I rischi e le sfide. Politiche sociali e ruolo del terzo settore

di Giacomo Panizza
Mi fa molto piacere essere presente al trentennale del “Gruppo Solidarietà”. Fabio Ragaini mi ha invitato, tra gli altri, chiedendomi di raccontare un pezzo di storia del terzo settore per come mi è capitato di viverla in alcune sue varie trasformazioni, tenendo presente la sua rilevanza sociale e alcune sfide future rappresentate dalla storia – come il dato di essere in un’Italia di 150 anni passata da Regno di sudditi a Repubblica di cittadini e cittadine -, dalla cultura – come ci ha descritto Roberto Mancini -, e dalla politica – specialmente quella irrinunciabile puntualizzata da Tiziano Vecchiato -.
Nel mio parlare, userò un certo linguaggio ed esprimerò dei punti di vista provenienti da esperienze sociali vissute. Sono parziali modi di leggere e interpretare; eppure, chi fa volontariato o comunque è impegnato nel terzo settore, deve necessariamente passare attraverso l’agire, pensarlo e ripensarlo. Sa che deve dire la sua, come sa di dover ascoltare le ragioni di altri, conoscitori di altri settori. Il contatto con persone, famiglie, comunità locali e istituzioni, ci porta a vivere esperienze spesso gratificanti, “calde”, attraenti e coinvolgenti; altre volte faticose, contraddittorie e conflittuali: e per tutto questo, quando serve, ci facciamo aiutare da altri che studiano certe discipline umanistiche, sociali, economiche, organizzative o, come oggi con Mancini, ci mettiamo in ascolto della filosofia, o anche della spiritualità. Avendo a cuore di “far bene il bene”, ci facciamo aiutare volentieri.

Il gruppo che fa comunità: ieri spontaneo, oggi e domani una sfida
Come mai vi siete denominati “Gruppo Solidarietà”? Trent’anni fa, “gruppo” e “solidarietà” erano termini palesemente contrari a “istituto” e a “emarginazione”, e allo stesso tempo sottolineavano qualcosa cui si aspirava. Gruppo è indicativo di quel periodo. Connotava leggerezza e apertura, aspetti relazionali ed esistenziali. Dice di un’organizzazione leggera, nella quale suddividere compiti a turno, intercambiabili. Invita a condividere i saperi e le pratiche. Mette insieme persone differenti con interessi diversi. La parola gruppo ci portava a questi aspetti, a condividere alcuni scopi, e a narrarci: quante storie ci siamo raccontati in gruppo, quelle di chi veniva ad aiutare e di chi veniva a chiedere aiuto. E ci illuminavamo: al posto dei libri a quei tempi c’erano tantissimi di questi racconti.
Ogni gruppo fa “potere” nei territori, fa capitale sociale, soggettualità… e fa anche fare qualche nemico nella geografia dei poteri locali. Tante di queste cose, io le ho capite vivendole ma anche riflettendoci e facendomi aiutare da chi ci studia sopra.
Mi sono dilungato sul termine “gruppo” perché a distanza di trent’anni nel linguaggio del terzo settore si sono introdotti i termini “servizi”, “associazione”, “cooperativa”, “fondazione”, “ente”, “impresa sociale” e altri ancora, come “manager”, con significati più specializzati. Il che va bene, ma ritengo che il terzo settore non debba tralasciare i significati sociali, relazionali ed esistenziali dell’essere e fare gruppo. Mi permetto di sottolineare che nel terzo settore si rischia di perdere la dimensione del “gruppo”, appiattendosi su quella di “organizzazione”. Entrambe sono importanti, ma oggi nella società si vanno indebolendo le relazioni, la condivisione di scopi comuni, la valorizzazione di ciascuna e tutte le persone, la fidelizzazione ad appartenenze aperte, il radicamento sociale; mentre invece li vanno riscoprendo le intelligenti organizzazioni economiche.

Ciò che oggi denominiamo “terzo settore” ha avuto un imprinting
Che cosa stava accadendo a metà anni ’70 nel campo socio assistenziale? Accanto agli interventi concentrati sostanzialmente negli istituti di ricovero, si andavano diffondendo capillari iniziative “leggere”, di piccole dimensioni e con buone intuizioni valoriali ma deboli nei saperi professionali e nell’offrire garanzie di continuità. Iniziative al 90% di ispirazione ecclesiale. Io ho vissuto da dentro quel momento “magico”, l’ideatore del quale fu monsignor Giovanni Nervo, a nome della Caritas italiana. Cosa proponeva? Giovanni Nervo propose di sdoganare questi soggetti che svolgevano assistenza sociale, perché ormai stavano stretti nella chiesa e alla chiesa. Certamente la chiesa rimaneva presente, vicina, ma si riteneva importante fare in modo che queste realtà costituissero autonome soggettualità giuridiche, e autonomi movimenti civili.
