La ‘ndrangheta è un’associazione segreta che vuol farsi conoscere da tutti

di Giacomo Panizza

Finalmente si parla di’ndrangheta,
ma facciamo attenzione al “come”

A Lamezia Terme, alla fine di febbraio 2007, dalla compagnia teatrale Residui è stato portato in scena Laura C.. «Laura C.» era una nave mercantile che durante la seconda guerra mondiale trasportava il tritolo, poi usato dalla ’ndrangheta per intimidazioni, attentati, stragi. Rappresenta lo stare alla finestra di non poca gente di Calabria che lascia campo libero alla ’ndrangheta; è uno spettacolo sull’immobilismo che si rifà, e nemmeno velatamente, ad Aspettando Godot: vi traspare l’attendere per il lungo tempo di una vita spoglia dei vissuti, in aspettativa senza attesa né sorpresa in cui non ha luogo cambiamento alcuno ma la mera ripetitibilità. Al capolavoro teatrale di Samuel Beckett, all’atteggiamento di anime in stallo senza inquietudine e di un’umanità rassegnata e sospesa, si è ispirato questo lavoro teatrale tragico come il fato, classicamente «greco».

Lo spettacolo, metafora del presente, invita alla riflessione e a quella ribellione che sembrano ancora disattivate seppur degli uccisi, del racket, delle intimidazioni, dei voti di scambio, di investimenti economici nei mercati illeciti e leciti gestiti dalla ’ndrangheta oggi finalmente se ne parli più che nel passato anche recente. Invita a parlare e non più tacere. Serve parlarne, ed in particolare parlarne curando il “come”, affinché la ’ndrangheta non venga più sottovalutata come un’organizzazione retrograda o viceversa mitizzata come impenetrabile e invincibile. Piuttosto, occorre realisticamente contestualizzarla nelle sue dimensioni effettive. Sono disponibili faldoni e documenti a iosa, risultati di ricerche e indagini delle forze dell’ordine, dei giudici e dell’intelligence, articoli di giornali, filmati e molte altre cose ancora che parlano di ’ndrangheta. Se ne dibatte nelle aule dei tribunali, e ne parlano diffusamente le cronache, i giornali e le riviste, le radio, le televisioni e ora anche i siti internet gestiti da istituzioni, da gruppi giovanili e da agenzie pubbliche e private.

A conferma c’è anche un recentissimo elaborato, governativo, predisposto per i futuri programmi della Commissione Antimafia. «E credo non sia più rinviabile un’apposita relazione sulla ’ndrangheta (…) Parliamo dell’organizzazione mafiosa meno studiata, meno conosciuta anche perché più impenetrabile, più ramificata territorialmente in Italia e all’estero. Tutti gli inquirenti e le recenti indagini giudiziarie ci dicono di un’organizzazione che ha conquistato un suo primato nel traffico degli stupefacenti su scala mondiale. E questa forza è accumulata anche in virtù della sua struttura familiare che l’ha protetta dal fenomeno dei collaboratori. Ma è un’organizzazione che ha tessuto una ragnatela di rapporti col mondo economico, col mondo politico, con un potere che in Calabria vive anche di relazioni occulte e massoniche in forme pervasive, fino ad arrivare, come dimostrano le ultime vicende di Vibo, ad intaccare settori degli apparati dello Stato e della stessa magistratura. Del resto, è in questo contesto che parte la sfida politico-mafiosa, con l’omicidio del vice presidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, producendo nella regione un salto di qualità fino ad ora mai conosciuto, a differenza della Campania e della Sicilia. Al livello della sfida che la ’ndrangheta ha lanciato con questo omicidio e che quotidianamente e in forma violenta riafferma con la propria presenza sul territorio, su tutto il territorio della regione, deve sapersi sviluppare la nostra capacità di inchiesta, denuncia, sostegno all’azione di contrasto e di riconquista democratica. C’è un assalto della ’ndrangheta alla politica e alle istituzioni, che prefigura il rischio di una vera e propria crisi democratica e di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella democrazia. A questo livello, anche attraverso la nostra presenza come Commissione sul territorio, a fianco dei sindaci, degli imprenditori, dei giovani, dei cittadini che si ribellano, dai commercianti di Lamezia che realizzano la prima serrata, ai ragazzi di Locri, vedo che dovremmo dare senso al nostro lavoro e, attraverso esso, dare sostegno all’azione degli apparati investigativi e della magistratura, affinché l’azione di legalità e trasparenza politica e morale non abbia, in questa regione, alcuna zona franca».

