palermo per il racket o a Bari per il contrabbando? In luoghi grandi come regioni, quale dialogo realistico si potrà riaprire con la società reale?
Questa via sociale «dal sociale» al Sud fu provata tanto tempo fa e chi ne riparla, citando quel periodo pionieristico con Zucconi, Dolci, Marselli, Fofi, Olivetti, Rossi Doria e altri e altre, ne richiama la possibile ripetibilità. Questa è una scommessa imprescindibile, che non si può rinviare, entro territori in cui nel linguaggio comune il termine «sociale» risulta sbiadito, vissuto in ambiti di solidarietà corte.

Abitare e partecipare la città

di Giacomo Panizza
Abitare la città è più che abitare una casa

Come sta una città di quarant’anni? Sorvolando sugli aspetti celebrativi del quarantennale di Lamezia Terme, riteniamo indispensabile fare il punto sulla città, sulle sue trasformazioni, sui soggetti forti e deboli che vi dimorano, sulla solidità dei suoi valori tradizionali, sulle sue consuetudini e su quanto i cittadini e le cittadine ne siano consapevoli.
La Diocesi e questo suo giornale invitano gli uomini e le donne “di buona volontà” a misurarsi nello sforzo comune di ripensare alcuni eventi significativi del passato e a suscitare prefigurazioni illuminanti il futuro scenario cittadino; uno scenario che si scorge offuscato da molteplici cause quali le incertezze economiche, sociali e politiche che stressano la serenità della vita e mettono a rischio l’esercizio della democrazia; uno scenario che si paventa eccessivamente vulnerabile a motivo della fragile coesione sociale e del frequente scollegamento tra generazioni e culture e valori.
In questo frangente storico consideriamo importante che Lamezia Terme non abbassi oltremodo la guardia su sé stessa, sulla riflessione e il dibattito – che anche infervorato va bene -, sulla sua storia e su dove vuole andare, sul riscoprire i suoi punti forti quali ad esempio la cultura e il protagonismo delle persone e delle formazioni sociali, e anche i suoi punti deboli tra cui l’opprimente presenza della ’ndrangheta e le difficoltà di lanciare adeguatamente l’economia locale. Insomma, pensiamo che sia ormai imprescindibile per i cittadini tenere in conto la propria città, affinché essa divenga più che nel passato riflessiva e costruttiva, e più a dimensione umana per tutti.
Ciascuno di noi sa che un mucchio di mattoni non fanno una casa, similmente però non sempre immaginiamo che anche un mucchio di case non fanno una città. Le quasi trentamila abitazioni con le oltre centomila stanze censite di Lamezia Terme non la istituiscono né la rappresentano in quanto città. Abitare una casa, dimorarvi da soli o con qualcuno è un’esigenza umana intima e significativa, eppure abitare una città è diverso, è un’altra cosa, è di più: abitare la città chiama in causa la dimensione relazionale e comunitaria delle persone, non le inquadra nella categoria ristretta di individuo ma le colloca in quella più ampia di politico.

Evoluzioni e involuzioni nella storia e nella mente

Che voglia di città riscontriamo in Lamezia Terme a quarant’anni dalla sua istituzione? Somiglia a un’aspirazione individualistica di singoli cittadini che reputano le strutture, le istituzioni e i servizi come beni a loro disposizione, oppure rassomiglia a una comunità di persone che nel loro-stare-insieme sono convinte di essere esse stesse la vera risorsa della città?
«Nel 1968 dall’unione dei tre comuni di Nicastro, Sambiase e S. Eufemia nasceva Lamezia Terme. Era il periodo in cui i nuovi meridionalisti sostenevano che la questione meridionale fosse soprattutto una questione di urbanizzazione, cioè un divario tra un’Italia (quella del centro-nord) diffusamente urbanizzata e un’altra Italia (quella del sud) ancora quasi interamente rurale». Le città attrezzate, la quantità di abitazioni e di opportunità, i “poli” territoriali e delle infrastrutture venivano considerati come leve del progresso e dello sviluppo.
Da tre comuni a uno, Nicastro, Sambiase e S. Eufemia si sono mossi su quest’onda sia per svilupparsi che per ambire ad una centralità regionale. «I prerequisiti sembravano esserci tutti. In primo luogo quelli geografici. Lamezia era (e continua ad essere) il centro fisico di quell’ameba territoriale stramba che è la Calabria. Un centro più tirrenico che jonico, anche se solo un sottilissimo Istmo divide i due mari. La giacitura in pianura, in una regione dominata dalle colline e dalle montagne impervie, permetteva facilità di scambi, fluidità delle comunicazioni, fertilità dei terreni. La presenza del mare e di una lunghissima spiaggia offriva a quel tempo formidabili occasioni di sviluppo delle economie balneari. Lamezia, inoltre, si andava vieppiù configurando come il centro infrastrutturale eccellente. Autostrada, stazione ferroviaria, aeroporto: tre nodi infrastrutturali apparentemente del tutto normali, ma decisamente straordinari se concentrati in un unico punto di una regione storicamente alle prese con un deficit strutturale di reti di comunicazioni».
Quei prerequisiti si convertirono in desideri di evoluzione e di assunzione di importanza strategica regionale per la città, ed ebbero la capacità di mettere in moto industriosità locali e forestiere, crescita edilizia seppur sregolata, organizzazioni di base e sindacali per accompagnare insorgenti sensibilità culturali e tutelare prevedibili occasioni occupazionali. Ma ora, trascorsi quattro decenni, sappiamo che l’energia di quel movimento stimolatore di giuste attese e di grandiose speranze si è svigorita, e nella mente dei lametini il termometro delle prospettive di sviluppo e rinnovamento della città e del suo comprensorio sta segnando il punto più basso, il punto più freddo.

Il dialogo che può unire e guarire una città

Qualsiasi città di quarant’anni è indubbiamente giovane, anzi giovanissima. Le narrazioni di fondazione, tranne rari ed eccezionali episodi, le mostrano rette da un capo carismatico e talvolta persino con ascendenze divine, il quale sancisce e conferma con azioni giuridiche e rituali la fondazione della città in cui il popolo esprime medesime credenze e aspirazioni unitarie.
Lamezia Terme ha percorso un’altra strada unificando tre comuni preesistenti, democratici e differenti, per cui diviene compito fondamentale per gli ex Nicastro, Sambiase e S. Eufemia non solo conservare la peculiare storia del loro passato ma partecipare a creare quella nuova, comunitaria. In gioco allora non c’è soltanto una storia individuale ma un futuro e una cultura comune, non ci sono solo le tradizioni singolari da trattenere per sé ma anche le loro radici da espandere e intrecciare con altre sul territorio e sull’avvenire.
Si decise di fare Lamezia Terme prima dei lametini scommettendo coraggiosamente sulla storia in avanti, sulla cultura ancora da produrre più che su quella prodotta, sull’identità cittadina futura e non solo sull’identità paesana del passato, immaginando che le culture locali di partenza fossero identità aperte, collaborative, disposte a ridistribuire sul modificato territorio modalità eque e giuste, intenzionate a coltivare stili fraterni e non di antagonismo o di ostilità. È facile concordare sul concetto che l’unificazione non deve tramutarsi in una strisciante “nicastrizzazione”; più difficile è concordare le modalità concrete di rinforzare le disponibilità reciproche dei secolari territori a sentirsi tra di loro interdipendenti.
Oggi ci domandiamo a che punto siamo. Per realizzare la città possibile dovremmo riconsiderare quali siano i pezzi mancanti a Lamezia Terme senza i quali non possiamo assegnarle dignità storica di città; e se sia ancora accettabile pensare di fare Lamezia senza i lametini. Dove sono svanite le convinzioni fondamentali dei promotori dell’unificazione? A sostenerle in questi quarant’anni non c’erano partiti popolari, sindacati, associazioni civili e movimenti culturali e religiosi? L’economia locale, tanto gratificata dal denaro pubblico proprio a causa dell’unificazione, aveva soggetti a prendere o a produrre? Dovremmo davvero discuterne a fondo, consapevoli che solo il dialogo tra soggetti e visioni differenti potrà unire e guarire la nostra città troppe volte ferita non solo dalla ’ndrangheta ma talvolta anche dall’incuria di parte dei cittadini e delle stesse istituzioni.
Ciò che è in atto a Lamezia Terme stimola a mettere tra i primi punti della discussione il termine “comune”. Che cosa significa? Comune in latino riporta cum moenia, un significato difensivo, evidenzia una comunità e un raggruppamento di case che si recingono con un muro protettivo: le mura di cinta (moenia). Ma comune in latino riporta anche cum munus, termine che viceversa ispira dimensioni relazionali di gratuità, rapporti amicali e di reciprocità, comunità di persone socialmente legate e coese poiché sussiste tra di loro uno scambio di cose di molto valore eppur regalate: i doni (munus). Che ve ne pare: la città non avrebbe bisogno di assumere per sé e il suo futuro proprio questa seconda metafora?

