Beni che insegnano, simboli che parlano
Beni che insegnano,
simboli
oltre la confisca
Giacomo Panizza (Articolo pubblicato su Italia Caritas marzo 2012, pp. 16-18)
Beni economici, pubblici e simbolici
I beni confiscati alla criminalità organizzata di stampo mafioso sono beni economici, ma nelle regioni del Sud Italia sono intesi come beni simbolici. E il motivo si capisce. Parlano. Vivacizzati da iniziative culturali, trasmettono un’aria di libertà, mentre prima comunicavano la rigida forma mentis impositiva dei boss. Utilizzati dalla gente, diffondono semi di democrazia, mentre prima diffondevano il potere smisurato dei clan. Offrendo lavoro sociale e produttivo, divulgano giustizia, mentre prima quei terreni e quei fabbricati dominavano come strumenti d’iniquità.
È importante che le proprietà dapprima esibite dalle mafie come beni “posizionali” (attraverso i quali ostentare potenza e prepotenza), una volta confiscate vengano riutilizzate in maniera diversa, soprattutto come beni “relazionali”. Per gli abitanti delle regioni del sud, la loro rilevanza simbolica ha una presa maggiore di quella economica, e credo che ciò valga anche al centro e al nord. I beni confiscati ben si rappresentano come beni relazionali, idonei a mettere in rapporto e in collaborazione persone e gruppi, enti e istituzioni. Non sono proprietà di classe o ceto sociale, non suscitano invidia tra individui, non sono beni oppositivi. Hanno destinazione generale.
Così, a mio avviso, andrebbero considerati, perché così essi parlano e insegnano. Case, capannoni e terreni, con le innumerevoli iniziative che vanno svolgendo, sono essi stessi i contenuti d’insegnamento, il materiale didattico, esempio parlante educativo nel momento in cui mostrano in concreto storie di partecipazione, democrazia, economia civile, invece che incivile.
Il via vai della popolazione del luogo, le visite scolastiche e delle associazioni educative, il confronto con gruppi di impegno sociale e politico, portano i gestori dei beni confiscati a “dare parola” a questi beni, rendendoli “ancora più pubblici”, nel senso di più ascoltati. Per esperienza diretta, posso affermare che i “visitatori” si portano a casa insegnamenti forti, molto utili alla crescita umana, civile e culturale.
I beni confiscati, e così significativamente utilizzati, insegnano che le persone e la società, e non soltanto la magistratura e le forze dell’ordine, promuovono la legalità e combattono le mafie. Anche i beni di lieve entità economica, come un campetto di calcio o un piccolo terreno coltivato a fiori o verdure, oppure una sala in cui fare musica o un ufficio per la tutela dei diritti, in un territorio di mafia possono diventare messaggi potenti di riscatto e promozione della libertà e della democrazia. Questi beni così trasformati educano a vivere a testa alta i loro gestori, i fruitori e anche i sostenitori delle iniziative, che in essi e attraverso essi si svolgono. Sono i basilari costruttori di un’effettiva cultura della legalità.
Leggi più avanti della cultura sociale
La “forma” della legge 109/1996 (“Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”) destina questi beni a un uso “pubblico”. Vi sono buone ragioni per sostenere che lo “spirito” della legge intenda quei beni a dimensione altamente “relazionale”. Dunque, pare ragionevole considerarli come beni a ricaduta collettiva, non soltanto come beni-case da gestire al pari di semplici servizi alla persona, o beni-terreni da far fruttare al pari di attività meramente economiche.
Nelle “Disposizioni contro la mafia” previste nella precedente legge 575 del 1965, sequestro e confisca di beni erano stati pensati come delimitate misure di prevenzione patrimoniale, finalizzate a impoverire economicamente le persone e le cosche mafiose; invece, la vigente legge 109 enfatizza la riconsegna del maltolto alla collettività, sottolineando il concetto di restituzione alla società considerata nel suo insieme. Dunque, non si tratta soltanto di sottrarre ai clan mafiosi gli strumenti economici da essi utilizzabili per ricostruire o mantenere il controllo del territorio e per lo svolgimento delle loro attività delittuose; piuttosto, si tratta di fornire la società di strumenti concreti di socializzazione, di poter fruire al meglio di beni ora diventati pubblici. A mio avviso, in questo caso, la cultura legale è risultata più illuminata della cultura reale, dimostratasi impreparata a concretizzare l’uso sociale dei beni confiscati.
