La ‘ndrangheta é un’associazione segreta che vuol farsi conoscere da tutti

di Giacomo Panizza

Finalmente si parla di’ndrangheta,
ma facciamo attenzione al “come”

A Lamezia Terme, alla fine di febbraio 2007, dalla compagnia teatrale Residui è stato portato in scena Laura C.. «Laura C.» era una nave mercantile che durante la seconda guerra mondiale trasportava il tritolo, poi usato dalla ’ndrangheta per intimidazioni, attentati, stragi. Rappresenta lo stare alla finestra di non poca gente di Calabria che lascia campo libero alla ’ndrangheta; è uno spettacolo sull’immobilismo che si rifà, e nemmeno velatamente, ad Aspettando Godot: vi traspare l’attendere per il lungo tempo di una vita spoglia dei vissuti, in aspettativa senza attesa né sorpresa in cui non ha luogo cambiamento alcuno ma la mera ripetitibilità. Al capolavoro teatrale di Samuel Beckett, all’atteggiamento di anime in stallo senza inquietudine e di un’umanità rassegnata e sospesa, si è ispirato questo lavoro teatrale tragico come il fato, classicamente «greco».

Lo spettacolo, metafora del presente, invita alla riflessione e a quella ribellione che sembrano ancora disattivate seppur degli uccisi, del racket, delle intimidazioni, dei voti di scambio, di investimenti economici nei mercati illeciti e leciti gestiti dalla ’ndrangheta oggi finalmente se ne parli più che nel passato anche recente. Invita a parlare e non più tacere. Serve parlarne, ed in particolare parlarne curando il “come”, affinché la ’ndrangheta non venga più sottovalutata come un’organizzazione retrograda o viceversa mitizzata come impenetrabile e invincibile. Piuttosto, occorre realisticamente contestualizzarla nelle sue dimensioni effettive. Sono disponibili faldoni e documenti a iosa, risultati di ricerche e indagini delle forze dell’ordine, dei giudici e dell’intelligence, articoli di giornali, filmati e molte altre cose ancora che parlano di ’ndrangheta. Se ne dibatte nelle aule dei tribunali, e ne parlano diffusamente le cronache, i giornali e le riviste, le radio, le televisioni e ora anche i siti internet gestiti da istituzioni, da gruppi giovanili e da agenzie pubbliche e private.

A conferma c’è anche un recentissimo elaborato, governativo, predisposto per i futuri programmi della Commissione Antimafia. «E credo non sia più rinviabile un’apposita relazione sulla ’ndrangheta (…) Parliamo dell’organizzazione mafiosa meno studiata, meno conosciuta anche perché più impenetrabile, più ramificata territorialmente in Italia e all’estero. Tutti gli inquirenti e le recenti indagini giudiziarie ci dicono di un’organizzazione che ha conquistato un suo primato nel traffico degli stupefacenti su scala mondiale. E questa forza è accumulata anche in virtù della sua struttura familiare che l’ha protetta dal fenomeno dei collaboratori. Ma è un’organizzazione che ha tessuto una ragnatela di rapporti col mondo economico, col mondo politico, con un potere che in Calabria vive anche di relazioni occulte e massoniche in forme pervasive, fino ad arrivare, come dimostrano le ultime vicende di Vibo, ad intaccare settori degli apparati dello Stato e della stessa magistratura. Del resto, è in questo contesto che parte la sfida politico-mafiosa, con l’omicidio del vice presidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, producendo nella regione un salto di qualità fino ad ora mai conosciuto, a differenza della Campania e della Sicilia. Al livello della sfida che la ’ndrangheta ha lanciato con questo omicidio e che quotidianamente e in forma violenta riafferma con la propria presenza sul territorio, su tutto il territorio della regione, deve sapersi sviluppare la nostra capacità di inchiesta, denuncia, sostegno all’azione di contrasto e di riconquista democratica. C’è un assalto della ’ndrangheta alla politica e alle istituzioni, che prefigura il rischio di una vera e propria crisi democratica e di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella democrazia. A questo livello, anche attraverso la nostra presenza come Commissione sul territorio, a fianco dei sindaci, degli imprenditori, dei giovani, dei cittadini che si ribellano, dai commercianti di Lamezia che realizzano la prima serrata, ai ragazzi di Locri, vedo che dovremmo dare senso al nostro lavoro e, attraverso esso, dare sostegno all’azione degli apparati investigativi e della magistratura, affinché l’azione di legalità e trasparenza politica e morale non abbia, in questa regione, alcuna zona franca».

Eppure, nonostante queste e altre innumerevoli analisi cristalline, nella vita quotidiana civile e istituzionale sembra che non ci si accorga degli ammazzati, dei ricattati, di quelli che pagano protezioni e scambi, di quelli che vanno a braccetto con la ’ndrangheta passando mimetizzati sulla scena sociale e politica. Non si danno giusti pesi e parole a ciò che entra nella dimensione di mafia organizzata e di mafiosità intesa come mentalità diffusa, liquidando l’argomento con battute quali: «Ci vorranno secoli, ma la ’ndrangheta ci sarà ancora» o «Non è cosa nostra» o «Tanto si ammazzano tra di loro». Sopravvalutare la ’ndrangheta come invincibile o ritenerla ininfluente o estranea alla vita quotidiana personale è un’ingenua e pericolosa sottovalutazione dei suoi programmi inequivocabili e senza scrupoli di invasione di campo nei territori “pubblici”.
Una realtà criminale puntiforme
e minuziosamente organizzata,
che media e accumula

A Nicastro, uno dei tre comuni che nella storia recente si sono uniti per formare l’attuale città di Lamezia Terme, nel 1888 si viene a conoscenza del primo codice di ’ndrangheta. In seguito, nuove scoperte delle forze dell’ordine contribuiscono a stabilire che la ’ndrangheta aveva lasciato tracce antecedenti nella provincia di Reggio Calabria. Il fenomeno «è documentabile fin dai tempi dell’Unità» d’Italia, e non va posto in continuità e nemmeno confuso con l’antecedente storia calabrese del brigantaggio.

Anche altre notizie, ricavabili da sentenze, da ordinanze di cattura o di custodia cautelare, e da una certa letteratura, rendono conto della ’ndrangheta come di una organizzazione non localistica né difensiva, ma di una pericolosa realtà con obiettivi di espansione e conquista, con vitali capacità, con capi di “norma” maschi di tutte le età, con innumerevoli ammazzati – pure tra di loro -, e con un’enorme, sorprendente e continua disponibilità di giovani appartenenti ai clan o ingaggiati “extra”.

Parecchi autori hanno messo mano a una plausibile ricostruzione storica della ’ndrangheta cercando di descriverne l’evoluzione. Il risultato è un disegno di soggetti e di operazioni puntiformi, non sempre collegabili tra loro con prove provate, ma che innegabilmente consentono di poter tracciare, nell’arco di un secolo e mezzo, la diffusione della ’ndrangheta con percorsi iniziati dalla Calabria verso i vari continenti e in seguito dalla Calabria al resto d’Italia. E ritorno. Ne risulta la narrazione di una realtà complessa, creativa, vulcanica, a tratti terrificante e a tratti attraente. Ti viene in mente Roberto Saviano di Gomorra, quando confessa in contemporanea la repulsione e il fascino seduttivo che il sistema camorristico esercita sui giovani… e che ha esercitato anche su di lui.