Eppure, nonostante queste e altre innumerevoli analisi cristalline, nella vita quotidiana civile e istituzionale sembra che non ci si accorga degli ammazzati, dei ricattati, di quelli che pagano protezioni e scambi, di quelli che vanno a braccetto con la ’ndrangheta passando mimetizzati sulla scena sociale e politica. Non si danno giusti pesi e parole a ciò che entra nella dimensione di mafia organizzata e di mafiosità intesa come mentalità diffusa, liquidando l’argomento con battute quali: «Ci vorranno secoli, ma la ’ndrangheta ci sarà ancora» o «Non è cosa nostra» o «Tanto si ammazzano tra di loro». Sopravvalutare la ’ndrangheta come invincibile o ritenerla ininfluente o estranea alla vita quotidiana personale è un’ingenua e pericolosa sottovalutazione dei suoi programmi inequivocabili e senza scrupoli di invasione di campo nei territori “pubblici”.

Una realtà criminale puntiforme
e minuziosamente organizzata,
che media e accumula

A Nicastro, uno dei tre comuni che nella storia recente si sono uniti per formare l’attuale città di Lamezia Terme, nel 1888 si viene a conoscenza del primo codice di ’ndrangheta. In seguito, nuove scoperte delle forze dell’ordine contribuiscono a stabilire che la ’ndrangheta aveva lasciato tracce antecedenti nella provincia di Reggio Calabria. Il fenomeno «è documentabile fin dai tempi dell’Unità» d’Italia, e non va posto in continuità e nemmeno confuso con l’antecedente storia calabrese del brigantaggio.

Anche altre notizie, ricavabili da sentenze, da ordinanze di cattura o di custodia cautelare, e da una certa letteratura, rendono conto della ’ndrangheta come di una organizzazione non localistica né difensiva, ma di una pericolosa realtà con obiettivi di espansione e conquista, con vitali capacità, con capi di “norma” maschi di tutte le età, con innumerevoli ammazzati – pure tra di loro -, e con un’enorme, sorprendente e continua disponibilità di giovani appartenenti ai clan o ingaggiati “extra”.

Parecchi autori hanno messo mano a una plausibile ricostruzione storica della ’ndrangheta cercando di descriverne l’evoluzione. Il risultato è un disegno di soggetti e di operazioni puntiformi, non sempre collegabili tra loro con prove provate, ma che innegabilmente consentono di poter tracciare, nell’arco di un secolo e mezzo, la diffusione della ’ndrangheta con percorsi iniziati dalla Calabria verso i vari continenti e in seguito dalla Calabria al resto d’Italia. E ritorno. Ne risulta la narrazione di una realtà complessa, creativa, vulcanica, a tratti terrificante e a tratti attraente. Ti viene in mente Roberto Saviano di Gomorra, quando confessa in contemporanea la repulsione e il fascino seduttivo che il sistema camorristico esercita sui giovani… e che ha esercitato anche su di lui.

I “locali” della ’ndrangheta comunicano in codice, con frasari e modi prestabiliti, usano rituali e simbologie mutuate dalle pratiche religiose, in specie quelle cristiane. «Il “locale” può essere definito come l’organismo a livello territoriale su cui si articola la ’ndrangheta. Esso solitamente ha competenza su uno o più paesi della stessa area. (…) è la struttura di base della ’ndrangheta che sorge in un determinato paese, allorché si supera il numero minimo di 49 affiliati…». La sommatoria dei numeri accertati porta a prefigurare una struttura, anche militare, che computa migliaia di persone. Infatti «in provincia di Reggio Calabria ci sarebbero almeno 73 “locali”, 23 nel mandamento del centro, 26 in quello jonico e 24 in quello tirrenico. Nelle altre quattro province i “locali” sarebbero almeno 63, di cui 15 nel catanzarese, 14 nel cosentino, 16 nel crotonese e 14 nel vibonese». Ciascun “locale” utilizza un codice proprio, seppur molto somigliante con gli altri. Anche grazie al ritrovamento di codici o alla dettatura a memoria da parte di alcuni ’ndranghetisti catturati e collaboranti si è potuto disegnare una ricostruzione storica verosimile della ’ndrangheta. I vecchi codici disponibili, scritti spesso con grafia incerta e italiano impreciso, sono chiarissimi invece sulla parola d’ordine segreta degli affiliati; sulle regole di appartenenza, fino a stabilire la punizione certa dei traditori; sugli scopi del “locale”. Accanto agli aspetti magmatici e cangianti, la ’ndrangheta si contraddistingue attraverso due pilastri costantemente presenti fin dall’inizio della storia dell’organizzazione criminale: la mediazione sociale e l’accumulazione di ricchezze e di dominio.