Ci siamo indaffarati a creare questa novità. Abbiamo un po’ bisticciato sul nome dea dare a questo “mondo” che già si presentava come arcipelago: la parola “volontariato” suscitava perplessità perché – vi rendete conto – in quegli anni il volontario era colui che firmava per la leva militare. In tempi di guerra fredda tra la Russia e l’America, le quali mettevano basi missilistiche un po’ dappertutto, parecchi di noi facevamo fatica a digerire questa parola, ma alla fine l’abbiamo assunta per il motivo che si portava dietro l’idea di impegno volontario per la giustizia sociale e la solidarietà, riscontrabile nel cristianesimo, nelle ideologie socialiste, nella cultura anarchica e dal volontarismo etico.
L’imprinting è rintracciabile nelle mille facce della solidarietà che si andava esprimendo in molteplici modalità. Erano modi di organizzarsi con radici lontane nella storia italiana. Dopo secoli di cristallizzazione nelle forme di enti e di congregazioni religiose, in un breve periodo essi si sono articolati in quello che chiamiamo il “terzo settore”. Solo talune componenti politiche e sindacali ci criticavano, sostenendo che ciò che andavamo facendo come “privati” doveva piuttosto trovare la sua collocazione nel welfare statuale. Lo stato infatti, con a capo un partito di cattolici, non dava cenno di voler istituire il sistema di welfare di cui c’era bisogno, ma la contropartita di ciò che i nostri critici ci chiedevano era di lasciare a se stessi i bisognosi i poveri e gli emarginati che incontravamo, al fine di far scoppiare il bubbone politico. Noi abbiamo preferito scommettere sul farsi carico di alcune persone e categorie bisognose e parallelamente premere sui vari governi nazionali succeduti e su istituzioni regionali proponendo di legiferare in materia di welfare. Tiziano Vecchiato può garantire dei vari tentativi agiti in più tappe, fino al varo della 328 del 2000.
Inoltre, andavamo in giro a spiegare a persone-gruppi-enti “di chiesa” che essi erano persone-gruppi-enti “civili”, chiamati a responsabilità storiche e sociali e non solo ecclesiali, e che il paese aveva bisogno di più cittadini solidali che di un nucleo di cristiani benefattori. Considerando la genesi di questo pezzo di storia, propongo che quest’assemblea incarichi Tiziano Vecchiato, perché della Fondazione Zancan, di portare a don Giovanni un grande grazie a nome di tutti noi.
Quel movimento di sperimentatori si è collegato, e si è confrontato sui temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale, della solidarietà nelle sue dimensioni umane e sociali, economiche e istituzionali, sul fare bene il bene dotandosi di competenze e strumenti adeguati ad aiutare e accompagnare chi ne avesse bisogno. Ha preso parola e, da raggruppamento di privati benefattori, si è trasformato in volontariato prima e in terzo settore poi.
Questa riprogettazione dei gruppi sociali ha giuridicamente e concettualmente aiutato a separare dalla chiesa istituzionale una miriade di iniziative da essa e con essa promosse; ha anche liberato l’autonomia dei gruppi di impegno sociale, fino a venire considerati nell’articolo 118 della costituzione rinnovellata; ha stabilito le premesse per varie leggi regolatrici degli interventi promossi dal basso della società. Ma la realtà sociale s’è dimostrata più grande e complessa di quella che allora avevamo inteso fronteggiare con il volontariato. L’Italia non è un paese per volontari. Ancora oggi, risultano scoperte vaste problematiche sociali, non inquadrabili nel volontariato ma solo in un idoneo sistema di solidarietà pubblica di welfare.

Lo stato sceglie di abbandonare il sociale, e il sociale organizza risposte
Ce ne siamo accorti subito. In seguito all’approvazione del DPR 616 dell’estate 1977, abbiamo percepito che gli amministratori degli enti locali, seppur incaricati con decreto, non davano segno di volersi assumere i compiti degli enti disciolti. Avrebbero aperto spazi a enti di diversa natura: privati lucrativi? di beneficenza? di che tipo?