I “locali” della ’ndrangheta comunicano in codice, con frasari e modi prestabiliti, usano rituali e simbologie mutuate dalle pratiche religiose, in specie quelle cristiane. «Il “locale” può essere definito come l’organismo a livello territoriale su cui si articola la ’ndrangheta. Esso solitamente ha competenza su uno o più paesi della stessa area. (…) è la struttura di base della ’ndrangheta che sorge in un determinato paese, allorché si supera il numero minimo di 49 affiliati…». La sommatoria dei numeri accertati porta a prefigurare una struttura, anche militare, che computa migliaia di persone. Infatti «in provincia di Reggio Calabria ci sarebbero almeno 73 “locali”, 23 nel mandamento del centro, 26 in quello jonico e 24 in quello tirrenico. Nelle altre quattro province i “locali” sarebbero almeno 63, di cui 15 nel catanzarese, 14 nel cosentino, 16 nel crotonese e 14 nel vibonese». Ciascun “locale” utilizza un codice proprio, seppur molto somigliante con gli altri. Anche grazie al ritrovamento di codici o alla dettatura a memoria da parte di alcuni ’ndranghetisti catturati e collaboranti si è potuto disegnare una ricostruzione storica verosimile della ’ndrangheta. I vecchi codici disponibili, scritti spesso con grafia incerta e italiano impreciso, sono chiarissimi invece sulla parola d’ordine segreta degli affiliati; sulle regole di appartenenza, fino a stabilire la punizione certa dei traditori; sugli scopi del “locale”. Accanto agli aspetti magmatici e cangianti, la ’ndrangheta si contraddistingue attraverso due pilastri costantemente presenti fin dall’inizio della storia dell’organizzazione criminale: la mediazione sociale e l’accumulazione di ricchezze e di dominio.

Primo pilastro: la ’ndrangheta fa mediazione, media di tutto e di più. Gestisce la mediazione come controllo su soggetti che hanno ruolo sociale, potere politico, capacità economiche, e anche su soggetti deboli e bisognosi. È controllo su ricchezza e potenza. Mette insieme, anche coercitivamente; facilita gli interessi di ognuno, anche degli opposti. Li favorisce o li sospinge a “incontrarsi”, a far affari insieme, a “risolvere” problemi, agendo in proprio sostituendosi anche alle istituzioni, alle leggi, persino al welfare. Assume ruoli di terzietà, ma non al di sopra e al di fuori delle parti in causa, divenendo piuttosto la causa obbligante delle operazioni di messa in comune, di mediazione appunto. Si dimostra mediatrice con tutte le parti politiche, seppur da tempo oltre a corrompere vi si infiltri direttamente. Rispetto ai partiti e alle polarità politiche «non ha preferenze, è bipartisan, ma non sta mai all’opposizione».

La ’ndrangheta controlla il territorio sul quale si arroga la mediazione tra i diversi poteri esistenti. Essa ne incarna uno, gli altri li avvicina assumendo un ruolo autoritario e allo stesso tempo autorevole. Ruolo attraente verso affaristi e verso politicanti in carriera, ma anche verso giovani influenzabili e/o senza possibilità occupazionali. Controlla il territorio costringendo molti soggetti a sottostare. La menzione delle logge massoniche nella citata Relazione Antimafia aiuta a non dimenticare che la ’ndrangheta talvolta viene cercata da altri, coi quali si allea anche “alla pari”: altre organizzazioni mafiose, persone di logge massoniche deviate, politici e colletti bianchi, imprenditori e così via.

Il secondo pilastro della ’ndrangheta è l’accumulo di ricchezze e di potere. Certe volte denaro e beni, certe altre ruoli e spazi di potere; spesso li persegue cumulativamente. Il boss di ’ndrangheta ricerca il potere, fa parte della sua mission. Lo conquista, se lo merita sul campo con la violenza, ma molto potere gli viene da chi glielo cede e regala: dalla gente che non vede non sente non parla, da istituzioni pavide o colluse, da chi paga il pizzo, da chi gli chiede un aiuto, da chi si pensa su un pianeta parallelo, da una comunità che non si ribella.

L’accumulo di denaro è inscindibile dall’accumulo di potere. Il mafioso non si limita a fare business, sarebbe uguale a un qualsiasi imprenditore. Nemmeno si accontenta di rubare, sarebbe uguale a qualsiasi ladro. Tramite l’arte della violenza di cui è capace, si sente forte al punto di riuscire ad avere ricchezza e potere e consenso senza nemmeno la necessità di “avvertire” la vittima designata. Il giro di denaro, lecito o illecito (ormai è diventato secondario), mira anche all’accumulo di spazi da occupare, da cui poter dominare. La ’ndrangheta accumula denaro congiuntamente a potere e li raccoglie con o senza uomini e donne della politica, con o senza partiti ma occupando spazi decisionali sia strategici sia interstiziali. Le basta intrecciare affari con quei politici che pensano ai propri affari, di partito o partitino, rassicurata dalla logica di cui quei politici sono portatori: una logica non orientata al bene comune, una logica per la quale chi fa politica gestisce il potere per sé e non per rispondere ai doveri di accompagnamento e di servizio della crescita collettiva.

Il giro sporco d’affari della ’ndrangheta calabrese sul quale il Ministero dell’Interno ha realizzato le seguenti statistiche e considerazioni, non può attuarsi se non in collaborazione stretta con incaricati corrotti della politica e della pubblica amministrazione. è uno dei principali nodi strategici europei per l’importazione e l’esportazione di stupefacenti, provenienti dal Sud America e dal Medio Oriente, che le cosche smerciano sia in loco sia sull’intero territorio nazionale. I rilevanti guadagni del narcotraffico (circa 22 miliardi di euro per la ’ndrangheta) sono utilizzati per effettuare operazioni di riciclaggio nei mercati mobiliari ed immobiliari. Le estorsioni, l’usura, l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, lo smaltimento di rifiuti solidi urbani e speciali e l’immigrazione clandestina sono gli altri settori di sicuro interesse criminali, con forti ripercussioni sull’economia locale. Molte sono le aree “sensibili” di questa Regione. A titolo esclusivamente esemplificativo, indichiamo il crotonese (tra Isola Capo Rizzuto e Cutro, il cui territorio ospita già numerosi e rinomati villaggi vacanze ed altre strutture di particolare valore economico) il catanzarese (tra i comuni di Paola e Amantea ma anche Lametia Terme, in relazione all’importante ruolo che la cittadina ha assunto per lo sviluppo della regione) e le tradizionali aree del reggino. Forte è l’interesse della criminalità per lo scalo marittimo di Gioia Tauro e l’attigua area di sviluppo industriale». L’indice di permeabilità mafiosa (IPM) in Calabria è stabilito dall’Eurispes nei valori di 52,7 punti per la provincia di Reggio Calabria; di 32,2 punti per la provincia di Crotone; di 30,9 per Catanzaro; 28,1 per Vibo Valentia; 24,5 per Cosenza. Il giro d’affari è calcolato sul 3,4% del pil nazionale. Come si fa a pensare che la ’ndrangheta non sia collegata con l’economia, la politica e altri poteri? Come si fa a dubitare che in Calabria si stia vivendo in regime di libertà controllata o che ci siano enti pubblici a sovranità limitata?

Vischio ’ndrangheta:
come reimmaginare
la cittadinanza dei diritti?

La ’ndrangheta è un pericolo pubblico che tiene in libertà vigilata i cittadini calabresi. C’è una palese vischiosità nei rapporto tra i gruppi di ’ndrangheta e i soggetti sociali, economici e politici del territorio. Le denuncie ufficiali per intimidazioni e danneggiamenti, comprese le minacce telefoniche, nell’anno 2006 assommano a 12.000, evidenziando un metodo spietato usuale della ’ndrangheta per raggiungere il suo scopo di controllo del territorio. Il controllo di economie e commerci, di relazioni e opinioni, di voti e burocrazie, non viene agito totalmente da qualcuno “su” qualcun altro, piuttosto assomiglia al controllo sociale soft, nel quale il controllato non solo obbedisce ma anche collabora “convinto” che gli convenga farsi proteggere o entrare a far parte di un’economia o relazioni o poteri socializzati dalla ’ndrangheta. Essa si struttura proprio manipolando i sistemi di relazione e di appartenenza, di affetto e familiari “di sangue”, e li tesaurizza per formare il suo capitale sociale.

