“Voce del verbo restare”. Don Giacomo Panizza

di Valeria Guarniera – “Nella parola “antimafia” c’è l’atteggiamento sbrigativo di chi vuole delegare, di chi responsabilizzando altri deresponsabilizza se stesso (…)Ma un prete fa il prete, un insegnante fa l’insegnante, un padre fa il padre e un imprenditore fa l’imprenditore: non ha bisogno di definirsi ‘antimafia’. E’ un modo di vivere, in quello che fa c’è il no a certe cose”. Lontano dalle semplificazioni e dalle definizioni forzate, nelle parole di don Giacomo Panizza c’è la consapevolezza della scelta: bresciano doc, emigrante al contrario, ha fatto della Calabria terreno fertile per la sua rivoluzione. Ricomincia con lui “Voce del verbo Restare”, la rubrica che racconta le storie di chi alla sua scelta ha dato un senso: arrivare, partire, tornare… restare.
Don Giacomo da 40 anni respira l’aria calabrese. Ne conosce l’animo e le contraddizioni, sa coglierne limiti e sfumature: “Inferno, purgatorio e paradiso, in Calabria li ho conosciuti”. Fondatore a Lamezia Terme della comunità “Progetto Sud” – Onlus indipendente che nasce con l’obiettivo di dare risposte alternative alle problematiche sociali – è per il territorio un punto di riferimento. Modi gentili, voce pacata, il suo sguardo brilla di una luce intermittente mentre ripercorre a ritroso la sua storia: ricorda, di quei primi anni, la paura di chi era costretto a vivere la disabilità da recluso, la totale assenza di servizi e quelle parole nuove – mafia, ‘ndrangheta – che a Brescia non aveva mai sentito e che, col tempo, ha imparato a conoscere. E ripensa alla paura – questa volta la sua – quando quelle parole sono diventate persone che bussavano alla sua porta chiedendogli il conto.
Parla dei giovani, don Giacomo, come simbolo di rinascita per la Calabria. E parla ai giovani, sfidando la pedagogia mafiosa, perché capiscano l’importanza di lasciarsi educare alla libertà: “Dobbiamo insegnare loro ad essere cittadini consapevoli, uomini e donne che sappiano vivere a testa alta. Dobbiamo seminare consapevolezza e speranza”.

Emigrante al contrario, è arrivato a Lamezia Terme negli anni ’70. In questa specie di viaggio della memoria, se ripensa a 40 anni fa: cosa ricorda?
I miei occhi guardavano a chi doveva partire per forza, stile deportazione: la partenza era vissuta come allontanamento, una vera e propria migrazione forzata. Erano persone in carrozzina. E negli anni ’70 in Calabria per certe problematiche le uniche soluzioni erano il manicomio di Reggio, l’ex ospedale psichiatrico di Girifalco e quello di Serra D’Aiello: grandi strutture in cui migliaia di persone venivano ricoverate e stavano lì ammucchiate, una sull’altra. Erano disabili o – come si diceva – “gente fuori di testa”; oppure donne “che non stavano in riga” secondo la mentalità del paese e che magari rimanevano incinta: le mettevano tutte lì, indistintamente: senza accertamenti o pareri medici approfonditi, senza una possibilità reale di cura, spesso senza motivo. “Urlava in piazza”, poteva essere una diagnosi. Le persone in carrozzina che all’epoca ho conosciuto non immaginavano un bel futuro: i genitori anziani erano sul punto di ricoverarli e la totale assenza di prospettiva annientava le loro speranze. Dire Girifalco o Serra D’Aiello significava “andare perduto”, allora chiedevano di essere ricoverati fuori: il male minore, “meglio che qui”, ma comunque allontanamento forzato, una deportazione e una condanna alla solitudine: chi sarebbe andato a trovarli, dalla Calabria? Il sentimento che vedevo allora, soprattutto sulle tematiche legate alla disabilità, era la rassegnazione. Non c’era il concetto di “persona”, ché il lavoro può toccare a tutti, e la scuola può toccare a tutti e che i sentimenti riguardano tutti. C’erano i più forti che potevano rimanere e i più forti che potevano partire. E poi c’erano gli altri, che erano di contorno e di cui nessuno si prendeva cura. La totale assenza di servizi, in tutta la Calabria. Ricordo a Reggio iniziative differenti grazie a don Italo Calabrò che raccoglieva attorno a sé gruppi di giovani volontari e creava per le persone disabili situazioni più familiari. La diversità era intesa come inferiorità e mi sembrava assurdo – mi disturbava proprio – vedere una totale assenza di tutela nei confronti di queste persone. Allora, se ripenso ai primi anni in Calabria, ricordo la paura di chi era costretto a vivere la sua disabilità da recluso, la totale assenza di servizi e parole nuove – mafia, ‘ndrangheta – parole che a Brescia non avevo mai sentito e con cui, col tempo, ho imparato a fare i conti…