Simili interrogativi serpeggiavano nei raggruppamenti dei volontariati. Abbiamo dovuto interrogarci per decidere il da farsi, che comportava la certezza più che il rischio di trasformare parecchi nostri gruppi in enti di servizio per la gestione di servizi territoriali: realtà che richiedevano di andare oltre il volontariato, che in definitiva esigevano la gestione di servizi stabili, con garanzie di personale a tempo pieno, con sostegno economico adeguato al mantenimento di strutture e alla continuità educativa, terapeutica, riabilitativa eccetera. Ad esempio, il Cnca – coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza – si è costituito storicamente durante questa fase, collegando tra loro realtà già esistenti alle quali di fatto andava stretto l’essere gruppo di volontariato – senza ancora una legge – , poiché la gestione di case e comunità di accoglienza richiedeva organizzazioni stabili dotate di forme giuridiche e contrattuali che esulavano dal volontariato in generale.
Queste modificazioni legislative delle responsabilità degli enti locali territoriali e di articolazioni dei gruppi, hanno spianato la strada all’accrescimento numerico e tipologico del terzo settore, per cui man mano vennero varate delle leggi che altro non fecero che riconoscere le attività e i servizi che il nostro mondo sociale aveva già inventato e messo in campo per l’animazione sociale, i minori, l’handicap, le dipendenze, e così via.
Questa fase, al di là dei vari compromessi tra partiti politici e raggruppamenti sociali loro cinghie di trasmissione, a mio avviso ha prodotto leggi sostanzialmente buone per l’operatività del terzo settore. Meno buone per la garanzia dei diritti delle persone bisognose e vulnerabili. Infatti il rischio, tutt’ora persistente, consiste nel pensiero diffuso che i servizi sociali sono migliori se a gestirli è il terzo settore e non il comune o la provincia o la regione o loro strumenti operativi come le aziende sanitarie.
Altro rischio è la scarsa conoscenza delle politiche sociali, per cui ancora troppa gente si riferisce a ciascun singolo servizio come se fosse una realtà compiuta in se stessa e non come parte di un complesso di servizi e professioni sociali messi a sistema. È invalso questo modo riduttivo e distorto di concepire le “risposte” sociali, anche in vari soggetti del terzo settore, per cui – specie in tempi di crisi e di tagli – ognuno di essi bada a se stesso, operando in maniera che venga finanziato “quel” particolare servizio, ostacolando l’idea di costruire sui territori un valido sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Tre soglie con protagonismo e ambiguità
Della storia del volontariato, trasformato e ricomposto nel terzo settore, sottolineo tre passaggi, tre soglie storiche in cui è stato protagonista di sfide e di rischi.
Considero il triennio 1975-78 come la prima soglia. In questo frangente di protagonismo sperimentatore, si è coagulato il movimento del volontariato, il quale si è autocompreso e autoproposto; ha dichiarato e imposto la sua soggettualità nel panorama culturale e sociale, politico e perfino istituzionale; si è dato il nome, ha intravisto dei percorsi e li ha sperimentati direttamente. Qui stavamo in sintonia con le nuove leggi nazionali che traspiravano sicurezza sociale e diritti per tutti: il DPR 616/77 per la soppressione degli enti inutili e il decentramento di tante materie ai territori, le riforme della psichiatria, della sanità, del carcere, della scuola, e altre ancora, un po’ tutte caratterizzate – rispetto al passato – da un maggior coinvolgimento, oltre che degli addetti ai lavori, dei soggetti sociali nella prevenzione e nella partecipazione alla soluzione delle problematiche sociali.
Una seconda soglia la situerei a cavallo del 1990, di quest’altra corposa stagione di leggi sociali, puntate a riconoscere e rafforzare ma anche a “utilizzare” il terzo settore: la 266 sui rapporti tra il volontariato e le istituzioni, la 381 sulle cooperative sociali, la 104 sull’handicap, la 285 sui minori, la 162 sulle tossicodipendenze, la 135 sull’Aids, e così via. Qui, non poche associazioni di volontariato e cooperative sociali, svolgono attività sociali da cosiddetti “utili idioti”, fornendo alibi a enti locali latitanti. Numerosi volontari e volontarie “si lasciano” strumentalizzare nelle cooperative sociali e nella gestione al ribasso di servizi sociali. Complessivamente il terzo settore indebolisce il welfare, mettendo le pezze rinuncia a portare avanti una strategia per costruire i primi passi di una necessaria riforma dell’assistenza in Italia, senza pudore delega la riflessione sulle sue esperienze a enti esterni e con esso benevoli, come la Fivol.