La ’ndrangheta è conosciuta più per le intercettazioni ambientali realizzate dall’intelligence di polizia che per le denunce di coloro che hanno subìto danni o assistito a episodi malavitosi. Le denunce alle forze dell’ordine riguardano i danneggiamenti e lasciano “ignoti” gli estortori e gli aguzzini. Pur conoscendoli. Infatti la gente in genere conosce, anche con prove non provate, i “locali”. Una città come Lamezia Terme, ad esempio, ha più di un “locale” organizzato con capi, gruppi di fuoco, responsabili di varie azioni e settori interni e esterni, gerarchie, quali le famiglie Iannazzo, Giampà, Torcasio, a loro volta collegate con le famiglie locali dei Cerra, Da Ponte, Cannizaro, De Fazio, Bagalà, Argento, Mauro, Corrado, Dattilo, Gattini, Mercuri, Arcieri, Strangis eccetera, a loro volta collegate con altre in particolare della provincia di Reggio Calabria, come i Giorgi-Pizzata di San Luca. Allo stesso modo si possono menzionare i clan calabresi sparsi in regione e non solo: i nomi sono conosciuti dalla gente in genere, dalle vittime della ’ndrangheta, e dai Palazzi di Giustizia.

Generalmente territori ampi ospitano più clan, più ’ndrine. Soltanto in pochissime zone, come nel vibonese, si attua una monocrazia come ad esempio la cosca Lo Bianco a Vibo Valentia o la famiglia Mancuso a Limbadi. Alla gente pare di navigare a vista nella nebbia, di sostare nel chiacchiericcio disordinato di una realtà confusa, e al contempo le sembra di percepire il sentore che qualcun altro invece ci veda e ci capisca benissimo. La gente “sa” che la ’ndrangheta c’entra, l’immaginario collettivo calabrese lo registra ma si percepisce immerso in un cupo tunnel: perché poi occorre dimostrare con formali verità processuali, con carte incontestabili, con testimoni che testimonino la verità dei fatti… Altrimenti hai torto tu… E sai cosa ti aspetta… L’esistenza della ’ndrangheta, non della ’ndrangheta in genere, ma di quella del tuo territorio, è un segreto che si deve sapere. Essa stessa lo vuole. La presenza inefficace e inconsistente dello Stato non favorisce nei cittadini quel senso dello Stato che li potrebbe far ribellare in piena ragione e anche in piena giustizia contro organizzazioni forti. La gente sa che la ’ndrangheta trae la propria forza non solo da sé ma anche dalle relazioni che imbastisce, relazioni in cui c’è anche non poca parte di società. La ’ndrangheta non è un corpo estraneo alla cosiddetta “Calabria degli onesti”. Da sola – senza la sponda di poteri, di colletti bianchi, di pedine collocate in certi snodi del sistema pubblico, di “brodo primordiale” alimento corrotto e dipendente – non esisterebbe. Non è un gruppo di cattivacci che tiene in scacco un popolo di buoni. L’attrazione vicendevole, seppur non “alla pari”, sortisce questo modello storico di ’ndrangheta. Pertanto, è importante colpire il gruppo mafioso e i suoi sporchi affari, ma sta diventando essenziale colpire le sue relazioni, ledendo congiuntamente gli interessi di imprenditori, commercianti, gruppi sociali, politici, classi e ceti investiti di rilevanza pubblica invischiati in qualsiasi rapporto con la ’ndrangheta. In questo quadro culturale, per poter segnare una svolta, occorre scommettere senza se e senza ma sui diritti umani fondamentali, facendo leva su alcuni punti nodali ineludibili. Il compito strategico fondamentale ritengo sia proprio quello di dare cittadinanza ai diritti civili (di lavoro, di impresa, di pensiero, di proprietà, …), ai diritti politici (di democrazia legale e reale, di votare e candidarsi, di rappresentare interessi pubblici, …), e ai diritti sociali (di avere servizi per la sanità, la scuola, il trasporto su strade, autostrade e ferrovie, l’assistenza – quante leggi nazionali la Regione Calabria non ha ancora recepito, facendo un regalo alla ’ndrangheta, nemmeno quelle per cui non occorre spendere alcun Euro ma, appunto!, introdurrebbero regole). Insomma, con la ’ndrangheta non bisogna solo non collaborare, bisogna anche pretendere i diritti.

Primo punto ineludibile è riconoscere che siamo in emergenza democratica. Le capacità di produzione e riproduzione delle forme democratiche di governo locale sono sottoposte ad alti rischi. I comuni sciolti per infiltrazioni mafiose rappresentano la punta dell’iceberg, non la totalità del problema. In regione le denunce di intimidazioni e attentati nel 2006 contro politici e amministratori pubblici e sindacalisti sono state 187. Le reazioni dello Stato appaiono eccezionali piuttosto che ordinarie e costanti. “Il pesce puzza dalla testa” – si dice – e i dati lo confermano: ventidue onorevoli consiglieri regionali sono indagati. Il toto-indagati parte dal numero certo di 22, ai quali si dice che occorra aggiungerne un x di già rinviati a giudizio e un y di già raggiunti da sentenza di condanna per alcuni provvisoria e per altri definitiva: x e y rappresentano il mistero da svelare. Dei 22 invece si sa che 5 sono indagati palesemente per reati di tipo mafioso, 5 per i finanziamenti riguardanti la legge 488 sulle agevolazioni a fondo perduto, 7 per voti di scambio, il resto per altro. Fuori dalle meticolose regole dei tribunali poste a garanzia nei processi, la gente fa difficoltà a credere che il movimento di soldi e di voti possa avvenire indipendentemente dai “locali” della ’ndrangheta.

Il secondo punto, chiama in campo il pacchetto delle leggi inerenti la ’ndrangheta. In esso spicca la patata bollente della certezza della pena per i reati di mafia a tutela delle vittime, del loro effettivo rischio di (ri)subire violenza. Per questo una giustizia giusta esige di ripensare anche le attuali modalità di applicazione del famoso articolo 41 bis. Oggi è diventato annacquato, si è snaturato insieme ad altri articoli del codice penale. Addirittura, di fatto, favorisce i boss, i forti tra i carcerati. Per i reati di mafia occorre diminuire il potere discrezionale del giudice altrimenti, costretto per legge a dover decidere su un divario troppo grande ed elastico tra anni di pena minima e pena massima, il giudice starà a metà, o sul minimo… o dove? Spetta ai legislatori, cioè ai politici, stabilire con maggior precisione le pene da infliggere: su questo punto i governi di destra o di sinistra non si sono affatto differenziati. Stessa perplessità sorge anche pensando a quanto avvenuto recentemente per l’indulto, sul punto riguardante proprio i politici colpevoli di episodi di voto di scambio. I reati di voto di scambio, essendo stati compresi nell’indulto, sono stati dichiarati invalidi. Quei politici sono stati ripuliti e rivestiti della veste candida, per cui possono ri-candidarsi, possono continuare a partecipare a parate antimafia, possono lottare contro la criminalità con le parole senza preoccuparsi di mettere in campo anche “uomini e mezzi”, personale dedicato e finanziamenti adeguati allo scopo da raggiungere. Perfino l’attuale legge elettorale fa un gran favore alla ’ndrangheta, non consentendo alla volontà popolare di poter indicare quali persone lanciare in politica.

Il terzo punto fondamentale riguarda la società civile, la sua mimesi con la ’ndrangheta e i suoi vincoli di appartenenza, le relazioni asimmetriche e i metodi violenti, mimesi mista alla voglia che la stessa società ha di uscire da un sistema di omertà, di soffocamento delle libertà, di scacco alla dignità umana e ai bi-sogni di futuro. Se ne vuole liberare anzitutto il mondo economico, specie quello del lavoro e dell’imprenditoria. Ormai gli imprenditori vengono con derisione chiamati “prenditori” a causa dei tanti episodi di collusione tra essi con i politici, i colletti bianchi e le ’ndrine, finalizzati a intascare denaro pubblico senza resa alcuna.