Primo pilastro: la ’ndrangheta fa mediazione, media di tutto e di più. Gestisce la mediazione come controllo su soggetti che hanno ruolo sociale, potere politico, capacità economiche, e anche su soggetti deboli e bisognosi. È controllo su ricchezza e potenza. Mette insieme, anche coercitivamente; facilita gli interessi di ognuno, anche degli opposti. Li favorisce o li sospinge a “incontrarsi”, a far affari insieme, a “risolvere” problemi, agendo in proprio sostituendosi anche alle istituzioni, alle leggi, persino al welfare. Assume ruoli di terzietà, ma non al di sopra e al di fuori delle parti in causa, divenendo piuttosto la causa obbligante delle operazioni di messa in comune, di mediazione appunto. Si dimostra mediatrice con tutte le parti politiche, seppur da tempo oltre a corrompere vi si infiltri direttamente. Rispetto ai partiti e alle polarità politiche «non ha preferenze, è bipartisan, ma non sta mai all’opposizione».

La ’ndrangheta controlla il territorio sul quale si arroga la mediazione tra i diversi poteri esistenti. Essa ne incarna uno, gli altri li avvicina assumendo un ruolo autoritario e allo stesso tempo autorevole. Ruolo attraente verso affaristi e verso politicanti in carriera, ma anche verso giovani influenzabili e/o senza possibilità occupazionali. Controlla il territorio costringendo molti soggetti a sottostare. La menzione delle logge massoniche nella citata Relazione Antimafia aiuta a non dimenticare che la ’ndrangheta talvolta viene cercata da altri, coi quali si allea anche “alla pari”: altre organizzazioni mafiose, persone di logge massoniche deviate, politici e colletti bianchi, imprenditori e così via.

Il secondo pilastro della ’ndrangheta è l’accumulo di ricchezze e di potere. Certe volte denaro e beni, certe altre ruoli e spazi di potere; spesso li persegue cumulativamente. Il boss di ’ndrangheta ricerca il potere, fa parte della sua mission. Lo conquista, se lo merita sul campo con la violenza, ma molto potere gli viene da chi glielo cede e regala: dalla gente che non vede non sente non parla, da istituzioni pavide o colluse, da chi paga il pizzo, da chi gli chiede un aiuto, da chi si pensa su un pianeta parallelo, da una comunità che non si ribella.

L’accumulo di denaro è inscindibile dall’accumulo di potere. Il mafioso non si limita a fare business, sarebbe uguale a un qualsiasi imprenditore. Nemmeno si accontenta di rubare, sarebbe uguale a qualsiasi ladro. Tramite l’arte della violenza di cui è capace, si sente forte al punto di riuscire ad avere ricchezza e potere e consenso senza nemmeno la necessità di “avvertire” la vittima designata. Il giro di denaro, lecito o illecito (ormai è diventato secondario), mira anche all’accumulo di spazi da occupare, da cui poter dominare. La ’ndrangheta accumula denaro congiuntamente a potere e li raccoglie con o senza uomini e donne della politica, con o senza partiti ma occupando spazi decisionali sia strategici sia interstiziali. Le basta intrecciare affari con quei politici che pensano ai propri affari, di partito o partitino, rassicurata dalla logica di cui quei politici sono portatori: una logica non orientata al bene comune, una logica per la quale chi fa politica gestisce il potere per sé e non per rispondere ai doveri di accompagnamento e di servizio della crescita collettiva.

