Welfare e pace
a cura di Maria Pia Tucci, di Marianella Sclavi
24 febbraio 2022 – 24 febbraio 2023. Ucraina. Sono le 5:05, ora locale, del 24 febbraio 2022 , la popolazione Ucraina si sveglia al suono delle sirene e nel frastuono delle bombe. è la guerra che bussa prepotente alle porte dell’ Europa. Putin invade l’Ucraina. Truppe al confine e allarme dai cieli.
Un bilancio spaventoso che ci continua a consegnare immagini di distruzione ma anche di resistenza.
Dall’Italia arrivano aiuti umanitari, ma c’è pensa anche al futuro possibile, da proteggere e costruire, nasce il MEAN (Movimento Europeo di Azione nonviolenta).
Tra i fondatori c’è Marianella Sclavi, sociologa, esperta di arte di ascoltare, già docente di etnografia urbana al Politecnico di Milano.
Mentre gli altri parlano di armamenti il MEAN riprende in mano il welfare e la costruzione di ponti tra persone e istituzioni, si costruisce una rete sociale e in gruppo si viaggia da ogni parte d’Italia verso Kiew prima e verso Leopoli dopo.
Ne escono incontri con le associazioni sociali del luogo, laboratori e interlocuzioni che diventano un patrimonio di umana solidarietà e vicinanza tra persone.
A Marianella Sclavi abbiamo chiesto il suo pensiero sulla pace e la relazione che c’è, se esiste, tra il welfare e la pace e lei ci ha dato due risposte, concrete, basate su esempi vissuti.
“Cercherò di basarmi su un paio di esempi concreti.Stabiliamo per prima cosa che “pace” non vuol dire assenza di conflitto, ma assenza di violenza.
“Pace” è un concetto dinamico che corrisponde a saper trasformare le incomprensioni, i dissensi e i conflitti in occasioni per capire meglio noi stessi e il mondo. La violenza è un risultato della assenza di possibilità e/o capacità di gestire i conflitti creativamente.
Quindi se vogliamo parlare di “pace” in modo non ideologico dobbiamo prendere in considerazione specifiche e concrete situazioni conflittuali, e in particolare mettere al centro il disagio degli strati di popolazione più deboli e marginali e capire come è possibile far fonte alla mancanza di equità nella nostra società, a tutti i livelli: locale, regionale, globale.
Non c’è pace senza giustizia.
In Francia da una ventina d’anni è in atto un esperimento di prevenzione e gestione dei conflitti nei quartieri difficili che, quando viene applicato, riesce per davvero a far emergere il dialogo e la cooperazione. Questo metodo di intervento si chiama “qualification mutuelle” (QM), qualificazione reciproca, ed è stato inventato da una studiosa del malfunzionamento del Welfare di nome Suzanne Rosenberg, che poi è riuscita a praticarlo in una quantità di situazioni relative alla sanità, ai trasporti pubblici, alle assegnazioni delle abitazioni popolari, alle code per la pensione sociale, alle rivolte giovanili nelle banlieue.
Rosenberg è partita dall’ osservazione che nei quartieri di edilizia sociale “i servizi pubblici evolvono sempre più verso una spirale di scontro tra utenti che si sentono ostaggio dei servizi stessi e operatori impotenti.” Questa metafora dei servizi sociali visti come una ragnatela in cui coloro la cui qualità della vita dipende dal loro funzionamento si trovano “catturati” come dei moscerini, mi ha molto colpito.
Gli abitanti di questi quartieri – sostiene Rosenberg- sono persone intelligenti e creative, se si da loro la possibilità di praticare queste doti. E d’altra parte: “Come mai la polizia, il sistema giudiziario e gli assistenti sociali ottengono solo scarsi risultati nella prevenzione e nella punizione dei reati?”
I principi di fondo della QM sono due: primo, che una comprensione adeguata del problemi richiede la collaborazione fra tre tipi di saperi ognuno con una propria ragion d’essere: quello decisionale dei politici, quello tecnico-amministrativo e quello basato sull’esperienza concreta dei destinatari. Quando manca uno dei tre, la diagnosi e decisione si dimostreranno fallimentari. Quindi la QM opera tipicamente per mezzo di laboratori in cui i rappresentanti di queste tre categorie, che di solito non si parlano e specialmente non si ascoltano, si incontrano per dare spazio alle reciproche esperienze, esigenze, punti di vista e inventare assieme delle soluzioni innovative, di mutuo gradimento.
Il secondo principio è riassumibile nella richiesta ai dirigenti di smettere di ragionare in termini di “il regolamento non lo prevede” in favore di “il regolamento non lo proibisce”, ovvero “è lecito tutto ciò che non è proibito”.
Il salto è: da decisioni prese nelle “stanze dei bottoni” che escludono gli abitanti dei territori interessati, a decisioni prese “sul campo” in modo inclusivo.
Vediamo adesso come questo approccio può essere applicato in un altro campo, quello sulla guerra causata dalla aggressione russa in Ucraina. E’ largamente presente nella opinione pubblica l’idea che al posto della difesa armata, gli ucraini e gli stati europei dovrebbero “ricorrere al negoziato”. Chi dice questo si dimentica di sottolineare la differenza fra “negoziato nelle stanze dei bottoni” e “negoziato sul campo”.
Basterebbe andare a leggere il Protocollo di Minsk del 2014 (Minsk 1, firmato da l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa -OSCE , da Russia e Ucrania e rappresentanti del Donbass) per rendersi conto che su quel documento c’è tutto cià che sarebbe astrattamente necessario per il cessate il fuoco e la ricostruzione del tessuto sociale. Ma le forze in campo hanno continuato a spararsi come e più di prima.
Mancava in quell’accordo la dichiarazione che era necessaria una forza terza di interposizione in grado di farlo rispettare. Cosa fanno invece i poteri forti ?
Elaborano un altro documento, un nuovo Protocollo, Minsk 2 del 2015, (sottoscritto anche da Francia e Germania con la benedizione della Cina) che aggiunge sulla carta altre disposizioni per la cessazione dei combattimenti ecc.
Uno dei risultati reali è che la Fed Russa ne ha dedotto che l’Europa non facesse sul serio e che l’Ucraina potesse essere ingoiata in un sol boccone.
Allora piuttosto che chiedere un Minsk 3 sarebbe forse il caso che l’Europa si doti una autentica forza terza, non bloccabile dai veti dei singoli stati, come succede all’Onu, capace lei di bloccare le violenze e aprire la strada al coinvolgimento della popolazione locale nella progettazione di un futuro di pacifica e fruttuosa convivenza.
Entrambi questi esempi illustrano che molto spesso il cambiamento necessario nel modo di ragionare e di governare non riguarda solo le stanze del potere, ma anche di chi le contesta.
Le foto sono di Luca Daniele, fonte: https://www.facebook.com/meanprogetto/