La società civile deve ancora togliersi l’archetipo del mafioso forte, invincibile, coraggioso e protettore. Proprio le uccisioni a tradimento, le intimidazioni nei confronti di chi lavora, gli agguati di sorpresa, i sequestri di persone inermi, l’indebolimento di economie già deboli come quella calabrese, e così via, ne denotano la vigliaccheria, l’incapacità di rispetto, la disumanità. Forse può diventarle utile la cultura, quella cosiddetta colta come quella popolare, mediata dallo spettacolo Laura C., o dalla canzone di Sanremo, o da film sull’uccisione di magistrati o di preti o di persone che hanno vissuto resistendo e che ora esistono in ciò che altri hanno colto, trasformandolo in diritti e doveri di cittadinanza, in vita. Si può progettare di estirpare la ’ndrangheta? O ci dovremo accontentare di curare pian piano le ferite di questa nostra società? Estirpare o curare? Occorrerà dare valore a entrambe le ipotesi, rinforzando tutte e due le direzioni di impegno. Di sicuro, se si pensa almeno di disarmare la ’ndrangheta, si deve risanare la società, le regole della politica e dell’economia locale, ancora invischiate con essa.

Il territorio lametino e le multietnie, la diversità e l’accoglienza

di Giacomo Panizza
Lamezia Terme è una città di passaggio per tante persone: per quelle che scendono dai monti circostanti la piana in attesa di spostamenti altrove, per quelle che dal nord Italia vengono coinvolte in brevi esperienze di lavoro, per quelle straniere che approdano in Italia in cerca dell’Europa. I colori dei volti, il taglio degli occhi, i vestiti e i gesti, il profilo e gli accenti del parlare, le labbra e il gesticolare testimoniano innumerevoli diversità di popoli e etnie oggi presenti tra di noi. Ma a Lamezia Terme queste persone si possono esprimere? Incontrano veramente gli altri? Rinvengono anche l’Altro che è Dio?
Pensando agli stranieri dimoranti in città consideriamo i numeri ma soprattutto i volti. I dati comunali che li riguardano al 31 dicembre 2006 segnano 1.632 persone di cui 776 maschi e 856 femmine; quelli provenienti dai Paesi dell’Unione Europea, prevalentemente dell’Est, sono 189 di cui 26 maschi e 163 femmine; quelli extracomunitari sono 1.443 di cui 750 maschi e 693 femmine. Se vi aggiungiamo 631 persone di etnia Rom, più altre di provenienza extracomunitaria non regolarizzate, più altre ancora appartenenti alla comunità marocchina dimorante in Gizzeria e altre nel circondario lametino, il numero assume un’importanza considerevole.
Dati ulteriori li estraiamo dalle attività quasi trentennali della Caritas diocesana. Ad oggi, sull’utenza biennale di circa seicento persone presso l’Agenzia di Mediazione Culturale, le provenienze più consistenti risultano: rumeni, polacchi, ucraini, bulgari, turchi, tra gli europei e i mediorientali; marocchini e senegalesi tra gli africani; cinesi, pakistani, indiani, tra gli asiatici; venezuelani e peruviani tra gli americani.
Come possiamo ignorare tutte queste numerose diversità di popoli e etnie che percorrono le strade del comprensorio lametino? Come non considerarle? Come perdurare analfabeti rispetto al via vai di gente e al meticciato in atto? Penso che non dovremmo usare più lo stesso linguaggio di ieri per definire gli stranieri presenti tra noi oggi. Ad esempio: capita ancora di sentir parlare con enfasi di “identità diverse”; ma lo straniero, come tutti, prima di avere un’identità è una entità, una persona ovvero un “mistero” irracchiudibile in categorie né culturali né religiose né etniche. In quanto persona è molto di più, è più grande del semplice appartenere all’Europa o all’Africa, a un’etnia o a una religione. Altro esempio di linguaggio improprio o inconsapevole: ci capita spesso di sentire individuare il luogo dove i Rom sono “inclusi” da vent’anni come “campo nomadi”; ebbene, quei nomadi là dentro il ghetto di Contrada Scordovillo non sono nomadi, al contrario sono immobili, fermi, recintati, inibiti nelle esperienze e nelle visioni del mondo… altro che liberi “figli del vento”!
Insomma, dovremmo sforzarci di superare certe vecchie categorie interpretative, poiché esse non ci aiutano a comprendere in maniera aggiornata il fenomeno degli stranieri immigrati in questo nostro territorio il quale è a sua volta ancora luogo di emigrazione; piuttosto lasciamoci aiutare dalla Parola di Dio e dalle scienze umane a comprendere meglio noi stessi e gli altri stabiliti tra noi. Torniamo ad apprendere dall’ascolto dell’altro, a non negare il diverso da noi, a non separare il mondo di noi dal mondo di loro. Ognuno prende e dona, integra “parti” di sé e degli altri. La verità è che nessuno è solo africano o zingaro o europeo o lametino…, anche se ci sono resistenze a riconoscerla. Il termine più esatto per dire interculturale è dire interpersonale. Certo, non basterà “stare” affiancati in un luogo, occorre divenire più consapevoli che stare insieme è sia gratificante che impegnativo: l’altro impegna non solo gli spazi ma le libertà, i sentimenti, le “tue” verità. Se ci fosse bisogno: reimpareremo l’arte di incontrarci.
Una diocesi si dimostra “intelligentemente cristiana” in base a quanto scommette sull’accoglienza tra le persone che vi dimorano, facendo esprimere al meglio le proprie e le loro ingegnosità e differenze, le proprie e le loro potenzialità e singolarità. Una città cristianamente ispirata sa, fin dal catechismo, che le diversità le ha create Dio, ha pensato Adamo diverso da Eva, ogni suo figlio e figlia esclusivi, originali, speciali, unici, affidando poi ognuno all’accoglienza dell’altro. Solo Caino fuggiasco dopo il fratricidio ha potuto pensare di giustificarsi dicendo: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Nei flussi di tanta gente verso Lamezia Terme il cristiano sa che la città è anche una grande famiglia che si prende cura dei suoi componenti. Sa di poter e dover dire all’altro, al normalmente diverso, allo sconosciuto che lui non è un individuo solitario, che non sarà lasciato solo dagli altri, che Dio e una comunità e la Chiesa gli sono vicini, insomma che è capitato in una città accogliente, in una città di cui non ricorderà solo l’architettura o il clima o i cibi ma soprattutto chi l’ha accolto.

Desideriamo una vita sociale più accogliente

di Giacomo Panizza
 La crescita dell’economia calabrese non si è risolta attraverso l’impiego della grande quantità di soldi elargiti alla nostra regione. Le lire, dapprima, e gli euro, dopo, sono fluiti ripetutamente in Calabria, ma l’hanno devastata economicamente perché noi, in generale, abbiamo trascurato di rinforzarla democraticamente e civilmente.
Stessa sorte è toccata alla qualità della vita sociale di tanti nostri territori. Abbiamo visto impoverirsi dapprima le fasce già deboli – come le persone con disabilità e gli anziani non autosufficienti -, e di seguito anche strati di regolari lavoratori. La collettività è diventata più vulnerabile: tutti quanti siamo meno garantiti che altrove nel poter fruire dei diritti umani. Sono carenti i servizi sociali; ad esempio: gran parte dei comuni risulta priva dell’assistente sociale e tra i servizi vengono remunerati quelli di ricovero piuttosto di quelli che socializzano. La sanità produce poca salute; ad esempio: il Piano di rientro predisposto dalla Regione pare orientato a far pagare ai cittadini malati anziché a coloro che hanno dissennatamente dilapidato i fondi per la prevenzione la cura e la riabilitazione. La popolazione stessa, in genere, non reclama di partecipare alla costruzione di una società regolata e accogliente, preferendo “soluzioni” ad personam piuttosto che stabilità di welfare efficaci per tutti.
La ’ndrangheta secolare e la recente crisi mondiale indeboliscono le nostre forze sociali ed economiche, compromettono le libertà civili, svigoriscono le speranze dei giovani, non pochi dei quali decidono di intraprendere nulla in terra di Calabria.

Assieme a questa situazione regionale, il 9 ottobre prossimo il Papa troverà ad attenderlo numerosissime persone desiderose di una Calabria migliore di oggi, con più sociale dentro l’economia, ma anche dentro la politica, nelle relazioni umane, nell’accoglienza di chi fa fatica a sopravvivere da solo, dei piccoli e degli stranieri.
Dalla visita di Benedetto XVI, questa Calabria in credente attesa non si aspetta, dunque, soldi per investimenti economici ma un messaggio di speranza cristiana, proprio come egli stesso ha scritto nell’enciclica Caritas in veritate (n. 25): «Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai governanti impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti economici e sociali del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona nella sua integrità: “L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”».