Il giro sporco d’affari della ’ndrangheta calabrese sul quale il Ministero dell’Interno ha realizzato le seguenti statistiche e considerazioni, non può attuarsi se non in collaborazione stretta con incaricati corrotti della politica e della pubblica amministrazione. è uno dei principali nodi strategici europei per l’importazione e l’esportazione di stupefacenti, provenienti dal Sud America e dal Medio Oriente, che le cosche smerciano sia in loco sia sull’intero territorio nazionale. I rilevanti guadagni del narcotraffico (circa 22 miliardi di euro per la ’ndrangheta) sono utilizzati per effettuare operazioni di riciclaggio nei mercati mobiliari ed immobiliari. Le estorsioni, l’usura, l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, lo smaltimento di rifiuti solidi urbani e speciali e l’immigrazione clandestina sono gli altri settori di sicuro interesse criminali, con forti ripercussioni sull’economia locale. Molte sono le aree “sensibili” di questa Regione. A titolo esclusivamente esemplificativo, indichiamo il crotonese (tra Isola Capo Rizzuto e Cutro, il cui territorio ospita già numerosi e rinomati villaggi vacanze ed altre strutture di particolare valore economico) il catanzarese (tra i comuni di Paola e Amantea ma anche Lametia Terme, in relazione all’importante ruolo che la cittadina ha assunto per lo sviluppo della regione) e le tradizionali aree del reggino. Forte è l’interesse della criminalità per lo scalo marittimo di Gioia Tauro e l’attigua area di sviluppo industriale». L’indice di permeabilità mafiosa (IPM) in Calabria è stabilito dall’Eurispes nei valori di 52,7 punti per la provincia di Reggio Calabria; di 32,2 punti per la provincia di Crotone; di 30,9 per Catanzaro; 28,1 per Vibo Valentia; 24,5 per Cosenza. Il giro d’affari è calcolato sul 3,4% del pil nazionale. Come si fa a pensare che la ’ndrangheta non sia collegata con l’economia, la politica e altri poteri? Come si fa a dubitare che in Calabria si stia vivendo in regime di libertà controllata o che ci siano enti pubblici a sovranità limitata?

Vischio ’ndrangheta:
come reimmaginare
la cittadinanza dei diritti?

La ’ndrangheta è un pericolo pubblico che tiene in libertà vigilata i cittadini calabresi. C’è una palese vischiosità nei rapporto tra i gruppi di ’ndrangheta e i soggetti sociali, economici e politici del territorio. Le denuncie ufficiali per intimidazioni e danneggiamenti, comprese le minacce telefoniche, nell’anno 2006 assommano a 12.000, evidenziando un metodo spietato usuale della ’ndrangheta per raggiungere il suo scopo di controllo del territorio. Il controllo di economie e commerci, di relazioni e opinioni, di voti e burocrazie, non viene agito totalmente da qualcuno “su” qualcun altro, piuttosto assomiglia al controllo sociale soft, nel quale il controllato non solo obbedisce ma anche collabora “convinto” che gli convenga farsi proteggere o entrare a far parte di un’economia o relazioni o poteri socializzati dalla ’ndrangheta. Essa si struttura proprio manipolando i sistemi di relazione e di appartenenza, di affetto e familiari “di sangue”, e li tesaurizza per formare il suo capitale sociale.

La ’ndrangheta è conosciuta più per le intercettazioni ambientali realizzate dall’intelligence di polizia che per le denunce di coloro che hanno subìto danni o assistito a episodi malavitosi. Le denunce alle forze dell’ordine riguardano i danneggiamenti e lasciano “ignoti” gli estortori e gli aguzzini. Pur conoscendoli. Infatti la gente in genere conosce, anche con prove non provate, i “locali”. Una città come Lamezia Terme, ad esempio, ha più di un “locale” organizzato con capi, gruppi di fuoco, responsabili di varie azioni e settori interni e esterni, gerarchie, quali le famiglie Iannazzo, Giampà, Torcasio, a loro volta collegate con le famiglie locali dei Cerra, Da Ponte, Cannizaro, De Fazio, Bagalà, Argento, Mauro, Corrado, Dattilo, Gattini, Mercuri, Arcieri, Strangis eccetera, a loro volta collegate con altre in particolare della provincia di Reggio Calabria, come i Giorgi-Pizzata di San Luca. Allo stesso modo si possono menzionare i clan calabresi sparsi in regione e non solo: i nomi sono conosciuti dalla gente in genere, dalle vittime della ’ndrangheta, e dai Palazzi di Giustizia.