Politica e coscienza cristiana nello Stato moderno

di Giacomo Panizza
I cattolici in vista delle elezioni

Chi come candidati e chi semplicemente elettori, molti cittadini e cittadine della nostra diocesi assieme a milioni di altri e altre in tutta Italia, a breve, saremo chiamati a partecipare alle competizioni elettorali.
Ogni persona che prende sul serio la fede cristiana non sfugge la corresponsabilità nei doveri di cittadinanza, anzi li rafforza. Nei convegni ecclesiali emerge sempre più limpido e frequente il messaggio che «occorre essere più consapevoli che è necessario un discernimento cristiano sui temi della cittadinanza, e che esso richiede la capacità di immaginare le istituzioni e strutture sempre più a misura e a servizio della persona ». (Materiali del 4° Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona).
In vista di eventi notevoli quali le prossime elezioni politiche e amministrative, i cristiani sono chiamati a confrontarsi, a riflettere e scegliere, mettendosi in questione all’interno dei partiti e delle coalizioni politiche, ma altresì alla luce della Dottrina sociale della Chiesa. Nondimeno nella nostra diocesi avvengono dibattiti e si attuano scelte importanti e per niente affatto ininfluenti. Al fine di incoraggiare la discussione, il gruppo dei partecipanti alla Scuola di Dottrina sociale della Chiesa di Lamezia Terme mise a punto, nello scorso anno, un Decalogo per chi fa politica divulgandolo attraverso un Foglio informativo. Con esso in breve si contesta la vigente legge elettorale che non riserva all’elettore piena libertà di scelta dell’eleggibile, ma soprattutto si evidenzia che chi si candida e consegue ruoli di governo può e deve contribuire ad orientare la politica al bene comune.
Allora: cosa stanno pensando di suggerire e proporre al Paese i politici di ispirazione cristiana? Restiamo in attesa delle coraggiose promesse dei nostri laici impegnati. E noi cattolici, cosa avremo da domandare a coloro che saranno candidati? La prima raccomandazione è che essi non si leghino ad una logica meramente partitica, esclusivista; la seconda è che agiscano sempre da persone libere, che non divengano ossequiosi ai tornaconti di singoli partiti o peggio alle convenienze di singoli leader. Entrambe le raccomandazioni si inquadrano nel principio che ogni politico è chiamato in prima persona a rispondere alla voce della sua coscienza interiore e alle esigenze del bene comune dell’intero corpo elettorale, anche di coloro che si identificano in differenti e contrarie parti politiche.

Nella politica da credenti

Vale la pena richiamare la norma che chi legifera e governa, amministra o fa opposizione, non è da considerare un mero esecutore della volontà della sua base elettorale. E, per la dottrina, nemmeno può venire inteso come longa manus della gerarchia ecclesiale. Coscienza e ragione, scelte attive e confronto continuo, sono quattro pilastri fondamentali dell’esperienza di colui o colei che si gioca nel servizio della politica. Questi pilastri rappresentano la responsabilità personale e pubblica del cristiano, lo collocano negli ordinamenti e nelle regole democratiche previste dalla Repubblica italiana. E la Chiesa cattolica lo sa. La gerarchia lo sa. Sa che compito del cristiano in politica è costruire lo Stato secolare. Sa che costruire la cristianità non è affatto il fine della politica. È invece compito particolare della Chiesa. Come anche tutti dovremmo sapere che costruire qualsiasi altra idea di società culturalmente o religiosamente o ateisticamente caratterizzata non è il fine della politica. Piuttosto: ogni persona di qualsiasi religione, cultura o interesse, è mobilitata a fare la propria parte a vantaggio non solo di sé e dei suoi ma a vantaggio di tutti. Non si fa politica riproducendo soltanto il modello socio-culturale di un’unica parte in causa zittendo o occultando le altre.
La politica democratica prefigurata dalla Costituzione italiana non è credente o atea o religiosa o laica o laicista o socialista o comunista o liberista o radicale o quantaltro. Essa deve genuinamente valorizzare ciascuno e dare prova di rispetto per tutti. «La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica. Essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia. La fede fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste su questa terra… e deve trasformare il mondo intero. Lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne le conseguenze». (J. Ratzinger, 2004 – In occasione del 60° dello Sbarco in Normandia). Pertanto, i cristiani di uno Stato moderno non intendono la politica come cattolica. Invero quindi, si afferma che esistono cattolici che fanno politica, i quali ne rispondono in prima persona alla propria coscienza e agli altri; così come esistono atei che fanno politica, ma anch’essi devono rispondere della libertà di religione di chi è religioso; come anche esistono altri uomini e donne e gruppi con idealità o ideologie e interessi, ma tutti quanti si è vincolati a fare politica pubblica agendo nell’orizzonte dei valori e dei dettati costituzionali.
Nella Repubblica italiana – in cui noi cattolici ci ritroviamo fieri della nostra libertà – ciascuna identità culturale, o religiosa o di interessi, non può costituire il fine della politica; ognuna rappresenta piuttosto un punto tra numerosi altri, una soggettualità tra le altre da mettere in gioco, sulle quali investire e far fruttificare, come i talenti della parabola evangelica, per la costruzione del bene comune, di un bene pubblico condivisibile non solo da “quelli della tua casa” ma anche da tutti quegli altri che incontri e coi quali imbastisci e valorizzi la tua vita.

La politica rimane indietro, ma c’è chi cerca vie di sviluppo


Fanalino di coda, anche in Europa. Terra di ‘ndrangheta. Serbatoio di immigrazione. Ma si scorgono sintomi di un futuro di eccellenza e speranza.
di Giacomo Panizza
Nella “gente di Calabria” quale opinione di sviluppo locale è diffusa? Quale mutamento essa si aspetta, trovandosi in una quotidianità cruda, di fronte a dati che continuamente le confermano che abita nella regione più povera d’Italia? La Calabria risulta fanalino di coda in Italia negli indici di sviluppo umano, economico e sociale, a causa di disoccupazione, insuccessi scolastici, criticità del saldo migratorio, scarsa qualità della vita, carenza e l’inefficacia dei servizi alle persone.
L’80% della popolazione calabrese, inoltre, si trova costretta a convivere nel territorio con gruppi criminali mafiosi e a sottostare al predominio della ’ndrangheta, attualmente ritenuta la mafia più pericolosa, a livello locale e globale.
Nell’Unione europea, la Calabria è la residua regione italiana rimasta nell’Obiettivo uno, ovvero giudicata sotto le condizioni minime per potersi auto-sviluppare: è bisognosa di accrescere le proprie capacità di futuro, ma va accompagnata nel cambiamento, in particolare nella gestione ordinaria dei fondi dell’Unione, perchè non persista nella condizione di regione a dipendenza assistita.
In un simile quadro, si comprende la debolezza oggettiva dei calabresi che intendono scommettere sullo sviluppo locale, e il motivo per cui non diminuisce il numero di coloro che programmano di emigrare, piuttosto che avventurarsi a rischiare investimenti o a fare impresa in loco. Il sogno viene spesso infranto già in partenza.
La Calabria, dall’istituzione del Regno d’Italia a oggi, si è imbattuta in ostacoli che le hanno impedito di praticare uno sviluppo endogeno, che partisse dalle sue città, dalle sue campagne, dai circa 700 chilometri di litorale e dai mari che la circondano. Anche dove esistevano condizioni favorevoli, invece di evolversi si sono indebolite, e le cause del peggioramento vanno addebitate soprattutto a una politica locale e nazionale miopi, per certi versi scellerate, oltre che all’azione devastante della criminalità organizzata.