A Lamezia i primi laboratori per l’inserimento lavorativo delle persone disabili, la comunità Progetto Sud e la ‘ndrangheta, non più solo parola, che le si materializza davanti
Sì, li ho conosciuti e da subito ho potuto constatare di cosa sono capaci. Abbiamo iniziato le nostre attività con dei laboratori: i primi undici anni abbiamo vissuto solo del nostro lavoro, senza convenzioni. Realizzavamo oggetti in rame e in legno, stampe, cornici. Progetti semplici e senza troppe pretese. Lavoravamo e ci piaceva. Ricordo ancora oggi quando due giovanotti sono venuti a chiedermi il pizzo. Ed io meravigliato mi chiedevo: “Ma come fanno a non vedere che queste persone sono in carrozzina?”. Mafia non sapevo cosa fosse. Erano ladri – questo lo sapevo – ma non li facevo così balordi. Vari atti vandalici per aver detto subito no e minacce per niente velate. Ingenuamente pensavo fossero solo modi per mettermi paura, ed io di paura ancora non ne avevo, tendevo a sottovalutare il problema. Poi mi dicevano che non era mafia, che la mafia non esiste. Ma ad aprirmi gli occhi per fortuna c’era don Italo Calabrò…

Un’alleanza forte, un consigliere affidabile quando attorno a lei c’era il contrapposizione tra ciò che vedeva – e subiva – e ciò che (non) le raccontavano
Avevo conosciuto don Italo a Roma, grazie alla Caritas. Discutevamo di welfare, di poveri, di diritti negati. Mi sembrava un tipo sveglio, e lo era davvero. Si è rivelato un grande amico in grado di indirizzarmi attraverso utili consigli che io fidandomi mettevo in pratica. Mi ha raccontato la Calabria e le sue contradizioni, mi ha aperto gli occhi su tante cose. Qui, a Lamezia, non è che non mi davano consigli. Dicevano che non c’era bisogno di consigli, che andava tutto bene, che venendo da fuori non capivo e che dovevo ambientarmi. Io non avevo argomenti per ribattere, se non che “m’han chiesto il pizzo”, “mi han rotto le finestre” e “mi han tagliato le gomme dell’auto”. Ma questo non bastava.

Nel 2002 la comunità Progetto Sud trova la sede dentro un bene confiscato ritenuto “intoccabile”: prima di lei tutti avevano restituito la chiave. Da un’intercettazione emerge il forte disappunto da parte di alcuni esponenti del clan della zona per il suo lavoro, diventa – suo malgrado – il simbolo della lotta al malaffare, primo testimone di giustizia di Lamezia Terme e per la prima volta fa davvero i conti con la paura…
Sì, in quella vicenda ho avuto una paura tremenda. Una finestra nuova mi si è aperta davanti: ho visto la voglia di vendetta da parte delle donne della famiglia che puntavano il dito contro di me a autorizzavano i figli alla resa dei conti, in una sorta di liberatoria ad ammazzarmi e ho capito che nel loro ingranaggio ero un elemento di disturbo. Lì ho avuto davvero molta paura.

