Abitare e partecipare la città
di Giacomo Panizza
Abitare la città è più che abitare una casa
Come sta una città di quarant’anni? Sorvolando sugli aspetti celebrativi del quarantennale di Lamezia Terme, riteniamo indispensabile fare il punto sulla città, sulle sue trasformazioni, sui soggetti forti e deboli che vi dimorano, sulla solidità dei suoi valori tradizionali, sulle sue consuetudini e su quanto i cittadini e le cittadine ne siano consapevoli.
La Diocesi e questo suo giornale invitano gli uomini e le donne “di buona volontà” a misurarsi nello sforzo comune di ripensare alcuni eventi significativi del passato e a suscitare prefigurazioni illuminanti il futuro scenario cittadino; uno scenario che si scorge offuscato da molteplici cause quali le incertezze economiche, sociali e politiche che stressano la serenità della vita e mettono a rischio l’esercizio della democrazia; uno scenario che si paventa eccessivamente vulnerabile a motivo della fragile coesione sociale e del frequente scollegamento tra generazioni e culture e valori.
In questo frangente storico consideriamo importante che Lamezia Terme non abbassi oltremodo la guardia su sé stessa, sulla riflessione e il dibattito – che anche infervorato va bene -, sulla sua storia e su dove vuole andare, sul riscoprire i suoi punti forti quali ad esempio la cultura e il protagonismo delle persone e delle formazioni sociali, e anche i suoi punti deboli tra cui l’opprimente presenza della ’ndrangheta e le difficoltà di lanciare adeguatamente l’economia locale. Insomma, pensiamo che sia ormai imprescindibile per i cittadini tenere in conto la propria città, affinché essa divenga più che nel passato riflessiva e costruttiva, e più a dimensione umana per tutti.
Ciascuno di noi sa che un mucchio di mattoni non fanno una casa, similmente però non sempre immaginiamo che anche un mucchio di case non fanno una città. Le quasi trentamila abitazioni con le oltre centomila stanze censite di Lamezia Terme non la istituiscono né la rappresentano in quanto città. Abitare una casa, dimorarvi da soli o con qualcuno è un’esigenza umana intima e significativa, eppure abitare una città è diverso, è un’altra cosa, è di più: abitare la città chiama in causa la dimensione relazionale e comunitaria delle persone, non le inquadra nella categoria ristretta di individuo ma le colloca in quella più ampia di politico.
Evoluzioni e involuzioni nella storia e nella mente
Che voglia di città riscontriamo in Lamezia Terme a quarant’anni dalla sua istituzione? Somiglia a un’aspirazione individualistica di singoli cittadini che reputano le strutture, le istituzioni e i servizi come beni a loro disposizione, oppure rassomiglia a una comunità di persone che nel loro-stare-insieme sono convinte di essere esse stesse la vera risorsa della città?
«Nel 1968 dall’unione dei tre comuni di Nicastro, Sambiase e S. Eufemia nasceva Lamezia Terme. Era il periodo in cui i nuovi meridionalisti sostenevano che la questione meridionale fosse soprattutto una questione di urbanizzazione, cioè un divario tra un’Italia (quella del centro-nord) diffusamente urbanizzata e un’altra Italia (quella del sud) ancora quasi interamente rurale». Le città attrezzate, la quantità di abitazioni e di opportunità, i “poli” territoriali e delle infrastrutture venivano considerati come leve del progresso e dello sviluppo.
Da tre comuni a uno, Nicastro, Sambiase e S. Eufemia si sono mossi su quest’onda sia per svilupparsi che per ambire ad una centralità regionale. «I prerequisiti sembravano esserci tutti. In primo luogo quelli geografici. Lamezia era (e continua ad essere) il centro fisico di quell’ameba territoriale stramba che è la Calabria. Un centro più tirrenico che jonico, anche se solo un sottilissimo Istmo divide i due mari. La giacitura in pianura, in una regione dominata dalle colline e dalle montagne impervie, permetteva facilità di scambi, fluidità delle comunicazioni, fertilità dei terreni. La presenza del mare e di una lunghissima spiaggia offriva a quel tempo formidabili occasioni di sviluppo delle economie balneari. Lamezia, inoltre, si andava vieppiù configurando come il centro infrastrutturale eccellente. Autostrada, stazione ferroviaria, aeroporto: tre nodi infrastrutturali apparentemente del tutto normali, ma decisamente straordinari se concentrati in un unico punto di una regione storicamente alle prese con un deficit strutturale di reti di comunicazioni».