Fascino di miti e riti
I calabresi residenti nella regione sono due milioni. Ma ci sono centinaia di migliaia di emigrati in tutto il mondo, parecchi noti per i ruoli di responsabilità pubblica che ricoprono e per la loro abilità nel muovere economie positive e nel promuovere sviluppo locale. Ma altrove. Sarà possibile trasferire questa sfida anche nella propria terra? Quali risorse deve mettere in campo la società civile calabrese?
La società civile, non senza la chiesa calabrese – poiché l’associazionismo di base, volontariato di servizio e cooperazione sociale sono realtà concrete, inizialmente promosse sul territorio regionale proprio dalla chiesa -, esprime organizzazioni di eccellenza, all’altezza di contrastare l’inequivocabile trend di impoverimento diffuso, che comporta anche l’inibizione di molte capacità lavorative e imprenditoriali locali. Questa società civile si manifesta però come risorsa puntiforme, minoritaria, collocata all’interno di una cultura intimidita rassegnata alle logiche della ’ndrangheta. La quale ingaggia giovani anche esterni ai clan criminali e li attira approfittando della loro fame di pane, consumi e appartenenza simbolica e protettiva. Per rendersene meglio conto, basterebbe considerare il fascino esercitato su giovani e adolescenti da miti e riti mafiosi apparsi nella recente fiction televisiva sul “Capo dei capi”.
La cultura generale popolare, pertanto, appare arretrata rispetto a quella dei vari gruppi, diffusi a macchia di leopardo, che esprimono le loro idee e la loro lotta attraverso organizzazioni di base ed esperienze assai dinamiche e coraggiose, dalle associazioni antiracket (come quelle della piana di Gioia Tauro e di Lamezia Terme) alle reazioni giovanili della Locride e di Catanzaro, dalle esperienze di educazione alla legalità di Reggio Calabria e della Sibaritide all’uso sociale e produttivo (sempre più esteso) dei beni confiscati. Società civile e chiesa si trovano più volte insieme nel ruolo di promotrici di proteste contro mafie, corruzioni e ingiustizie. Ma si ritrovano anche a riflettere e a progettare per poter far scaturire decisioni politiche più favorevoli alla democrazia e capaci di coinvolgere la base popolare, economie più sociali, una società più accogliente. Esistono multiformi realtà sociali organizzate, in contatto con enti e soggetti di ispirazione cristiana, che promuovono insieme manifestazioni critiche verso coloro che il cambiamento non lo vogliono, e non da oggi.

“Disattenzioni” non casuali
Si capisce che stiamo parlando, a questo proposito, dei partiti politici. Accanto ad alcune lodevoli prese di posizione, come il sostegno al terzo settore che utilizza strutture confiscate alla mafia, o la copertura finanziaria di certe manifestazioni studentesche, o la promozione pubblicitaria sui mass media di una regione ricca di gioventù, ci sono elementi criticabili, perchè denotano l’assenta della politica. In particolare, essa risulta evanescente laddove occorre regolare l’economia e le responsabilità; laddove si devono controllare i processi gestionali ed evolutivi; laddove occorre passare dall’annuncio del cambiamento alla pratica del cambiamento. Essa risulta molto “indietro” rispetto alla polis della società civile organizzata.
Svariati gli esempi possibili. La Calabria non ha ancora attuato, per esempio, la legge 328 (che risale al 2000) di riforma dell’assistenza sociale; pur avendola recepita tre anni dopo, la tiene bloccata non varando il piano regionale degli interventi sociali né il regolamento dei servizi. La Calabria non ha nemmeno messo a punto la legge sulla cooperazione sociale, né ha recepito quella sulle associazioni di promozione sociale, e ha un’inadeguata legge sul volontariato. Non ha recepito la legge nazionale sull’handicap, pur in presenza della raccolta di migliaia di firme.
Sul versante della legalità, basti dire che esistono depositati quattro disegni di legge sulle associazioni antiracket, criticati dalle stesse associazioni perché superflui; un quinto disegno li riassume inefficacemente e le associazioni antiracket ne propongono una correzione sostanziale. Ebbene: anch’esso è fermo da mesi, mentre chi si muove e cambia sono giunte, commissioni e incarichi dei politici. La gente semplice interpreta queste “disattenzioni” come risultato del fatto che in Consiglio regionale ci sono, dato certo, ventidue onorevoli indagati dalla magistratura per reati che vanno dall’associazione mafiosa al voto di scambio alla distorta applicazione della legge 488 (sulla concessione dei finanziamenti a fondo perduto e a credito agevolato), e altro ancora.
In ogni caso, sebbene la politica appaia silenziosa sui temi dello sviluppo locale vero, nella società civile esistono soggetti che cercano, anche se con fatica, di disegnare il futuro di una Calabria diversa. è una minoranza alla quale la popolazione accorda fiducia morale; che è consapevole che ripartire col piede giusto si può. E si deve.

Racket: basta alibi, nessuno sarà più solo

di Giacomo Panizza 
(Spunti per incontro del 14 dicembre 2007)

In questo intervento io parlerò del significato dell’associazione antiracket ALA
nella cultura della nostra città.
Questa esperienza fa da spartiacque, da linea di discriminazione tra un prima e un dopo
che a Lamezia Terme non è più uguale, e i commercianti e gli imprenditori lo sanno.

ALA: è un acronimo, distorto, per dare l’idea del volare, del volare alto,
per dire quell’idea che, con una dozzina di persone, avevamo in testa.

Sul problema del racket e della reazione al racket è nato un gruppetto,
piccolo ma di persone di speranza, convinte che potevamo provare a volare,
per fare cose nuove, utili a noi e agli altri, e alla città.

Non ci stimavamo di essere bravi noi, o capacissimi.
Pensavamo piuttosto che per volare alto, per pensare e fare scelte coraggiose
i tempi fossero maturi.
Mi spiego: per volare ci vogliono le ali e l’atmosfera.
(Nella metafora della colomba, di Kant, le ali volano soltanto perché c’è l’atmosfera;
senza quella non volano. È scientifico).
Noi abbiamo pensato di mettere le prime ali, perché la città di Lamezia Terme
aveva e ha l’atmosfera adatta. Ne siamo certi, la città ha un’atmosfera propizia.

Pensiamo che si può volare alto perché Lamezia Terme ha una società civile davvero civile,
valoriale, ben disposta, e stufa di mafie e di mafiosi.

Basta alibi, perché a Lamezia Terme qualcosa di nuovo è successo

Con il gruppo Antiracket, Lamezia Terme ha un’associazione nuova; ma si può anche dire
che Lamezia Terme è una città nuova? Proviamo a giudicare dai frutti.

Durante questo periodo è accaduto l’episodio criminale e increscioso dell’incendio
alla casa e al magazzino della famiglia e Ditta Godino.
La città ha espresso tantissima solidarietà, in più modi, non solo quella degli amici e parenti.

La serrata del 4 novembre 2006, la raccolta fondi tramite la Caritas diocesana,
le riunioni nelle scuole e nelle parrocchie sul tema del racket, eccetera:
tutto ha assunto il sapore della solidarietà.

L’intervento dello Stato per la ricostruzione della struttura, con un contributo equo e in tempi
ragionevoli, è da leggere anche come risposta al clima di una città che reclamava
segnali nuovi e scelte risolute.

Alcuni presunti criminali del racket sono stati catturati e rinviati a giudizio.
Anche qui lo Stato sta dimostrando di fare la sua parte più di ieri.

L’associazione antiracket ALA, iniziata con 13 persone, ora è andata molto avanti coi numeri,
(crescita che deriva anche all’impegno profuso dal presidente, Armando Caputo).

Non a caso ALA è stata riconosciuta parte civile in un processo di racket;
per la prima volta, qui, tra qualche giorno (il 20 dicembre) ci sarà la sentenza.
Noi continueremo su questa scia, dedicando la nostra presenza attiva
alla tutela della dignità delle persone che lavorano e della libertà di impresa.

Differentemente dal passato, nel territorio vengono promosse moltissime iniziative sul tema del
racket, per la sensibilizzazione e l’educazione alla legalità nelle scuole, nelle parrocchie, nei gruppi
e nelle associazioni.

Insomma: i frutti sono rappresentati non più da uno sparuto gruppo di “resistenti”,
ma stanno maturando diffusamente in pensiero comune, in sensibilità alta.
ALA rappresenta questo spartiacque tra la vecchia rassegnazione e la nuova ribellione al racket.
La città partecipa più di ieri. Non vuole rassegnarsi a convivere con la criminalità organizzata;
si indigna dell’illegalità; non vuole diventare una città di Serie B.
Anche su altri aspetti vuole dire la sua, perché sente di avere capacità e risorse
che non vuole vadano espropriate.
Lamezia Terme è diventata più capace di far accadere cose nuove e innovative
prese in mano dalla società civile (come quando hanno appiccato il fuoco al portone del Consiglio comunale, subito dopo le elezioni di Gianni Speranza a sindaco: la società civile arrivò sul posto
subito, a manifestare solidarietà alle Istituzioni democratiche, prima di tutti).
A Lamezia Terme – è cronaca – si intessono sempre più reti di associazioni e gruppi.
Qualcosa di nuovo c’è davvero.