TV2000. Nel cuore dei giorni. Intervista del giornalista Maurizio Di Schino a Don Giacomo Panizza

Giornalista Maurizio: Oggi a “Nel cuore dei giorni” sfoglieremo un libro molto, ma molto bello, quello che ci fa scoprire una Calabria non conosciuta. Ed è una Calabria nella quale vive da 35 anni una persona che ha fatto un’immigrazione al contrario: da Brescia al Sud, passando per altre città del centro Italia. Questa persona è un sacerdote che ha voluto depositare nel suo ultimo libro il racconto della sua Calabria.
Benvenuto Don Giacomo Panizza.
Don Giacomo: Grazie.

Giornalista Maurizio: il libro di cui vi parlo è scritto con Goffredo Fofi, hai risposto alle domande di Goffredo Fofi, questo è il titolo “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso”, prefazione di Roberto Saviano, per la Serie Bianca-Feltrinelli. Poi c’è un sotto titolo: “la storia del prete che ha sfidato la ndrangheta” e tutto questo l’ha fatto un prete venuto dal Nord. Allora Don Giacomo, “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso”, perché questo titolo?
Don Giacomo: perché di solito si tratta della Calabria sui mass media , ma anche nell’immaginario collettivo, come di un inferno, e l’inferno in Calabria c’è. Ma credo che ci sia un po’ dappertutto nel mondo …

Giornalista Maurizio: ma non c’è solo l’inferno
Don Giacomo: certo però in Calabria c’è un inferno particolare che lì dal libro, ma anche dalle cose che si sanno, è la ’ndrangheta dentro il territorio e in ciò che la ndrangheta riesce a catturare “dentro” le persone. Perché la ndrangheta è fatta di famiglie che vivono d’inferno; non sono all’inferno, il tempo della conversione ce l’hanno, però vivono già l’inferno perché vivere in famiglie di ’ndrangheta vuol dire vivere di violenza, vuol dire educare i piccoli alla violenza, vuol dire educare, mantenere, costringere tutto il circuito della famiglia all’interno di un sistema di violenza. Cioè, chi per caso nasce in quella famiglia, nasce già in un inferno, per dire dantescamente: una zona brutta, tremenda, disumanizzante, dove ti è difficile uscire, diciamo impossibile, quasi impossibile. Dopo, però, il titolo ha anche la parola purgatorio, perché la Calabria è molto purgatorio, più che inferno, cioè …

Giornalista Maurizio: tanto per seguire il linguaggio dantesco.
Don Giacomo: sì, proprio in senso dantesco. Cioè il purgatorio è una zona dalla quale si può uscire; dal purgatorio se ti ci metti, se qualcuno ti aiuta, puoi uscirne, ecco. La Calabria è fatta anche di tante zone pesanti, difficili, ma ci puoi trovare persone che non vogliono precipitare, vogliono invece avanzare, vogliono uscirne, anche se con tanta difficoltà. Invece, poi, c’è anche la parola paradiso. Per paradiso io non intendo le cose belle che ci sono, perché ce ne sono di cose belle, il mare è davvero bello le isole davanti sono davvero belle e ci sono canali, cascatelle, cioè anche le nostre montagne sono belle, anche quando si chiamano Aspromonte sono belle …

Giornalista Maurizio: Mi piace che tu dica le nostre montagne, le nostre, parli della Calabria di una cosa anche tua.
Don Giacomo: mi sarò “contaminato”, non lo so… Allora, il punto qual è, anche perché ci giro parecchio con i parrocchiani, anche coi giovani, cioè mi piace stare con la gente nella natura e così via. Però, per paradiso non intendo la natura, io per paradiso intendo quella gente di Calabria che anche nella difficoltà fa tutto per i figli, fa tutto per gli amici, fa tutto per la giustizia, si butta via per la legalità, si dà da fare per cambiare la politica: ecco, per paradiso intendo le persone che qui sulla terra vogliono bene agli altri e alla Calabria.

Giornalista Maurizio: e tra queste persone ci sono anche quelle che tu definisci le minoranze etiche attive, come quelle con cui stai condividendo questi ultimi 35 anni, dal ’76 quando sei arrivato a Lamezia Terme, e a questo punto c’è da dire, Don Giacomo Panizza, è co-direttore della Caritas di Lamezia Terme e poi parroco di quante parrocchie?
Don Giacomo: no, è una Parrocchia, ma di otto frazioni sparse sulla Sila piccola.

Giornalista Maurizio: quindi è un percorso che tu hai costruito con, ecco, ripetiamo le minoranze etiche attive, una bella espressione.
Don Giacomo: si, perché l’ho discussa tanto con l’intervistatore, con Goffredo Fofi, il quale sostanzialmente mi domanda: “ come, tu fai parte di una minoranza etica e stai in una Chiesa che ha una maggioranza esagerata?!”. E io lì spiegai il mio punto di vista: che in Calabria, dalla Chiesa di Brescia, alla Chiesa di Fermo, alla Chiesa di Calabria che mi ha accolto per fare delle attività in piccolo, in piccolo con persone in carrozzina dapprima, aggiungendo poi con le persone sieropositive, malate di Aids, poi con le ragazze nubili madri, poi con i minori del carcere, poi con i rom… cioè nel senso che ho operato e opero in Calabria con raggruppamenti di queste persone, che fanno minoranza etica, cioè insieme comprendiamo alcuni valori, alcuni principi, alcuni doveri e cerchiamo di realizzarli. Allora, che ne so, in Calabria sentivo dire “hai mai visto uno zingaro lavorare?”, come dire che gli zingari non lavoreranno mai. Ecco, con alcuni zingari ho aperto una cooperativa a facciamo la raccolta differenziata “porta a porta” a Lamezia Terme. È che con alcune minoranze ritenute inferiori, ritenute incapaci, a me è capitato di fare delle cose con loro e non su di loro – anche perché non ci riesco – ma assieme abbiamo messo su tante attività, tante iniziative utili a riempire una vita umana.

Giornalista Maurizio: ecco qui voglio arrivare. Tu Don Giacomo con altre persone ti definisci il co-fondatore della “Comunità Progetto Sud” che prende piede nel 1976. E questa comunità diventa una comunità di comunità, un gruppo di gruppi, ed è un cammino fatto di disabili che gli stessi familiari nascondevano in casa o che altri magari relegavano o nei manicomi o nelle case, nei cameroni dove stipavano le persone disabili. Invece con la “Comunità Progetto Sud “comincia un cammino del tutto nuovo per i disabili in Calabria.
Don Giacomo: e questa è stata un’operazione di Chiesa, cioè, siccome mi avevano imprestato per 5 anni io nella logica di 5 anni mi sono detto “in che cosa posso aiutarli a fare in 5 anni? Io potrei fare tantissime cose trovando chi mi aiuta, però loro dopo 5 anni rimarrebbero da aiutare. Allora i primi anni li ho giocati a fare in modo che loro potessero fare a meno di me. Così, già nel secondo anno questo gruppo di persone con disabilità aveva già fondato una cooperativa con i minori del carcere minorile, cioè avevano già imparato a fare e ad aiutare altri. Ecco, la modalità di Chiesa del prestito di un prete mi ha costretto a ragionare sull’aiutarli a rendersi indipendenti, a fare a meno di me che ero stato mandato là per aiutarli, e forse questo mi ha aiutato a capire che questo era il metodo da riutilizzare. Perciò tra chiese, che continuano a prestarmi perché poi c’è stata la Caritas diocesana da fondare, ci sono state altre cose di chiesa da portare avanti, eccetera, il punto qual è? Che l’operazione mi ha portato a seminare piantine che stanno in piedi da sole.