Quei prerequisiti si convertirono in desideri di evoluzione e di assunzione di importanza strategica regionale per la città, ed ebbero la capacità di mettere in moto industriosità locali e forestiere, crescita edilizia seppur sregolata, organizzazioni di base e sindacali per accompagnare insorgenti sensibilità culturali e tutelare prevedibili occasioni occupazionali. Ma ora, trascorsi quattro decenni, sappiamo che l’energia di quel movimento stimolatore di giuste attese e di grandiose speranze si è svigorita, e nella mente dei lametini il termometro delle prospettive di sviluppo e rinnovamento della città e del suo comprensorio sta segnando il punto più basso, il punto più freddo.
Il dialogo che può unire e guarire una città
Qualsiasi città di quarant’anni è indubbiamente giovane, anzi giovanissima. Le narrazioni di fondazione, tranne rari ed eccezionali episodi, le mostrano rette da un capo carismatico e talvolta persino con ascendenze divine, il quale sancisce e conferma con azioni giuridiche e rituali la fondazione della città in cui il popolo esprime medesime credenze e aspirazioni unitarie.
Lamezia Terme ha percorso un’altra strada unificando tre comuni preesistenti, democratici e differenti, per cui diviene compito fondamentale per gli ex Nicastro, Sambiase e S. Eufemia non solo conservare la peculiare storia del loro passato ma partecipare a creare quella nuova, comunitaria. In gioco allora non c’è soltanto una storia individuale ma un futuro e una cultura comune, non ci sono solo le tradizioni singolari da trattenere per sé ma anche le loro radici da espandere e intrecciare con altre sul territorio e sull’avvenire.
Si decise di fare Lamezia Terme prima dei lametini scommettendo coraggiosamente sulla storia in avanti, sulla cultura ancora da produrre più che su quella prodotta, sull’identità cittadina futura e non solo sull’identità paesana del passato, immaginando che le culture locali di partenza fossero identità aperte, collaborative, disposte a ridistribuire sul modificato territorio modalità eque e giuste, intenzionate a coltivare stili fraterni e non di antagonismo o di ostilità. È facile concordare sul concetto che l’unificazione non deve tramutarsi in una strisciante “nicastrizzazione”; più difficile è concordare le modalità concrete di rinforzare le disponibilità reciproche dei secolari territori a sentirsi tra di loro interdipendenti.
Oggi ci domandiamo a che punto siamo. Per realizzare la città possibile dovremmo riconsiderare quali siano i pezzi mancanti a Lamezia Terme senza i quali non possiamo assegnarle dignità storica di città; e se sia ancora accettabile pensare di fare Lamezia senza i lametini. Dove sono svanite le convinzioni fondamentali dei promotori dell’unificazione? A sostenerle in questi quarant’anni non c’erano partiti popolari, sindacati, associazioni civili e movimenti culturali e religiosi? L’economia locale, tanto gratificata dal denaro pubblico proprio a causa dell’unificazione, aveva soggetti a prendere o a produrre? Dovremmo davvero discuterne a fondo, consapevoli che solo il dialogo tra soggetti e visioni differenti potrà unire e guarire la nostra città troppe volte ferita non solo dalla ’ndrangheta ma talvolta anche dall’incuria di parte dei cittadini e delle stesse istituzioni.
Ciò che è in atto a Lamezia Terme stimola a mettere tra i primi punti della discussione il termine “comune”. Che cosa significa? Comune in latino riporta cum moenia, un significato difensivo, evidenzia una comunità e un raggruppamento di case che si recingono con un muro protettivo: le mura di cinta (moenia). Ma comune in latino riporta anche cum munus, termine che viceversa ispira dimensioni relazionali di gratuità, rapporti amicali e di reciprocità, comunità di persone socialmente legate e coese poiché sussiste tra di loro uno scambio di cose di molto valore eppur regalate: i doni (munus). Che ve ne pare: la città non avrebbe bisogno di assumere per sé e il suo futuro proprio questa seconda metafora?