Basta alibi, perché ora non si sta più da soli davanti al racket

Conveniamo tutti che in città finalmente abbiamo un gruppo antiracket,
abbiamo una nuova sensibilità nella cittadinanza,
e riscontriamo un più adeguato modo di porsi da parte dello Stato; pertanto:
chi viene infastidito dal racket non può più nascondersi dietro al dito, giustificandosi,
recitando di sentirsi solo!

Adesso non è più come prima. E non è più come per i noti episodi accaduti, ieri,
che hanno visto gente rimasta sola a Filadelfia, a Vibo Valentia, a Reggio Calabria, …
A Lamezia Terme oggi si sa che la partita si può giocare e si può vincere.

In altri luoghi d’Italia, come ad esempio a Palermo, Gela, Napoli, Catania e altrove,
è in atto una concreta e unitaria reazione, dal basso, contro il racket.
A Lamezia Terme pare più difficile, perché la nostra è una città “dichiarata” città singola,
con territori assemblati, più comuni e frazioni accostati da interessi e motivazioni geo-politiche.
Per buona parte della popolazione l’unità cittadina rimane una meta, non è punto di partenza.
Eppure, sulla resistenza al racket, tutti, commercianti, imprenditori, professionisti, lavoratori,
parroci, giovani, donne, le categorie più varie,
concordiamo che è giunto il tempo di una resistenza comune al nemico comune.
In questo quadro, plaudiamo alla presa di posizione di Confindustria siciliana
quando parla chiaramente coi propri iscritti, condannando chi coltiva legami col racket,
posizione ripresa e confermata anche dal presidente nazionale di Confindustria, Montezemolo.

ALA sta in mezzo. Coagula consensi. Non cerca voti. Non è un partito. È un bene comune.
Un bene comune non si realizza da singoli, o contro qualcuno, o senza gli altri, ma con tutti.
Un bene comune è ricchezza della città, della vita di tutti,
e non della ditta di qualcuno di noi, iscritti ad ALA o no.

Basta alibi, perché «io so»!

Io so che pagare il pizzo non è solo una spesa. So che è una fregatura,
un legame con nemici ripugnanti, so che è umiliante.
Io so che non è una specie di assicurazione. So che è l’illusione di poter porre
un equilibrio stabile delle mie economie e della mia serenità con la protezione di un clan mafioso.

Basta alibi, perché ora a Lamezia Terme io non posso non sapere che si può reagire,
che si può darsi da fare, muoversi, denunciare, mettere in angolo il racket.
Io so che non si deve più restare alla finestra,
perché non si è più soli davanti ai prepotenti del racket.
Io so che ora si può. E che ora occorre reagire all’impoverimento della vita e dell’economia,
della serenità della città.
Chi è dentro ALA può dire “Io so”; ma anche chi è fuori lo sa.

Chi è dentro ALA sa molte cose.
Sa ad esempio che in Consiglio regionale della Calabria giace, ferma,
una proposta di legge sulle associazioni antiracket. Che non deve restare ferma.
La politica, di qualsiasi colore sia, non può trattenere nel cassetto una legge che può aiutare
gli imprenditori, i commercianti, i professionisti e chi si associa per lottare contro il racket.
Quel testo è la cucitura di quattro proposte di legge; a noi pare disorganico e inefficace,
che sia da modificare in meglio.
Qui, pubblicamente, chiediamo che questa legge vada avanti,
e proponiamo che l’emendamento predisposto dal relatore venga accettato per intero.
La Calabria abbisogna di una legge efficace per le associazioni antiracket.
Anche per questo: basta alibi; la politica non può lasciarci rimanere a lottare a mani nude.

Insomma, ci aspettiamo che la politica regionale prenda coscienza della pericolosità pubblica
della dimensione del racket. Il racket è una fetta rilevante del disegno criminale della ’ndrangheta,
di controllo del territorio, di svuotamento della democrazia.
Ci aspettiamo che la politica regionale non ponga questa questione (e altre come l’educazione, il sociale,
il lavoro, la salute, eccetera) in agenda “dopo” i tornaconti dei partiti, le poltrone, le formule, le nomine
e certi incarichi.

Infine, chi è dentro ALA sa anche cose molto personali, umane, intime.
Sa cos’è la paura, conosce la solitudine del dubbio di fronte a certe decisioni,
sa cosa sono i ricatti, le notti insonni… Ha provato già tutto questo sulla sua pelle.
Chi fa parte di ALA è come un “guaritore ferito”; è come colui che ha già vissuto
una situazione difficile, una sofferenza, e l’ha fronteggiata e superata…
Ora condivide ad altri i risultati raggiunti. Ora sa capire gli altri che subiscono il racket,
perché lui sa, ci è passato.

E, pur avendoci messo tutto sé stesso,
sa di aver superato i suoi problemi e le sue preoccupazioni non da solo,
ma unicamente perché si è unito in gruppo con altri. Si è fidato di altri come altri di lui.
E insieme hanno capito di più, hanno fatto di più, hanno ottenuto di più.
Per sé e anche per la città di Lamezia Terme.

Quelli che… al disagio si ribellano

di Giacomo Panizza
Il disagio di non fare anche la tua parte

La disperazione indicibile di quattro bambini rom avvinghiati mentre bruciano ci fa avvertire il disagio dei genitori che fuggono alla vista delle fiamme divampanti nella roulotte; di chi si mette a telefonare ai pompieri e al 118; di chi apre un procedimento giudiziario ficcando in galera quel papà e quella mamma; di chi scrive la notizia pensando a come commentarla; di chi la legge inquadrandola di destra o di sinistra; di una cultura balbettante su questi temi; di chi non riesce a digerire come mai in una città come Livorno, e in una regione “sociale” che vanta una storia di impegno popolare e istituzionale, non c’erano adeguati operatori e servizi per curare quel disagio, né politiche sociali all’altezza di prevenirlo; di chi si stufa di riparlare dei rom dei quali sa già tutto; di una società che si reputa normale permettendo e sopportando che tali orrori accadano. O no?