La terza soglia la porrei nel 2000, nella promulgazione della legge 328. Qui – dato per scontato il ruolo del terzo settore nella gestione dei servizi e nella partecipazione alla costruzione del sistema integrato del welfare territoriale – scatta opportunamente la regolazione dei servizi messi in campo: dall’accreditamento alle rette, dalla programmazione alla valutazione, dai pagamenti alle penalità. La nota positiva della 328 nei confronti del terzo settore riguarda senz’altro la partecipazione ai tavoli dei piani di zona. Io non so come sia andata da voi nelle Marche, ma in Calabria ho potuto vedere cordate del terzo settore imporre ai tavoli la lista dei bisogni territoriali, bisogni che non erano altro che quelli dei quali essi stessi detengono i servizi. Conflitti d’interessi palesi. Quali cambiamenti si apporteranno alla cultura, alla politica, al bene comune, ai sistemi di potere?
Nel periodo in cui pare tramontata la stagione delle grandi associazioni quali cinghia di trasmissione dei partiti politici che le foraggiavano in cambio di voti, esistono dei rischi e delle sfide che interrogano esclusivamente il terzo settore.
Pensiamoci: com’è possibile che non si facciano battaglie sulle cose che abbiamo sentito qui stamattina, ma si mettono tutte le energie sul recuperare il 5per1000 nella finanziaria? É possibile che non si accndano conflitti nei territori, nelle regioni, a scala nazionale? Soltanto due o tre volte il nostro mondo si è radunato in piazza a Roma per dire che “la solidarietà non è un optional”, e manifestando per qualche taglio a qualche finanziaria. Anche le proposte alternative che si elaborano insieme a “Sbilanciamoci!”, diventano battaglie scaricate sui rappresentanti nazionali, delegati a contrattare con governi e ministeri punti su cui nemmeno tra loro sono uniti!
E qui abbiamo un rischio nel rischio: rappresentato dai non pochi leader del terzo settore, che agiscono la loro leadership a somma zero, prime donne rincorrenti le telecamere e le candidature politiche, conosciutissimi, i quali convogliano la mole di energie dei gruppi su se stessi e non sul benessere sociale, sulla carriera personale e non sulla crescita del gruppo, sul capo e non sui ricambi di leadership e di ruoli, sul “pater” e non sull’autonomia delle persone in carico, che infantilizza chiamandoli “i miei ragazzi”.
Un altro grosso rischio l’ha espresso Tiziano Vecchiato. Abbiamo un paese colabrodo. Io ho qui appuntato “un’Italia a pezze colorate”, cioè con politiche sociali disuguali. Ad esempio, la Calabria per i servizi sociali stanzia 27 euro annui pro capite: sette, dieci, venti volte meno dell’una o l’altra o quell’altra regione, e di conseguenza non ha il numero di operatori sociali e neppure di servizi come le altre. Che faremo con la sfida del federalismo, se non decolleremo dalla stessa linea di partenza? Il federalismo rimane una bella sfida, rimane che devo farci i conti, che non posso accontentarmi di sostenere che la Calabria faccia di tutto per ottenere i soldi della perequazione, ma anche pretendere e fare in modo che la Calabria impari a spendere correttamente i soldi di cui già dispone.

Alla riscoperta di valori e di strumenti nei rischi e nelle sfide del terzo settore
Gli strumenti di supporto al terzo settore e alle sue componenti e articolazioni, di cui ci siamo dotati in quest’ultimo decennio, rappresentano una sfida e un rischio da assumere con intelligenza e saggezza storica, perché a me paiono fragili economicamente e democraticamente, e ambivalenti se non addirittura ambigui. Mi riferisco ai convegni e alle conferenze del volontariato, che troppo spesso sono sul volontariato. Sto parlando anche del Forum nazionale del terzo settore, con al suo interno una spinosa questione di potere e di rappresentanza tra i componenti. Così anche i Centri di servizio del volontariato, vere sfide ai gruppi di volontariato, perché li utilizzino meglio come loro strumenti e non come loro suggeritori o rappresentanti. Parlo anche della Fondazione per il Sud, dei criteri coi quali sceglie sia i progetti che i territori da sostenere, con una’autonomia al di sopra di tutti e tutto, facendo così la “sua” e non una generale politica sociale. Parlo dell’autonomia acritica e della pletora dei destinatari del 5×1000, di cui ho già detto. Ecco, questi strumenti presentano aspetti positivi e altri di ambiguità di cui è importante per il terzo settore esserne consapevoli.
Dal nugolo dei valori emergenti dall’esperienza del volontariato prima e del terzo settore poi, ci possono essere principi da riscoprire e conservare anche per il futuro prossimo, perché validi e forse persino irrinunciabili?