Giornalista Maurizio: questo è molto bello. E proprio con questa condivisione con le minoranze etiche, perché mi piace chiamarle così, di cui tu ti senti parte, a un certo punto tu racconti in questo libro “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso”, hai pestato i piedi alla ndrangheta, in particolare al clan Torcasio, di Lamezia Terme, quando ad un certo punto la “Comunità Progetto Sud” ha detto sì a prendere in gestione un bene confiscato a una ‘ndrina, quella dei Torcasio , ma da quel “sì” però poi è cominciato un cammino doloroso per te e per altri della Comunità, Don Giacomo.
Don Giacomo: da quel “sì” poi mi hanno imposto il programma di protezione, perciò la Procura, la Prefettura, insomma, il Governo , la Polizia …

Giornalista Maurizio: sei stato più volte minacciato più volte anche davanti alla Polizia, quindi c’è stato un processo, sono stati condannati …
Don Giacomo: si, però il punto base qual era? Era che a Lamezia Terme le case confiscate il Governo le dava al Comune, ma il Comune, qualsiasi colore del Comune, non le dava mai a nessuno. E noi allora per principio, come Comunità, come gruppi di gruppi, avevamo chiesto una casa per principio, non quella casa, ma una casa confiscata qualsiasi. Però dopo, quando il Consiglio Comunale è stato sciolto due volte per infiltrazioni mafiose, il Governo è venuto a presidiare l’ente locale, e vedendo la nostra lettera, mi hanno chiamato e mi hanno detto “ci stiamo a fare in modo che le case confiscate di Lamezia vengano utilizzate? Io ho detto “ma certo, abbiamo scritto una lettera “ che il Prefetto aveva visto, e ha ribattuto “certo, è per questo che ho chiamato lei”. In quell’incontro è stato proprio il rappresentante del Governo a proporre “prendiamo la più difficile, cominciamo con quella più difficile, invece che con quella più facile”.

Giornalista Maurizio: la fai facile, ma c’erano altri che avevano rifiutato, gli stessi vigili urbani hanno detto “no, noi lì non ci andiamo”. Andare in quella casa voleva dire entrare nel covo dei Torcasio. Invece voi no, voi ci siete andati …
Don Giacomo: perché le case offerte ai senza tetto, offerte agli sfrattati, offerte ai rom che vivono in un ghetto, offerte ai vigili urbani eccetera, ci sono stati tutti rifiuti, i vigili urbani stessi hanno minacciato lo sciopero, e dopo queste cose hanno chiamato me, e cos’è successo? Che quando sono andato con il Prefetto a visitare la casa, toh! ci abitavano dentro: cioè, la casa era stata confiscata anni prima, il Comune aveva le chiavi – e infatti noi siamo andati con le chiavi, abbiamo aperto – ma quelli ci abitavano dentro. Questo per dire le modalità della legalità pubblica in Calabria: il comune di Lamezia Terme non verificava le case confiscate, specie quelle rischiose. La nostra iniziativa è stata una collaborazione tra il Governo e noi del terzo settore, è stata una bella collaborazione, perché, è vero, io vivo anche con parecchia paura, però credo che quella operazione sia stata un bel regalo che la gente in carrozzina ha fatto a Lamezia Terme, mentre i giovani forti, i vigili urbani, avevano detto di no. Invece qui sono state le minoranze etiche, cioè non le minoranze e punto, ma le minoranze di persone, molte con disabilità varie, che hanno acquisito dei valori umani e civili…

Giornalista Maurizio: vediamo l’elenco delle realtà che hanno sede in questo palazzo, perché lo leggo dal libro a pagina 100: Sportello informativo per l’handicap, il riferimento regionale di “banca etica”, la Casa Famiglia dopo di noi, la sede di Disabled Peoples International, il Gruppo R-Evolution Legalità, la Cooperativa Le Agricole, la Sede della Fish Calabria, tutte queste han trovato un tetto, sono lì dentro …
Don Giacomo: Sì, ma il libro è di Marzo, e da luglio in quel palazzo di 4 piani con 2 appartamenti a piano – lì c’è anche “Luna Rossa”. Quando ci sono stati gli ultimi sbarchi di migranti africani io sono stato contento che dal Governo mi abbiano telefonato, dicendomi “Don Giacomo, potete accogliere i minori non accompagnati che arrivano in questi mesi dal Nord Africa, che continuano a sbarcare e dobbiamo trovare dove metterli? Io sono stato contento di ricevere direttamente una proposta così, e sono soprattutto contento che questo governo si sia diretto a una nuova modalità di accoglienza degli stranieri. Lì abbiamo nove immigrati africani che abitano due di quegli appartamenti: “Luna Rossa è da aggiungere all’elenco che hai letto.

Giornalista Maurizio: Don Giacomo, questo è il frutto di questo tuo “cammino al contrario” rispetto ai tanti migranti che dal Sud prendono la strada del Nord; invece tu da Brescia sei passato da Fermo alla Comunità di Capodarco, e poi sei arrivato in Calabria, A 14 anni già operaio in una fabbrica, poi a cottimo perché ti dovevi sostenere agli studi e lì, in quell’ambiente bresciano hai maturato la scelta di diventare prete, contro corrente quando nessuno se l’aspettava che cos’è che …
Don Giacomo: … neanche io me l’aspettavo …

Giornalista Maurizio: che cos’è che ti ha attratto del sacerdozio?
Don Giacomo: non so, allora non mi ha attratto niente del sacerdozio, allora mi è venuto in testa “tu fai il prete io faccio il prete”. Ho fatto un mese con la fidanzata a dirmi e a dire “io devo provare questa cosa”. Allora il parroco mi ha accompagnato in seminario dicendo “questo giovane vuole studiare in seminario”; ma non ha potuto garantire, perché io non ero nel giro della Chiesa. E in altre parole il seminario è stato, si può dire d’oro? Cioè, non è che si è fidato di me, ma mi ha lasciato fare, mi ha fatto fare tutti gli studi e mi ha lasciato vivere tutte le esperienze che volevo. Dovendo trasferirmi lì a Brescia, mi sono collegato con un amico che aveva la fidanzata prostituta che stava con le sue amiche prostitute, perciò io stavo in quel giro lì, ma non era un’attività pastorale, io studiavo in seminario e stavo anche lì. Quando poi han capito che forse avevo davvero la vocazione, o che ne so, mi hanno proposto di lasciare quel giro e di darmi da fare o con gli handicappati – si usava dire così allora -, o con gli anziani, o con gli ammalati. Io ho risposto: “a me va bene tutto”, perché probabilmente avevo qualcosa dentro che mi ci portava. Infatti, laddove incontravo delle alternative, tra il fare il prete o altre cose, oppure no, io lasciavo tutto e seguivo la strada di fare il prete, ero tranquillissimo e pian piano mi si è disegnata un’idea di prete in testa, che ne so: tra tante modalità belle dell’esser prete, ecco, me ne uscivano sempre una due tre belle, delle perle adatte a me.

Giornalista Maurizio: leggo proprio dal libro “la mia storia mi ha portato tardi ad accorgermi che si può trovare spiritualità nell’amore e amore nella spiritualità, che essere prete ti fa prossimo a tanti uomini e donne compresi i nemici, un groviglio di vocazione e passione”. Come stai abbracciando i nemici in Calabria, quelli che non ti hanno voluto bene in tutti i sensi?
Don Giacomo: Ti dirò. Quando hanno ucciso uno di questi che mi hanno minacciato, un pregiudicato con due ergastoli, pluriomicida, io mi sono detto “ma guarda te!” cioè parlando tra me e me, mi son detto “guarda, questo doveva uccidere me, e adesso hanno ucciso lui”. Oppure anche quando hanno portato una bomba in casa del clan e non è scoppiata, questi attentatori di un altro clan di ’ndrangheta sono rientrati a sparare e a uccidere e ferire questi che mi minacciavano. Tutte queste cose ti lasciano così, quel pezzo di Vangelo che ho dentro di me, mi dice davvero che siamo fratelli e sorelle. Oppure quando n quella casa confiscata ho trovato …

Giornalista Maurizio: l’album di fotografie
Don Giacomo: l’album di fotografie di un matrimonio e un giocattolo, lasciati quando si sono dovuti spostare nella casa vicina perché quella confiscata mica potevano abitarla …, ecco io glieli ho portati. Da come li ho visti e ci siamo incrociati, mi è sembrato – si può dire? – di leggerci la bontà. Insomma, io faccio il prete e leggo le cose a modo mio, però nell’area criminale mi sembra di vedere anche la bontà.