Quattro piccoli arsi vivi, loro e solo loro, hanno subito da vittime un mondo di disagio provocato e tollerato dagli altri, adulti e istituzioni, cultura e società, rimasti identici, tali e quali, anche dopo “l’incidente”. Senza subire il disagio nemmeno come imbarazzo psicologico o fremito morale. Del disagio, e di chi lo cura, se ne può parlare in tanti modi; però, perché non reagire, perché non parlarne cercando e sperimentando opzioni alternative? Ribellarsi costruttivamente non è un moto ingenuo e velleitario della coscienza. Credo che occorra cambiare paradigma, che sia necessario parlare molto anche dell’agio e sperimentare culture, relazioni sociali, servizi e iniziative di promozione dell’agio e non solo di tamponamento del disagio. Il “normale” costume di una società, l’etica di un popolo, di fronte a simili episodi di disagio che genera vittime, spinge a criticare e a protestare. E anche a reagire. Almeno a ribellarsi per fare in modo che certe cose orribili non accadano più. O no?Davanti a bambini carbonizzati, agosto 2007 in Italia, è cinico rimbalzarsi le responsabilità tra famiglia, società, assistenti sociali, enti locali, polizia, stato. O assurgere ai massimi sistemi incolpando la cultura dell’indifferenza (comunque colpevole) o dare addosso alla solita politica (pure colpevole), timorosa di perdere i voti qualora affronti con l’intenzione di risolvere l’esclusione sociale dei rom. Nel teatrino dello scaricabarile ciascuno appare o ingiustamente innocente o superficialmente colpevole. Piuttosto, la costituzione “di carta” fino a ieri poco seriamente assunta dalla comunità nazionale e causa oggi di “disagio” alla società dei due terzi che sta erodendo il patto sociale allora condiviso, insieme alla debolezza di altri fattori valoriali e sociali, consentono alla comunità di sfilacciarsi e a ognuno di pensare di poter vivere e fare da solo e di reputarsi responsabile di nessun altro, nemmeno dei bambini. “Il disagio e chi lo cura” è un tema a due fuochi. Da una parte vi si colloca il disagio fatto di persone e relazioni, di situazioni di sconfitta e significati monchi, di bisogni e di notorie carenze di strumenti; dall’altra si mette chi lo cura, opera, programma, interviene, verifica. Ma questi due fuochi non rappresentano la dimensione completa del disagio. Lo semplificano troppo. Bisogna andare oltre. Limitarsi a questi due fuochi oltre che riduttivo occulterebbe altre radici, altre cause e altri effetti altrettanto importanti del disagio diffuso. Ad esempio, rischieremmo di dover concludere che il disagio della droga è di chi si droga e solo suo; o d’altro canto di attribuire a chi cura il disagio delle dipendenze un po’ tutte le disfunzioni individuali e sociali connesse con l’universo droga, perché chi si prende cura della persona in situazione di disagio fa – bene o male – “solo” l’educatore e non anche il carabiniere, opera per la prevenzione sociale e non per la repressione, cura il disagio della persona tossicodipendente ma non le cause generali della diffusione delle sostanze stupefacenti. Un po’ come dire che il mondo della droga ce l’ha in carico lui. Mi pare che esageriamo!Qui, oltre che porre a tema il disagio e chi lo cura, ci rendiamo conto che occorre mettere in gioco anche qualcun altro e qualcos’altro. Qui occorre anche reagire al delirio di onnipotenza di chi potrebbe pensare che il disagio lo possa e lo debba curare lui e nessun altro. Qui occorre smascherare il bluff di chi opera pensando di contrastare e superare il disagio considerandolo in sé e per sé, come fosse un’area o una cosa o un problema circoscrivibile, isolandolo dai contesti e dai molteplici fattori umani, culturali, economici, sociali, etnici, informativi, psicologici, e così via, che invece entrano in gioco a provocarlo e riprodurlo. Ci sono utili idioti persuasi di poter curare il disagio delle persone individuandolo in esse, “curando” certe loro parti cosiddette malate; ci sono anche utili idioti che pensano di sanare certi disagi sociali stigmatizzandoli in categorie sociali e recintandoli in servizi apposta per loro che sanno di “fabbriche, scuole e prigioni”, ma relegando “i disagiati”, le persone concrete, in contenitori dell’abbandono chiamati case della salute o comunità o gruppi-famiglia o con altri eufemismi agendo un controllo sociale legalizzato e remunerato. Ci sono idioti puri che con teorie, leggi, populismi e promesse elettorali, raggruppano persone in categorie di problematiche stigmatizzandole come atomi del male, untori, cause prime del disagio sociale generale. Qui insomma occorre onestamente che ci troviamo d’accordo sul fatto che per curare il disagio è fuorviante demonizzare i più disagiati; che non basta solo (o non basta più) predisporre prestazioni professionali di bravi esperti singoli, ma servono interventi competenti e solidali determinati dalla società e messi in campo anche dalla collettività civile e dai territori; che giova a poco o niente avere i servizi sociali senza chiare e efficaci politiche sociali per la scuola, la salute, l’occupazione, la partecipazione attiva; che il terzo settore è destinato a produrre nessun cambiamento utile alla gente, all’uguaglianza e alla democrazia se permane nell’alveo tecnico specialistico di servizi in se stessi di qualità ma senza ricadute di coesione sociale e di mutamento solidale tra persone e società, istituzioni e raggruppamenti sociali.
Occorre ribellarsi e reagire costruendo non solo prestazioni e servizi sociali rivolti al disagio ma anche alla cosiddetta normalità. Il disagio, sia esso patito individualmente, o pensato come fosse un bubbone malato di una società invece sana, o ritenuto come la conseguenza brutale di una società ingiusta, o altro ancora, va comunque situato nei contesti e nelle dinamiche strutturali che lo provocano, che lo tollerano, che perfino lo gestiscono. Di fronte al disagio oggettivo, si deve però smettere di parlarne soltanto, di vederlo ma non fare niente, di mostrarlo su riviste patinate chic e su reportage televisivi fuori orario, di coglierlo nelle sofferenze profonde di persone, gruppi, etnie, “categorie”, ma rimanere alla finestra a guardare. Davanti a una baracca-roulotte in fiamme si può continuare a chiacchierare di disagio rassegnandoci al pensiero che non possiamo né organizzarci né fare qualcosa?
Curare il disagio non è solo un mestiere

Nelle società moderne, e un po’ ovunque oggi nel mondo grazie ai mass media globalizzati, il disagio si legge con occhi diversi che nel passato. Talvolta addirittura lo si percepisce in maniera più acuta. Una qualsiasi carenza di opportunità, un tipo di povertà materiale o immateriale, una sensibilità esistenziale o identitaria, e così via, si percepiscono con intensità differenti a seconda se sei in città o in campagna, se svolgi una professione o un’altra, se frequenti un giro di persone diverso, se sei di una certa zona del sud o del nord, e via di seguito con altri paragoni e altre combinazioni di cui i sociologi sono maestri. La fatica del disagio non è più un vissuto solo di persone, situazioni, categorie “date”, e la lettura delle sue forme si è fatta più complessa e raffinata anche nella popolazione, la quale la interpreta con l’abbiccì della paura e della minaccia, evocando insicurezze e invocando interventi polizieschi, di difesa piuttosto che di cura. Riscuotono successo quei politici che con pugno di ferro promettono sicurezza illudendo di far pulizia degli (ap)portatori di disagio. Quei politici diventano contagiosi; basta leggere alcune dichiarazioni ultimamente rilasciate da altri politici, della sinistra-sponda-opposta, che fino a ieri affermavano e promettevano programmi diversi sull’immigrazione, sulla droga, sui giovani, sul carcere, sulla psichiatria, insomma su tutti i temi del disagio. Quei politici e questi altri hanno bisogno di utili idioti disponibili a prendersi cura del disagio loro e dei benpensanti.

In un simile clima culturale, chi cura il disagio non può pensare che sta svolgendo una professione neutra: non lo è operativamente né culturalmente, socialmente né politicamente. Non fa un semplice mestiere, aiuta o imbriglia. Chi cura il disagio deve discriminare per costruire uguaglianza; deve operare per costruire cittadinanza; deve far accadere una continua messa in circolo delle risorse umane, culturali, istituzionali; deve supportare l’autonomia delle persone delle famiglie e dei gruppi sociali, specialmente quelli deboli; deve avere di mira la “salute” e il generale ben-essere della società. Tutto questo dovrebbe essere fatto per curare il disagio e per il suo superamento. Però, a fronte di una maggiore consapevolezza del disagio, non si sono evolute più di tanto le pratiche di contrasto, di lotta, di ribellione, di costruzione dell’agio. Si vedono troppi servizi pubblici rintanati in meri interventi di ufficio (in tutti i sensi), mentre il terzo settore è in panne, spesso ridotto a fare prestazioni più che coesione sociale, servizi sociali più che politiche sociali. Sarebbe ora di svelare la persistente enfasi della cura del disagio come missione, religiosa o civile non cambia nulla. Sarebbe anche ora di finirla con il sopportare mestieranti del lavoro sociale dedicati alla cura del disagio, remunerato o gratuito, svenduti al comune o alla cooperativa senza capacità di costruire alternative alla vita delle persone prese in carico.