Conosciamo quelli che sono ritenuti “i valori del volontariato”, la gratuità, la solidarietà, la qualità delle relazioni con l’altro, la sussidiarietà, la responsabilità, la cittadinanza, il suo ruolo politico, la sua funzione culturale. E i suoi atteggiamenti e ruoli, la sua presenza preziosa, la sua la sua la sua. Ecco, credo che siano tutti aspetti grandiosi e preziosi, in certa misura validi anche per il resto del terzo settore. Però oggi vorrei ricordare che alla base di questi valori non dovremmo porre il volontariato e il terzo settore, ma le persone tutte, specialmente quelle che hanno bisogno del volontariato e del terzo settore e inoltre della società e delle istituzioni, per poter ritornare “persone” compiutamente di eguale rispetto alle altre.
La rilevanza, il “peso” incommensurabile della dignità umana di ciascuno e di tutti, è il fondamento del nostro e altrui impegno. Nessuna persona è di Serie B. L’abbaglio maggiore che noi corriamo è quello di passare sopra alla dignità umana di chi viene aiutato, e anche di chi aiuta. Quando operiamo con la tratta, con la prostituzione, con il fine vita, ovunque con chiunque è dipendente dalle nostre cure, ci ricordiamo che stiamo operando sull’alto livello della dignità umana?

La sfida della complementarietà tra differenti diritti
In questi giorni i giornali ci martellano col dibattito sull’irrinunciabilità dei diritti politici, sull’ingiustizia di escludere alcune liste del Lazio e della Lombardia dalli competizione elettorale di quelle regioni. Dicono che “non è lecito non far votare il popolo” perché verrebbe privato del suo diritto di voto. Ma certo! Però nemmeno si può continuare a rischiare di morire in ospedale come avviene in Calabria, non si può esser privati di relazioni umane come capita in più parti d’Italia, non si può venire imbottiti di farmaci, non avere servizi, vivere in ghetti, dover viaggiare mille chilometri per una diagnosi, dover abbandonare genitori casa amici per sottoporsi a un programma di riabilitazione un’ora al giorno per la durata di vent’anni o per tutta la vita! Sapete perché io sono in Calabria? Perché negli anni ’70 un gruppo di calabresi con disabilità e in carrozzella aveva chiesto di ricoverarsi alla Comunità di Capodarco di Fermo per poter fare fisioterapia e, opportunamente, invece che spostare tutti quanti loro, in accordo la comunità ha spostato me.
Cito questi esempi per sostenere che anche i diritti sociali son irrinunciabili, che hanno parità cogli altri diritti, e non sono da meno. Sono equivalenti. Non si può dar retta a chi a maggioranza numerica pretende – e spesso ci riesce – di tagliare sulle spese sociali dei cittadini più poveri di lui. La sfida per il terzo settore diventa anche quella di rendere più sociale la politica; e anche di travasare socialità nell’economia di mercato.
La scommessa futura del terzo settore certo non verterà su aspetti di natura tecnica, pur importanti, ma sarà piuttosto quella di volare alto, di esprimere consapevolezza e eticità di gruppi che socializzano il territorio. Io sono nato a Brescia e mi rendo conto che socializzare il territorio a Brescia è differente che a Lamezia Terme, dove c’è la ’ndrangheta, un non-stato che socializza a modo suo zona per zona, violenza su violenza.
Comunque e ovunque, sarà importante il modo di porsi come gruppi, oltre che come enti e servizi. Anche al tempo di internet. Gruppi per l’utilità pubblica, specialmente per persone e categorie fragili e vulnerabili. Gruppi di persone persuase della dignità e dei diritti umani di tutti, anche del “diritto di dare” agito non solo dal volontario ma anche dalla persona con disabilità, o sofferente mentale, o dipendente da sostanze, o povera in canna, o immigrata. Costoro non devono solo ricevere ma raggiungere la possibilità di potere a loro volta dare, vivere la verità esistenziale che davvero “è più bello donare che ricevere”.

Di nuovo mi complimento per i trent’anni del Gruppo Solidarietà, e auguro ai componenti e alla sua rete sociale di continuare ad essere un gruppo radicato nel territorio e con lo sguardo sul mondo; un gruppo che non ha paura del futuro quando gli chiederà coerenza, rigore, radicalità. Una scossa forte al terzo settore si prefigura quella diretta a minare i nostri valori quando, col pretesto dei tagli e della crisi, ci chiederanno di operare beneficenza e non promozione dell’autonomia delle persone; così come quando tenteranno di imporci di snaturare le nostre professioni sociali per farcele declinare in custodia, controllo, separazione dei deboli a tutela dei benestanti e benpensanti. Ebbene: con 30 anni di esperienza dal basso sapete da soli a chi e quando dovrete rispondere coi vostri “no” o coi vostri “sì”. Auguri.