Vi sono aspetti valoriali, e altri più tecnici, che sollecitano a valorizzare le iniziative di educazione alla legalità e alla cittadinanza, ben introdotte nelle scuole italiane ma ancora poco diffuse negli altri ambiti della vita civile, in cui permangono misconosciuti scopi sociali e procedimenti riguardanti l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. La cornice valoriale connessa allo spirito della legge 109 sottende che la gestione dei beni confiscati non deve più risultare un dovere del solo stato, ma anche di comuni e società: in definitiva, la legge auspica la partecipazione di tutti e di ciascuno, anche attraverso le formazioni sociali di appartenenza, al fine di fare sistema contro le mafie e per una società corresponsabile nella gestione dei beni pubblici.
Costano, ma educano
Quanto alla macchina prevista per il corretto funzionamento dei beni confiscati, non sempre è un congegno ben oleato. Certo, sono tollerabili certe lungaggini burocratiche che intercorrono tra le varie fasi del percorso di sequestro, confisca, assegnazione, programmazione e utilizzo del bene confiscato, ma non esistono scusanti per la vasta inefficienza riscontrabile in non pochi comuni d’Italia. A me pare che le criticità maggiori siano addebitabili agli enti locali assegnatari dei beni, più che agli enti del terzo settore richiedenti.
Al riguardo, non è secondario sottolineare che un ente del terzo settore, associazione di volontariato o cooperativa o altro, deve mettere in conto che la gestione di un bene confiscato porta quasi sempre a rimetterci economicamente. La struttura assegnata troppe volte è incompleta, non sempre provvista di inventario e di note sullo stato dell’arte dell’immobile; nella quasi totalità dei casi non funzionano luce, acqua, riscaldamento, tantomeno gli impianti rispettano le leggi vigenti; le barriere architettoniche sono eliminabili a costi esorbitanti; non è detto che gli edifici risultino al catasto e in regola con l’agibilità. E così via. Capita anche di non trovare il bene libero da persone e cose. Ma quando beni confiscati vengono lasciati nel degrado, o quando passandoci accanto si notano stesi sui balconi ad asciugare i panni dei vecchi proprietari, o quando risultano destinati ma permangono inutilizzati, quei beni finiscono per insegnare che i mafiosi sono forti e la società e lo Stato sono deboli.
Bene di una popolazione
Una palazzina confiscata educa alla socialità e alla democrazia quando genera relazioni interpersonali, promuove senso civico, sostiene comunità solidali. È troppo poco che i gestori vi svolgano attività d’intervento sociale riducibili, ad esempio, a un mero servizio rivolto a persone con disabilità, o a minorenni in difficoltà, eccetera. È poco che operi come bene di servizio. Non è solo col cambio di proprietà, dalla mafia allo stato, che un bene confiscato si caratterizza come un compiuto bene pubblico, ma piuttosto attraverso le attività che svolge nel territorio, quando incrementa relazioni di comunità, quando impegna il contesto locale ad adottarlo come bene di una popolazione e delle sue istituzioni. La valorizzazione collettiva di un bene confiscato si realizza promuovendo gli interessi condivisi di una “comunità di destino”, la quale aspira, come traguardo minimo, a emanciparsi e liberarsi dalle mafie.
Allo stato attuale delle cose, in cui riscontriamo la positività delle attività formative svolte nel trascorso periodo pionieristico, diventa decisivo innalzarne la qualità e ampliarne la diffusione. È l’ora di una formazione capace di accompagnare enti locali, terzo settore e società a fare in modo che i beni confiscati alle mafie diventino sempre di più beni di tutti.