Sulle innumerevoli possibilità pratiche di contrasto esiste un analfabetismo disarmante. È più ovvio procurarsi pastiglie, polverine, gocce, droghe anche illegali, per fronteggiare autonomamente temporanee o ricorrenti situazioni di disagio. Lo si fa anche coi bambini. Si sedano le ansie agendo sui sintomi. L’idea di lottare contro le cause e gli effetti degradanti del disagio fatica a entrare nell’immaginario collettivo; diviene improponibile il pensiero di conviverci, di riuscire a non reputarlo sempre e comunque un problema che si può risolvere o eliminare. Non si considera che non è possibile prefigurare sempre “la guarigione” e che è percorribile anche l’impegno per la sua trasformazione in una dimensione più umana, sopportabile, vivibile, con-vivibile. L’analfabeta del disagio è portato a commettere l’idiozia di prendere la scorciatoia della fuga dalle persone in situazioni di disagio confondendole e persino identificandole col disagio. Lo cataloga come una sfortuna casuale o un tocco di destino crudele. Non intende la prospettiva indicante che prendersi cura del disagio porta a fare un tuffo nell’umanità. Reagire al disagio è una questione antropologica, di significati umani e perciò culturale, di democrazia e perciò di welfare: curare il disagio è declinare i rapporti umani, le politiche sociali, i servizi pubblici e privati, le tecniche e le metodologie di intervento, dentro significati umani. Pertanto non ci dobbiamo meravigliare se esistono persone, professionisti che affrontano la scommessa di curare il disagio anche se esistono alte probabilità di fallimento; che stanno vicino a chi prende loro tempo, a chi non parla, a chi si perde; che operano con chi è sguarnito di abilità minime o deprivato delle sue possibili capacità e dei suoi diritti. È una dimensione umana “materna” delle professioni di cura del disagio, una dimensione che tocca dal di dentro uomini e donne che si tuffano nel disagio di altri uomini e altre donne per “abitarlo” con loro, per combatterlo e poterne uscire. Insieme. Co-gestendo il disagio si può e si deve essere utili senza essere idioti. Il politically correct viene messo in subordine ai bisogni-diritti umani, a qualcuno ora qui, il quale senza una vicinanza “calda” e un aiuto competente perderebbe speranze, pane, senso della vita, capacità. Insomma non è sempre idiota colui o colei che si prende cura del disagio, che abilita le relazioni umane, accresce le capacità, socializza i territori – specie in contesti di mafie -, combatte lo stigma della diversità-come-inferiorità innescando “logiche” paritarie tra “assistenti e assistiti” nelle dimensioni relazionali, politiche, pedagogiche degli interventi. Costoro affermano che con la loro professione e la loro organizzazione non possono saltare a pie’ pari la responsabilità di prendersi cura di qualcuno ora qui che non ce la fa a vivere dignitosamente da solo. Rifiutano l’atteggiamento di “suonare il piffero per la rivoluzione” – di vittoriniana memoria. Per un principio elementare di affermazione di essenzialità e di priorità c’è chi cura il disagio volendo essere utile alla dimensione antropologica “prima” che a quella politica, tanto meno partitica. Insomma, curare il disagio non è un mestiere esecutivo privo di responsabilità, non è un mestiere operativo senza intelligenza, non è un mestiere che si possa svolgere da soli; è un mestiere che richiede preparazione, capacità di relazione, etica e etica professionale, acume politico, empowerment e dignità dei destinatari della “cura”, abilità di coinvolgimento della comunità locale, passione per l’agio e per la felicità che si co-costruisce cogli altri nella vita delle e tra le persone. Curare il disagio non è solo un mestiere. Oppure è un bel mestiere… a certe condizioni!

Alcuni punti chiave per fronteggiare il disagio nella crisi strutturale attuale

L’innegabile crisi dello stato sociale, con la diffidenza serpeggiante nelle comunità locali verso stili di socialità friendly, confermano che nel Paese stiamo attraversando una crisi strutturale e non passeggera. Nelle crisi il peso del disagio cade doppiamente su chi già è debole e diminuisce le risorse a disposizione di chi lo cura, il quale è sfidato ad aggiornare e a ricalibrare il suo approccio. Chi cura il disagio può produrre ancora margini di movimento per non trasformarsi in utile idiota: i servizi, gli operatori pubblici e privati, il territorio, il terzo settore, i diretti cittadini utenti, le organizzazioni sociali, lo stesso volontariato di advocacy e così via, sono ancora leve su cui mettere mano per dire fare cambiare tante cose. Nella manciata di iniziative strategiche attivabili, ne ritengo prioritarie quattro.

Uno. La responsabilità di prendersi cura del disagio è pubblica, è politica. Fronteggiare il disagio non è cosa di buon cuore o un “fai da te” dell’assistente; nella nostra repubblica ha una rilevanza giuridica per cui occorre prevedere politiche sociali, promulgare leggi adeguate e non leggi manifesto, creare servizi e dedicare personale, risorse e strumenti, titolare professionisti. Il disagio, come parola per dire bisogno materiale, sofferenza fisica o esistenziale, non autonomia, limite, disuguaglianza e altri termini significanti la mancanza di pari opportunità tra cittadini, nella nostra costituzione richiama ad una solidarietà per certi versi libera ma per altri versi obbligata. Pertanto, curare il disagio non è compito anzitutto degli enti non profit o del privato for profit, nemmeno è delegabile agli operatori pubblici ma coinvolge interamente la collettività, chiama in campo votati e votanti, l’economia di un popolo, i suoi valori, le sue pratiche di vita comunitaria. La responsabilità di garantire servizi efficaci rimane di livello politico. Sarebbe apprezzabile che gli enti locali smettessero di abdicare progressivamente alla programmazione, gestione e verifica diretta dei servizi alla persona e alla collettività. Finalmente si va allargando un rinnovato movimento di alleanze tra più attori impegnati nella cura del disagio, che ritornano a pensare, a studiare, a fare ricerca, a sperimentare, a operare prefiggendosi lo scopo di responsabilizzare la politica e gli operatori pubblici e privati, di rinforzare le capacità di coloro che si rivolgono ai servizi attraverso programmi di empowerment e di rinforzo di reti sociali solidali.

Due. La lotta al disagio deve ridare priorità alle finalità che le sono proprie, quelle di promozione dell’agio, e non venire contraffatta in clientele partitiche o resa funzionale a bisogni occupazionali. I servizi sociali “appartengono” in primis a quei cittadini e a quelle persone che ne abbisognano, come a creditori di autonomia e di libertà. Il volontariato e i gruppi di promozione sociale hanno scritto una “bella” stagione storica riferendosi a questi valori, in un tempo in cui i problemi sociali venivano automaticamente tramutati in ricoveri e in separazione delle persone fragili e vulnerabili da quelle ritenute “normali”. Nei contenitori dell’abbandono non solo non si curavano le persone ricoverate ma nemmeno si prefigurava alcuna educazione utile al loro rientro nella società. Di certi ricoveri poi si conoscono le tristi vicende di degrado, di violenze e stupri, di aggiunta di disagio al disagio. Proprio in reazione a uno stato di cose disumanizzanti nella gestione separata del disagio sono iniziate alcune “avventure” sociali, esplicitamente indirizzate a mettere al centro dei servizi le finalità di umanizzazione e di liberazione. A metà degli anni sessanta, da gruppi di ispirazione ecclesiale, o poco dopo dall’alveo dei servizi pubblici, sono nate piccole ma incisive pratiche di cura del disagio che hanno “detto” la fattibilità della tutela della dignità umana degli “utenti” dei servizi, che hanno rimesso in gioco il ruolo di potere delle professioni di cura, che hanno connesso il tema della diversità con i temi della giustizia e della democrazia. Hanno rappresentato una rottura con il passato, facendo leva sulle finalità dei servizi di cura del disagio, e oggi si può – e si deve urgentemente – riandare in questa direzione.

Le finalità della lotta al disagio dovrebbero trovare posto anche nella formazione di chi opera e di chi progetta e verifica. La formazione ai metodi e alle tecniche, all’organizzazione e alla programmazione e altro, sono strumenti necessari senza i quali non si va da nessuna parte; ma la formazione alla mission del servizio, alla corrispondenza con un codice etico, all’attenzione alla dignità della persona – sia essa assistita o assistente – va prioritariamente sostenuta, altrimenti si snatura il servizio e la stessa professione di cura.

Tre. Il disagio va riletto anche con paradigmi di senso e relazionali. Nei principi e fondamenti delle professioni di cura si è affermato – finalmente! – il concetto di persona. Sia il paradigma laico che ritiene la persona un valore assoluto sia quello religioso che la ritiene sacra, entrambi richiamano i principi mutuati dal motto triadico dell’illuminismo francese: libertà, uguaglianza, fraternità. La stessa costituzione italiana mette libertà e uguaglianza a carico della solidarietà obbligata quando proclama di dover garantire la scuola per tutti, la salute pubblica, i diritti eccetera. Fino al momento in cui abbiamo vissuto un arco storico di crescita economica, i programmi di lotta al disagio si sono basati su questi paradigmi – salvo poi non metterli sempre in pratica. Ma ora non è più così. Ora la crescita economica si azzera e la decrescita viene percepita solo materialmente e consumisticamente. In questo frangente la novità è che si sta scoprendo, con buone ragioni, l’importanza di promuovere anche la terza componente del motto francese: la fraternità.

Vi è un’evidente fatica a condividere il termine “fraternità” poiché evoca concetti religiosi confliggenti con alcuni di quelli laici e con tutti quelli laicisti; però dal di dentro delle situazioni di disagio, lavorando con le persone concrete, si riscopre sempre più l’importanza della costruzione di rapporti umani caldi, familiari in più sensi, di fiducia, di coesione sociale, di accoglienza, di contrasto all’indifferenza e a qualsiasi discriminazione, ovvero l’esigenza di dimensioni umane che riportano alla fraternità, a generarla, nutrirla e difenderla. Insomma la fraternità, accanto alle conquiste politiche di libertà e di uguaglianza, introduce l’idea di persona-in-relazione, che si realizza massimamente nel rapportarsi con le altre, che cresce se aiutata e se aiuta, se scambia e dona. Introduce un’idea di società fraterna oltre che libera e uguale.