Intimidazioni, danni, minacce, richieste di pizzo: ogni giorno fa i conti con la paura. Si è mai sentito solo?
Qui vivo con un gruppo di persone che mi sta vicino. Ma può capitare, a volte nei confronti di un clan mafioso ti senti solo, indifeso. Però con la scorta prima, il programma di protezione dopo e la videosorveglianza diciamo che provo a dormire sonni più tranquilli. So di non essere mai solo, di avere sempre le spalle coperte. Gli uomini dello Stato ci sono ed io mi fido ciecamente.

“I mafiosi – ha detto – non vogliono passare per aggressivi, ma per amici e benefattori. Sono capaci di sistemare il portale della chiesa, di comprarti la statua… che però poi, certo, dovrà passare da casa loro durante la processione. Danno e in cambio chiedono, così sottomettono la città invece di liberarla”.
Loro hanno l’intelligenza di passare non da prepotenti ma da benefattori. E non si contrappongono mai apertamente a noi preti, lanciano segnali con frasi tipo “se hai bisogno di qualcosa, a disposizione”, non fanno i prepotenti. A loro basta che il parroco non parli contro di loro, gli serve l’approvazione per aumentare il controllo del tessuto sociale. E’ il riconoscimento “del loro buon cuore” che gli interessa, passare come uomini d’onore, specie nei piccoli centri. E un prete che sta zitto a loro fa comodo.

La definiscono “prete antimafia”. Perché c’è bisogno di questa etichetta?
“Nella parola “antimafia” c’è l’atteggiamento sbrigativo di chi vuole delegare ad altri, di chi responsabilizzando altri deresponsabilizza se stesso. Come dire: “Lo fa lui, non devo farlo io”. Ma un prete fa il prete, un insegnante fa l’insegnante, un padre fa il padre e un imprenditore fa l’imprenditore: non ha bisogno di definirsi “antimafia”. E’ un modo di vivere, in quello che fa c’è il no a certe cose. Allora: se io faccio il prete, come faccio a pagare il pizzo? Se faccio il prete, come faccio a tollerare i mafiosi? Se faccio il prete, come faccio a non dire che la mafia è un ostacolo al lavoro, alla libertà, alla cultura. Dire “prete antimafia” è come dire che i preti fanno altro, e se fai antimafia ti caratterizza. E’ facendo quello che fai che sei per certe cose e contro altre. E’ un metodo furbo e sbrigativo e non mi piace. E’ la mafia che è anti-preti, anti-scuola, anti-libertà, anti-lavoro pulito.

Lei ha sempre denunciato e spinge tutti quelli che vedono o subiscono a farlo: “Qui è cresciuto il potere della mafia –ha detto – ma è cresciuto anche il potere di chi si ribella alla mafia. C’è però ancora troppo silenzio”. Il grande problema – ne parla nel suo ultimo libro, Cattivi Maestri – è la mentalità mafiosa, quella che si insinua nel modo di pensare comune, quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città…
Loro vogliono rimarcare la loro presenza. Con le intimidazioni colpiscono tutti, come una sorta di promemoria per dire “Noi ci siamo”, e la gente lo sa. Ma qui si denuncia ancora poco, il silenzio che c’è è assordante. Bisogna dare una spallata e per farlo bisogna essere in tanti a dire no. E’ il “noi” che deve dire no, il senso responsabilità del non volersi svendere e sottomettere. Dire no a una strada che loro vogliono sistemare, a una statua che vogliono regalare alla piazza del paese, al portone nuovo per la chiesa. Sono i modi subdoli che questi hanno per mettere in ginocchio e sottomettere una comunità, per dimostrarsi superiori e la gente spesso ci casca o lascia correre “per il quieto vivere”. Ma pensare che così tieni la pace significa arrendersi: questi la pace non la cercano, non la vogliono e non ce la daranno mai. C’è rassegnazione. Qualcuno ancora dice che loro creano lavoro. Ma quello che danno non è lavoro: anche gli schiavi d’Egitto han costruito le piramidi, ma lo hanno fatto da schiavi.