Giornalista Maurizio: Don Giacomo siamo alla chiusura. Il 9 Ottobre Papa Benedetto XIV verrà a Lamezia Terme, ecco: quale Calabria consegnerete nelle sue mani quel giorno?
Don Giacomo: Innanzitutto una Calabria che lo sta aspettando, perché abbiamo dovuto cambiare il luogo dell’incontro perché si stanno prenotando a centinaia e migliaia, però troverà davvero purgatorio, inferno, paradiso. Troverà davvero le luci e le ombre della Chiesa, e troverà una Calabria con più cristiani di ieri che l’aspettano per mettere in pratica le ultime encicliche che ha fatto, che sono molto belle.

Giornalista Maurizio: grazie Don Giacomo Panizza autore di “Qui ho conosciuto Purgatorio, Inferno e Paradiso”- La storia del prete che ha sfidato la ndrangheta. Grazie: Arrivederci Don Giacomo e buona attesa del Papa.
Don Giacomo: Grazie a voi.

Serrastretta: Intervista a Don Giacomo Panizza a margine dell’incontro voluto dalla Pro Loco

di Donato Parente
La presentazione del libro di don Giacomo Panizza “Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso” ha visto una partecipazione popolare assolutamente disarmante (nell’accezione positiva del termine) a Serrastretta. Forse le ragioni del successo insperato di questo evento, a metà strada fra cultura e impegno sociale, sta nella forma con la quale è stato presentato alla cittadinanza: in effetti, nell’intento degli organizzatori, l’evento non è stata concepito come la consueta presentazione di un libro, ma come “un momento di riflessione, una conversazione confidenziale ma di spessore sull’atteggiamento legalitario in un senso più ampio, su come si possano di fatto concretizzare alcune buone pratiche quotidiane nelle nostre realtà e su come alcuni soggetti del tessuto sociale possano intervenire per agevolarne la comprensione e favorirne l’attuazione”. Protagonisti dell’evento sono stati don Giacomo Panizza (autore del libro) e Nino Amadore, giornalista de “Il Sole24”. L’intervista seguente (effettuata al termine della presentazione) si propone di “approfondire” alcune tematiche sollevate da Panizza nel corso della presentazione.

Storicamente, il forte legame tra sud e feudalesimo ha impedito lo sviluppo di un’attività economica pari a quella settentrionale. Secondo te è corretto affermare che il sud rappresenti, per le mafie, la fonte di legittimazione culturale e il nord quella economica?
“Sì, l’esportazione del modello mafioso al nord appare quasi come un’evoluzione della criminalità organizzata: qui al sud il fenomeno mafioso ha come d’azione la famiglia e il territorio, mentre al nord ha un modo d’imporsi diverso. Mentre qui al sud è il territorio ad essere controllato, al nord sono controllati gli affari. Quindi, in un certo senso, è realmente un’evoluzione economica del fenomeno”.

Dicevi prima che “al nord c’è quasi un’incapacità di concepire il fenomeno mafioso e al sud un’incapacità di interpretare e contrastare il fenomeno”. Pare che l’unico grande comun denominatore sia l’assenza dello Stato. Sei d’accordo?
“Lo Stato è distratto. Assente del tutto no, però non è possibile porre in essere determinati meccanismi di contrasto e poi non utilizzarli a dovere. Spesso sono le leggi a penalizzare il funzionamento della giustizia. Questo vuol dire che bisogna fare leggi nuove. Da questo capisci come lo Stato non stia esattamente prendendo “il toro per le corna”: sembra sempre che ci sia una certa timidezza fatta di paroloni che non trovano fondamento nella realtà. Insomma, sembra quasi che le istituzioni non siano in grado di fronteggiare il problema. Paradossalmente, è come se concepisse e accettasse di buon grado un altro Stato al suo interno! È una cosa assurda!”.

Tu hai trascorso più di trent’anni in Calabria: quali sono i cambiamenti più significativi che hai notato a livello socio-culturale?
“Oltre alla presa di coscienza del mondo giovanile e di quello femminile, noto con piacere una ripresa delle attività economiche. Forse la gente sta iniziando a comprendere la necessità di avviare progetti di imprenditoria locale. Mi auguro che i calabresi puntino sempre più sulla micro economia piuttosto che sulla macro economia”.

Parlando dei tuoi primi tempi in Calabria hai affermato: “Mi si era cambiato il mondo”. Da questa affermazione traggo lo spunto per la prossima domanda: secondo te da cosa dipende la scarsa consapevolezza del popolo calabrese?
“Molti calabresi si adagiano su una Calabria sempre uguale, mentre gli emigrati sono in grado di fare i paragoni con altri contesti. Altrove ci sono delle attenzioni civili che qui non esistono per il semplice fatto che non sono mai esistite. Il passaggio culturale potrebbe consistere nel trovare un nuovo modo di fare e di essere. Il problema è l’organizzazione: è ora di mettere in pratica nuove esperienze, in cui la popolazione impari a gestire la cosa pubblica”.

Durante la presentazione del libro hai detto che il modello familista si combatte lavorando insieme. Ma come si convince la gente a lavorare insieme?
“Io ho cominciato insegnando ai bisognosi l’esigenze di collaborare. Ti racconto un aneddoto: con un gruppo di ROM di Lamezia Terme abbiamo messo su una cooperativa di raccolta differenziata porta a porta; lavorando insieme, questi ROM riescono a guadagnarsi da vivere lavorando onestamente. Lavorando insieme. È da questo che dobbiamo partire”.

CGIL – Il lavoro decide il futuro. La CGIL contro la precarietà, la povertà. Per un nuovo welfare

Catanzaro,19 dicembre 2013

Buongiorno a tutti e a tutte.
Sono contento dell’invito a questa iniziativa pubblica, e sono passato per ringraziarvi del pensiero di fare una donazione alla Comunità Progetto Sud.
È stata una gradita sorpresa la telefonata di Giuseppe Valentino, segretario generale CGIL di Catanzaro – Lamezia, intenzionato a devolvere le trattenute per l’adesione allo sciopero generale di venerdì 15 novembre scorso dei funzionari della Cgil Calabria, della Cgil di Catanzaro – Lamezia, e del Caaf Cgil Calabria Srl.

Nella mappa delle iniziative di solidarietà e di legalità svolte in Calabria alcune sono di volontariato, sono portate avanti da uomini e donne che gratuitamente donano tempo e capacità per l’aiuto e il riscatto di persone e gruppi in difficoltà. Sono attività sfornite di entrate economiche e con spese vive per spostamenti e strumenti, per acqua, luce e manutenzione, come ad esempio il Parco Giochi Lilliput, situato a 50 metri dalla sede CGIL di Lamezia Terme, o il progetto Gossace in Uganda, a 5.000 chilometri dall’Italia. A queste e ad altre iniziative povere (ma non povere iniziative) destiniamo le varie ed eventuali donazioni, con lo scopo di ampliare cultura e lavoro solidale.

L’argomento che avete messo a tema oggi è centrale, è proprio il lavoro umano che decide il futuro, e anche il presente. È il lavoro che stabilisce il ruolo sociale delle persone e delle famiglie nella polis, nell’economia e nella cultura. È il lavoro umano che trascina con sé dignità e fierezza di esserci, di trasformare, di costruire civiltà e speranze umanizzanti.

Ecco, in questo, con voi anch’io penso che nel Sud Italia siamo chiamati tutti e tutte a svolgere una parte attiva per il lavoro che deciderà il futuro. E penso che a questo sono chiamate anche le persone alle quali l’occupazione viene ancora preclusa in quanto donne, o con disabilità, o troppo giovani o spostate avanti negli anni, o straniere o disagiate.