La fraternità è un bene relazionale fragile perché richiede capacità di reciprocità. Va oltre l’individualismo. È un capitale umano potente che si scontra con altri capitali, come quello finanziario, economico, fisico, e vari poteri che – specie con questa globalizzazione – lo combattono. La fraternità mette in crisi una certa politica perché la vuole più sociale, l’economia perché la vuole più civile, la cura asettica e specializzata del disagio perché afferma che chi cura il disagio deve non solo operare ma anche sostare nelle relazioni, in vere relazioni umane.

Quattro. Il terzo settore si prende cura del disagio e dei diritti-doveri di cittadinanza. È lui l’utile idiota di cui si parla pur trovandosi nella sua fase di espansione più alta per la sommatoria dei servizi che va gestendo. Nessuno gli offrirà alcun ruolo, tanto meno la politica attuale né quella che si sta riscaldando per scendere in campo domani. La politica dei politici di casta e dei partiti fantasma non pare propensa a concedere voce al sociale organizzato. Gli offrirà briciole per adescarlo in rapporti di subalternità e per mettere il marchio al capitale sociale accumulato con fatica nell’intessere relazioni, creare saperi, mediare conflitti, intraprendere nuovi servizi, comporre interessi diversi, ripensare economie, sperimentare nuove professioni, eccetera. Il terzo settore deve tutelarsi e rappresentare lui stesso tutto questo capitale immateriale e di qualità.

Nel fare propria questa soggettualità, la controparte è nel terzo settore stesso, il quale deve risolvere al suo interno il conflitto tra l’ala movimentista che sostiene la voglia di rilancio della sua soggettualità sociale e l’ala gestionale che sostiene invece la miriade di piccole e medie aziende di lavoro sociale che si guadagnano il pane sull’indotto esternalizzato dall’azienda stato-comuni-distretti.

Questo dibattito non si sta facendo a tavolino. Si svolge piuttosto nelle dinamiche delle iniziative in cantiere e nelle riflessioni sulle attività concrete di “cura del disagio”. Ciò che si dibatte è il suo essere utile idiota o no, ovvero se il terzo settore sia a sostegno di un modello di repubblica di cittadini detentori di diritti oppure di un modello in cui le persone sono clienti di servizi e beneficiari di prestazioni. Il filone movimentista risulta numericamente minoritario ma non è più debole, è costituito da puntiformi realtà di base, da associazioni, gruppi e cooperative, ha buone ragioni per credere che nel suo mondo e dentro altri mondi, quali le chiese, le università, le associazioni di protesta e di proposta per un altro mondo possibile, può trovare motivazioni e strumenti per riavviare una nuova stagione di espansione dei diritti di cittadinanza.
La precedente onda lunga delle organizzazioni sociali impegnate a curare il disagio che si formò a metà degli anni settanta del secolo scorso non scaturì dal nulla. I fermenti di quel periodo erano a loro volta debitori di pensieri, utopie, bisogni, sperimentazioni, pressioni e lotte. Occorre dar vita alla futura onda lunga. Il terzo settore “movimentista” radicato nei territori, anche senza l’alleanza del terzo settore “gestionale”, sa di non dover mancare l’appuntamento.

Il CNCA Calabria dichiara pericolosa la filosofia del disegno di legge Fini sulla droga

di Giacomo Panizza
Alcune comunità della Calabria non siamo andate alla conferenza governativa di Palermo sulla droga. Non abbiamo voluto. I gruppi del CNCA credono che si debba combattere la droga e non far la guerra ai giovani con problemi di droga, che occorra colpire pesante il commercio e lo spaccio illeciti, e non dedicarsi a punire indiscriminatamente i consumatori, specialmente i giovani e giovanissimi.

Dissentiamo sul “disegno di legge Fini”, quando accorpa in una sola tabella pseudo scientifica le più svariate sostanze stupefacenti, dando sanzioni indifferenziate senza fare distinzioni opportune, considerando i possessori di “fumo” alla stregua di spacciatori di eroina o di cocaina, prevedendo pene dai 6 ai 20 anni di reclusione come si fa per i criminali pericolosi.Dissentiamo su una filosofia che crede e pretende di educare attraverso punizioni e ricatti tra carcere o obbligo in comunità, andando contro ogni etica umana, e contro qualsiasi logica educativa di presa in carico, di riabilitazione, di terapeuticità.Dissentiamo con l’onorevole Fini e con quei servizi e comunità che, anche in Calabria, lo hanno ospitato e subìto senza contrastare la filosofia punitiva a cui si ispira la sua proposta di legge sulla droga. Al rappresentante di AN e del Governo, che intende varare subito lo stralcio al suo disegno di legge anche chiedendo la fiducia, i nostri gruppi opporranno resistenza (è il caso di dirlo!?) invitando politici, servizi, operatori e educatori, ad una seria riflessione sui temi dell’educazione e delle libertà connesse.

Per questo e altro ancora noi siamo andati alla controconferenza, a Roma, con GGIL, CISL, UIL, Forum Permanente del Terzo Settore, ACLI, AGESCI, Antigone, ARCI Ragazzi, LILA, MOVI, FEDERSERD, Exodus, Salesiani, Saman, e tante altre organizzazioni sociali ed educative laiche e religiose. Ci siamo andati per caldeggiare il ritiro della proposta legislativa di Fini, e per proporre che il Governo, piuttosto, scommetta fattivamente e non a parole sul sostegno a tanti servizi pubblici e privati, ai luoghi e agli strumenti dell’educazione, della prevenzione, cura e recupero delle persone che fanno uso e abuso di droghe, di tutte le droghe.

Lamezia Terme, 9 dicembre 2005

Politica e ‘ndrangheta, un rapporto obbligato

di Giacomo Panizza
Alla ’ndrangheta non basta fare business, e i politici lo sanno

Dal delitto Ligato all’omicidio Fortugno (il vicepresidente del consiglio regionale, ucciso all’uscita dal seggio il giorno in cui si tenevano le primarie del centro-sinistra) molto sangue è scorso in Calabria. Limitatamente al comprensorio della Locride, negli ultimi dodici mesi sono avvenuti ventitre omicidi mentre esecutori e mandanti rimangono in circolo sconosciuti. Tuttavia, la quota di criminalità organizzata denominata ’ndrangheta non pone solo questioni di sicurezza ma di politica e di interessi, dove ‘politica’ e ‘interessi’ vanno intesi nelle loro accezioni positive e propositive. Le intimidazioni e le aggressioni alla pubbliche amministrazioni sono frequenti, maggiori di quelle che vengono alla luce. Nell’anno in corso sono stati censiti, perché denunciati, sessantotto attentati verso gli amministratori pubblici calabresi, e di questi sedici sono stati rivolti a sindaci, diciassette agli assessori comunali, undici a consiglieri comunali, cinque ad amministratori provinciali, sette a quelli regionali, mentre gli altri hanno preso di mira beni pubblici.
Insieme al sangue versato e ad attentati subiti, si sono succedute diverse formule politiche al governo regionale, ciò nonostante poche situazioni sono sostanzialmente cambiate o rese capaci di mutare la sostanza delle cose. Come se la politica locale, al di là delle parole e delle richieste insistentemente formulate allo Stato centrale, non si decida a fronteggiare la criminalità qui, in Calabria, e in specie quella rappresentata dalla ’ndrangheta, il cui scopo palese è raggiungere il cuore delle istituzioni usandole senza scrupoli. Basti ricordare il fenomeno dei consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose. È indubbio che la ’ndrangheta non abbia solo fini di arricchimento economico, ma anche di presa e ridistribuzione del potere, utilizzando la forza e la violenza e l’uso delle armi arrogandosi il potere di decidere di uccidere.
Nei principi, politica e ’ndrangheta competono a governare il territorio, però nei fatti questa partita pare venga giocata solo da una parte in campo: la ’ndrangheta, la quale duella col potere politico non in quanto ‘normale’ organizzazione criminale ma in quanto ’ndrangheta. Ad esempio, le ‘normali’ organizzazioni che trafficano droga non necessariamente arrivano fino qui, a questo livello di controllo del territorio. Non hanno bisogno di delitti eccellenti, che diverrebbero boomerang di indesiderate e improduttive visibilità massmediatiche. A loro basta fare affari, così come alle organizzazioni trafficanti di esseri umani, di armi e così via. Ma la droga, gli esseri umani e le armi in mano alla ’ndrangheta non rappresentano solo un mercato nero o illegale, mirano piuttosto a controllare e dettar legge al territorio e alle istituzioni. E i politici locali lo sanno, come lo sanno tutti coloro che rifiutano di scendere in campo nell’agone politico indebolendo la lotta civile alla ’ndrangheta.
Insomma, gli ’ndranghetisti non sono ladri o prepotenti o assassini per soldi e basta. Ricchezza e potere per loro, come per le altre organizzazioni di stampo mafioso, sono congiunti. Non si accontentano di fare business. È noto — ad esempio – che in alcuni luoghi del Sud viene imposto un ‘pizzo sostenibile’, basso, non tanto per lucrare una ‘tassa’ a commercianti, professionisti e imprenditori, ma principalmente per stabilire un dominio sul territorio e sulla gente. La “presa del potere”, sugli altri e sul territorio, è dunque una pratica costante che va inclusa nella comprensione teorica della ’ndrangheta. Il rapporto esistente tra politica e criminalità in Calabria non si comprende concentrandosi sul tema della sicurezza pubblica, che da sola finisce spesso per penalizzare i più fragili e difendere gli interessi di alcuni, ma si capisce piuttosto mettendo al centro la politica a tutto tondo, cioè quella che promuove gli interessi di tutti.
L’incontro tra politica e ’ndrangheta è inevitabile, non esistono probabilità di vie parallele. Il rapporto è obbligato, lo scontro o l’accordo sono forzati, la lotta o il patteggiamento sono imposti, è solo questione di tempo; pertanto la politica deve preventivare il “come” del rapporto, lo deve calcolare e giocare adeguatamente, anche perché la ’ndrangheta lo ha già messo in agenda. E non tiriamoci in giro con slogan del tipo “Più uomini contro la mafia” oppure “Più mezzi e più soldi al Sud”, perché il problema vero è proprio “come” opereranno quegli uomini, “come” si impiegheranno quei mezzi, “come” si investiranno quei soldi. “Come” è l’aspetto squisitamente politico.