Una vera e propria sfida alla pedagogia mafiosa: “Un libro per i giovani, perché capiscano l’importanza di lasciarsi educare alla libertà: i mafiosi chiamano ‘cattivi maestri’ chi insegna a riflettere e ad essere liberi e critici…”
Da un lato ci sono loro, con il loro modo di educare i figli, di imporsi alla società, di dettare regole di violenza e sopraffazione. Piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, le regole ‘educative’ criminali si impongono nelle comunità locali e insegnano il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali – come la riscossione del pizzo – mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, ottiene fiducia e fa carriera. L’educazione dei giovani criminali, allenati a collocare in secondo piano i sentimenti e l’amicizia, avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano, dimostrazioni lampanti che uno sparuto gruppo di persone riesce ad ‘ammaestrare’ interi quartieri e intere città. Dall’altro ci siamo noi, e il nostro modo di educare i nostri ragazzi. Dobbiamo insegnare loro ad essere cittadini consapevoli; uomini e donne che sappiano vivere a testa alta. Non basta sapere ma bisogna sperimentare, bisogna manifestare contro i delitti di mafia, contro l’inquinamento ambientale, contro i servizi che non funzionano. Per non dare importanza e non far prendere potere ai ‘cattivi maestri’ serve l’educazione quotidiana alla legalità. Una battaglia che tutti insieme dobbiamo combattere. L’educazione non si fa solo attraverso gli incontri nelle scuole, dobbiamo dimostrarla attraverso iniziative in cui si pratica l’amicizia, la democrazia, la libertà del pensiero. Cattivi maestri sostanzialmente sostiene questa tesi: in una realtà ad alta intensità mafiosa dobbiamo seminare consapevolezza e speranza.

C’è un elenco molto bello che lei ha fatto, “Cose che mi piacciono al Sud”. Parla di quanto siano belle le mani nude, disarmate; la bellezza della gente e delle sue parole; dei padrini che non fanno i padroni, dei doni fatti per amicizia e non per incatenare; poi le madri “a tutti i costi”, quelle che supplicano i boss di svelare dove sono i figli, spariti di lupara bianca; le donne appassionate, i giovani “che si sbattono” per un ideale e il coraggio di chi punta il dito contro chi gli ha chiesto il pizzo. “Mi è piaciuta l’idea di emigrare a rovescio, di andare a conoscere limbo e inferno, purgatorio e paradiso, la mia vita con altri altrove”...
In Calabria c’è l’inferno nella mentalità dei mafiosi e nel loro modo di vivere disperato: questa è gente infelice. Sono capaci di uccidersi tra di loro, persino di lasciare che un figlio venga ucciso. Vivono all’inferno e producono inferno: stare attorno a loro significa finirci dentro e da lì difficilmente si esce. Poi c’è un purgatorio ed è abitato da quella gente che pur non essendo direttamente coinvolta, ci collabora o li asseconda. Però lì la via d’uscita c’è, bisogna volerla cercare. E poi c’è un paradiso in Calabria: è fatto da tutta quella gente che fa fatica a non mettersi sotto, che evita le scorciatoie e si impegna per aiutare i figli a crescere lontano da questo mondo. In quella fatica lì io ci vedo il paradiso: una fatica che è frutto dell’amore per la propria libertà e per quella dei loro figli.

Quarant’anni fa è arrivato a Lamezia. Oggi è ancora qui a raccontare, ma prima di tutto a lottare. Allora le chiedo, resto in Calabria: perché?
Restare in Calabria non ha un senso se non significa restare con la Calabria. E “libertà” è la parola chiave: libertà di studiare, libertà di lavorare, libertà di restare ma anche libertà di andare. Restare “con” è importante, anche andando altrove.

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