Auguro un approfondimento proficuo del tema, alla presenza del Segretario regionale Michele Gravano e della Segretaria generale Susanna Camusso.
Da parte mia ritengo che per il lavoro dovremmo tutti e tutte politicizzarci di più, per dotarci al più presto di un governo che smetta di promettere, e di avere finalmente uno Stato, o meglio una Repubblica, all’altezza di costruire garanzie solide al lavoro presente e futuro.

Per realizzare questo obiettivo, penso che società e sindacati non dobbiamo chiamarci fuori ma mettercela tutta, perché mi pare giunto il momento storico che anche noi, insieme, dobbiamo fare e dare al Paese molto di più.

Ancora grazie.
Buon lavoro e Buon Natale.

Don Giacomo Panizza
Comunità Progetto Sud

“Come un asino…fra gli uomini e al cospetto di Dio”

Venerdì 21 novembre 2014
S.I.R.
Servizio Informazione Religiosa

Preti di strada
“Come un asino…fra gli uomini e al cospetto di Dio”

Così “vede” il sacerdote di oggi don Giacomo Panizza, fondatore della Comunità Progetto Sud in Calabria. Alla prima
comunità di disabili ai quali ha restituito visibilità sociale, si sono aggiunte mille altre iniziative. “La mafia è solo un
‘ostacolo’, anche se pesante, che ci rallenta e che perciò occorre rimuovere; ma la nostra ‘dolce ossessione’ devono
sempre essere le persone con i loro bisogni”

di Maurizio Calipari

link articolo sul sito
Una giornata a toccare con mano un pezzetto di Vangelo fatto “carne”. È quella trascorsa con don Giacomo Panizza, fondatore e attuale presidente della Comunità Progetto Sud, a Lamezia Terme (Catanzaro). Don Giacomo, 67 anni, bresciano, ha iniziato questa esperienza 38 anni fa, nel 1976, quando un gruppo di disabili di Lamezia lo contatta nella Comunità di Capo D’Arco (Fermo), chiedendo accoglienza e assistenza. In quegli anni, infatti, i portatori di handicap nel territorio lametino possono contare solo sull’eventuale aiuto familiare, in assenza di strutture di sostegno pubbliche e in un clima di esclusione sociale, di carenze sanitarie, ma soprattutto di una sub-cultura strisciante per la quale il disabile tendenzialmente resta “nascosto” a casa, quasi fosse una presenza imbarazzante per gli altri. E spesso, anche le persone con handicap, rassegnate, trovano più facile reputarsi “pensionati a vita, al di là dell’età, piuttosto che potenziali lavoratori e cittadini a
pieno titolo”. La risposta di don Giacomo a quel bisogno è inaspettata: “Vengo io da voi in Calabria per un po’ di tempo e, insieme, proviamo a costruire là una soluzione”.
Mille ostacoli. Arriva così a Lamezia e, dopo un primo periodo di dure “battaglie”’ per superare resistenze locali forti e ostinate (ostacoli culturali, burocratici, economici e persino ecclesiali), alla fine ottiene dal Comune l’uso di un asilo abbandonato e fatiscente. Sarà la prima casa famiglia della Comunità Progetto Sud, dove don Giacomo e una quindicina di disabili, col sostegno di alcuni volontari, si organizzano per vivere in autogestione.
Doveva fermarsi in Calabria solo 5 anni, come concordato col suo vescovo di allora, ma dopo 38 anni don Giacomo è ancora là, insieme ai suoi compagni di viaggio disabili, che ora però non stanno più “nascosti” in casa a commiserarsi, ma sono diventati con lui animatori e protagonisti attivi di tanti progetti di promozione umana e sociale, a livello locale, nazionale ed internazionale, in nome del Vangelo. A loro, in questi anni, si sono aggiunte tante altre persone in difficoltà.
Una “comunità di comunità”. “Non ho mai progettato nulla a tavolino – dice don Giacomo – ogni iniziativa è nata nella nostra comunità come tentativo di risposta concreta ad un bisogno concreto che ha ‘bussato alla nostra porta’ o che abbiamo incontrato per strada. Di fronte ad ogni richiesta di aiuto ci siamo domandati: che possiamo fare per migliorare questa situazione? E ci siamo messi in gioco”. E oggi Progetto Sud è diventata una “comunità di comunità”, una rete sociale che conta varie strutture (case famiglia, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, centri di riabilitazione, cooperative sociali, centri culturali e di formazione, ecc…) e che porta avanti svariate attività assistenziali (disabilità fisiche e psichiche, tossicodipendenze, Aids) e sociali (accoglienza per persone in difficoltà, immigrati e profughi, integrazione dei rom, economia etica, produzione di servizi sociali, produzione di lavoro, ecc…). 

Una particolare attenzione poi è riservata alle iniziative di educazione alla legalità e promozione dei diritti sociali, in una terra strangolata dalla mafia.
Le minacce di morte della mafia. Don Giacomo e le sua comunità hanno dovuto fare i conti anche con questa dura realtà, subendo vari attentati.
Anche a motivo dell’affidamento a Progetto Sud, da parte delle autorità, di alcuni edifici sequestrati alle famiglie mafiose del territorio e ora tramutati in luoghi (e contemporaneamente “simboli”) di promozione e riscatto sociale. Da qualche anno, in seguito ad esplicite minacce di morte, don Giacomo ha dovuto accettare la protezione di una scorta da parte della polizia. “Don Giacomo, – gli chiediamo mentre mostra i fori di proiettile esplosi contro la porta di una delle case della comunità come gesto d’intimidazione – ma allora è la mafia il vero problema della vostra attività?”, “Assolutamente no – risponde – la mafia è solo un ‘ostacolo’, anche se pesante, che ci rallenta e che perciò occorre rimuovere; ma la nostra ‘dolce ossessione’ devono sempre essere le persone con i loro bisogni, la realizzazione del bene comune”. 
I frutti pastorali. C’è un’altra cosa che stupisce di questo sacerdote, quasi settantenne e con ormai tanti frutti pastorali 
di cui ringraziare Dio: dopo tanti anni appare sempre desto e attento ad eventuali bisogni emergenti. Inevitabile la domanda: 
“Ma non ti sei ancora stancato d’inventare risposte ai bisogni delle gente? Quante ne dovrai realizzare ancora?” e lui, con 
un certo pudore, risponde, con un versetto del Vangelo “…finché ne vollero” (Gv. 6,11).
Con gli asini in Paradiso. A conclusione della giornata trascorsa insieme, nasce spontaneo rivolgere a don Giacomo un ultimo 
interrogativo: di che tipo di sacerdote ha più bisogno oggi la nostra società? E lui, con semplicità disarmante, sorridendo: 
“Non saprei dare una risposta in assoluto, ma forse… dovrebbe essere molto simile ad un ‘asino’!”. “In che senso?”, e lui ci 
mette sotto gli occhi una poesia di Francis Jammes, intitolata “Preghiera per andare con gli asini in Paradiso”. Eccone il 
testo: “Quando dovrò venire a Te, mio Dio […] dirò ai miei amici asini: venite dolci amici del cielo sereno […] Fra questi 
animali voglio comparire al Tuo cospetto […] Arriverò seguito dalla loro miriade di orecchie, seguito da quelli che portano 
ceste sui fianchi, da quelli che trascinano carrozzoni di saltimbanchi o carrozzelle di piumini e di metallo, da quelli che 
portano sul dorso bidoni ammaccati.
Asine pregne come otri, dalla traballante andatura, da quelli a cui si infilano piccole brache per celare le piaghe livide e 
infette dalle mosche ostinate che si radunano a grappoli […] Mio Dio fa che con questi asini io giunga a Te, fa che nella 
pace, angeli ci conducano verso gli erbosi ruscelli che riflettono tremule ciliege, lisce come la pelle ridente di fanciulle. 
E fa che in questo soggiorno di anime, chino sulle Tue Acque divine, io sia simile agli asini che specchieranno la loro 
umile, dolce povertà nella limpidezza dell’eterno amore”. Grazie don Giacomo, “prete asino”.

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