La politica può cambiare solo se cambia logiche e scelte
L’uccisione di Francesco Fortugno, domenica pomeriggio 16 ottobre 2005 nei pressi di un seggio delle “primarie dell’Unione” a Locri, parla alla politica. È diverso dagli altri ventidue accaduti in zona quest’ultimo anno perché il messaggio che trasmette palesemente non è diretto a precisi negozianti, nemmeno a identificabili imprenditori, commercianti o operatori economici. Segna la qualità delle azioni criminali verso i decisori politici in Calabria. Va inequivocabilmente oltre il tema criminalità: è politica. Indica, anche ai ciechi e ai sordi, che la criminalità propone e impone una sua direzione alle cose che la politica locale, regionale e romana dovrà intendere. Altrimenti… In premessa, come nella tragedia greca classica, anticipa una disgrazia finale che è destinata ad avverarsi, che è nell’ordine delle cose, e che va messa in conto fin da subito.
Francesco Fortugno è stato un personaggio umano e politico gradito da tante persone e da parecchi ambiti locali di vita e di cultura. Quest’estate mi è capitato di presenziare insieme a lui e altri, in pieno Aspromonte, all’inaugurazione di una struttura promossa dalla cooperativa Mistya, la Casa dei Folletti. Un rifugio montano per turismo sociale, due casette ristrutturate al Passo Croce Ferrata, nei pressi del Villaggio Paradiso, ieri luogo di vacanze estive per famiglie, ora totalmente distrutto, incendiato dalla criminalità. Ebbene, l’onorevole Fortugno raccontò come lui più volte, amante della caccia, transitando per il Passo amasse fermarsi a osservare queste case diroccate, a ricordare le vacanze trascorse da piccolo con altri bambini e famiglie, a evocare la scena del villaggio bruciato dalla mafia e la rabbia dei villeggianti e della gente. Manifestò contentezza per quella scelta di ristrutturazione delle due casette con cucina e posti letto, e dichiarò apertamente che contro la ’ndrangheta occorrono reazioni concrete di partecipazione e di ricostruzione delle cose distrutte. Per dire la nostra e guardare avanti con coraggio. Invitò tutti a ritrovarsi insieme quando l’Enel avrebbe portato la corrente elettrica alla zona, poiché lui stesso avrebbe fatto di tutto per far arrivare al più presto la luce in quel luogo. È stato ucciso prima.
Non aveva la nomea di politico abituato a fare scambi di voti, seppur nell’ultima tornata abbia triplicato i suoi togliendoli a qualcun altro; era bonario e popolare, anche per il suo ruolo di medico. Come tanti altri nella sua stessa posizione aveva conoscenze, incarichi e reti nel mondo della sanità calabrese (la quale impiega il 64% del bilancio regionale di cui il 44% va ai privati) e in Calabria, contro e dentro la sana sanità, oltre e più che la ’ndrangheta si muove alacremente la massoneria.
Questo omicidio è di stampo mafioso per tecniche, metodi e linguaggi. La spavalderia con cui è avvenuto sentenzia: “Qui comandiamo noi”. È un salto di qualità rispetto ai precedenti avvenuti nella Locride. Sembra un messaggio da mafia siciliana, concepito da una cupola, da una federazione o organizzazione super partes notoriamente improbabile per le ’ndrine, clan di cani sciolti e collaborativi nemmeno tra di loro. Il messaggio è sicuramente diretto al potere politico. Infatti, non dagli altri ventidue ma solo da questo omicidio scaturisce la domanda se la ’ndrangheta stia lottando per il dominio, non su un uomo politico o su un partito o un affare, ma sulla politica, e la risposta da dare sembra “Sì”.
Se ieri la ’ndrangheta raggiungeva il potere politico pressando su certi personaggi e ceti, oggi i suoi percorsi sono l’influenza sul voto, specialmente incalzando coloro che ‘possiedono’ e determinano pacchetti di voti. Su di essi aumenta il controllo. Pertanto, una politica avulsa dai partiti risulta più vulnerabile. La ’ndrangheta va a caccia dei pacchetti di voti e dei grandi elettori. Senza partiti organizzati, a struttura comunque democratica, non c’è difesa antimafia. Anzi, c’è una smisurata delega alla magistratura, riducendo il fenomeno ’ndrangheta a un problema di rapine e di omicidi e malaffari, mentre invece è potere reale sui territori e sulla politica. In un quadro siffatto anche i successi più clamorosi delle forze dell’ordine o i gesti di grande valore simbolico e culturale di legalità sono condannati a restare episodici, non riuscendo a porre basi di vivibilità e di giustizia future.
In questi giorni immediatamente seguenti al delitto Fortugno ci martellano notizie a catena di rastrellamenti, sequestri di droga, catture di latitanti e quant’altro serva a rassicurare la gente che il governo c’è. Da qui, dalla Calabria invece si tocca con mano che il governo non c’è per ciò che serve contro la ’ndrangheta, per cui anche quei successi eclatanti notiziati dai giornali e dalle televisioni lasciano il tempo che trovano. Ai locresi non sfugge che dopo tanti morti ammazzati se ne parli solo ora dopo quest’ultimo; come ai calabresi non sfugge che non si diano notizie adeguate degli uccisi nelle altre zone dello Jonio reggino, di Lamezia Terme, del Vibonese o della Piana di Gioia Tauro, della Sibaritide o dell’alto Tirreno cosentino. Come non si parla affatto delle saracinesche che la notte saltano in aria per intimorire le coscienze e indebolire la società. Il mondo politico calabrese sa benissimo tutte queste cose. La ’ndrangheta riproduce questo suo sistema di potere, mentre la politica arranca a difendersi apparati amministrativi e simulacri di partito.
La politica agita in Calabria non è quella dei partiti. Siamo tutti consapevoli che l’incontro della politica con la ’ndrangheta è destinato nei tempi medi e lunghi a indebolire il potere politico a vantaggio di quello criminale. Occorre spezzarlo. Sarebbe ora che certi politici si decidano a intessere accordi con la società solidale piuttosto che con personaggi e aggregazioni dubbie se non notoriamente criminali. Sarebbe ora, perché con quei personaggi non si può fare politica contro la ’ndrangheta. È tempo che i partiti e la società facciano politica insieme, altrimenti la società organizzata si distanzierà ulteriormente dalla politica per fare politica in altro modo. A scapito di tutto e tutti fuorché della ’ndrangheta.
Novembre 2005