Generalmente territori ampi ospitano più clan, più ’ndrine. Soltanto in pochissime zone, come nel vibonese, si attua una monocrazia come ad esempio la cosca Lo Bianco a Vibo Valentia o la famiglia Mancuso a Limbadi. Alla gente pare di navigare a vista nella nebbia, di sostare nel chiacchiericcio disordinato di una realtà confusa, e al contempo le sembra di percepire il sentore che qualcun altro invece ci veda e ci capisca benissimo. La gente “sa” che la ’ndrangheta c’entra, l’immaginario collettivo calabrese lo registra ma si percepisce immerso in un cupo tunnel: perché poi occorre dimostrare con formali verità processuali, con carte incontestabili, con testimoni che testimonino la verità dei fatti… Altrimenti hai torto tu… E sai cosa ti aspetta… L’esistenza della ’ndrangheta, non della ’ndrangheta in genere, ma di quella del tuo territorio, è un segreto che si deve sapere. Essa stessa lo vuole. La presenza inefficace e inconsistente dello Stato non favorisce nei cittadini quel senso dello Stato che li potrebbe far ribellare in piena ragione e anche in piena giustizia contro organizzazioni forti. La gente sa che la ’ndrangheta trae la propria forza non solo da sé ma anche dalle relazioni che imbastisce, relazioni in cui c’è anche non poca parte di società. La ’ndrangheta non è un corpo estraneo alla cosiddetta “Calabria degli onesti”. Da sola – senza la sponda di poteri, di colletti bianchi, di pedine collocate in certi snodi del sistema pubblico, di “brodo primordiale” alimento corrotto e dipendente – non esisterebbe. Non è un gruppo di cattivacci che tiene in scacco un popolo di buoni. L’attrazione vicendevole, seppur non “alla pari”, sortisce questo modello storico di ’ndrangheta. Pertanto, è importante colpire il gruppo mafioso e i suoi sporchi affari, ma sta diventando essenziale colpire le sue relazioni, ledendo congiuntamente gli interessi di imprenditori, commercianti, gruppi sociali, politici, classi e ceti investiti di rilevanza pubblica invischiati in qualsiasi rapporto con la ’ndrangheta. In questo quadro culturale, per poter segnare una svolta, occorre scommettere senza se e senza ma sui diritti umani fondamentali, facendo leva su alcuni punti nodali ineludibili. Il compito strategico fondamentale ritengo sia proprio quello di dare cittadinanza ai diritti civili (di lavoro, di impresa, di pensiero, di proprietà, …), ai diritti politici (di democrazia legale e reale, di votare e candidarsi, di rappresentare interessi pubblici, …), e ai diritti sociali (di avere servizi per la sanità, la scuola, il trasporto su strade, autostrade e ferrovie, l’assistenza – quante leggi nazionali la Regione Calabria non ha ancora recepito, facendo un regalo alla ’ndrangheta, nemmeno quelle per cui non occorre spendere alcun Euro ma, appunto!, introdurrebbero regole). Insomma, con la ’ndrangheta non bisogna solo non collaborare, bisogna anche pretendere i diritti.

Primo punto ineludibile è riconoscere che siamo in emergenza democratica. Le capacità di produzione e riproduzione delle forme democratiche di governo locale sono sottoposte ad alti rischi. I comuni sciolti per infiltrazioni mafiose rappresentano la punta dell’iceberg, non la totalità del problema. In regione le denunce di intimidazioni e attentati nel 2006 contro politici e amministratori pubblici e sindacalisti sono state 187. Le reazioni dello Stato appaiono eccezionali piuttosto che ordinarie e costanti. “Il pesce puzza dalla testa” – si dice – e i dati lo confermano: ventidue onorevoli consiglieri regionali sono indagati. Il toto-indagati parte dal numero certo di 22, ai quali si dice che occorra aggiungerne un x di già rinviati a giudizio e un y di già raggiunti da sentenza di condanna per alcuni provvisoria e per altri definitiva: x e y rappresentano il mistero da svelare. Dei 22 invece si sa che 5 sono indagati palesemente per reati di tipo mafioso, 5 per i finanziamenti riguardanti la legge 488 sulle agevolazioni a fondo perduto, 7 per voti di scambio, il resto per altro. Fuori dalle meticolose regole dei tribunali poste a garanzia nei processi, la gente fa difficoltà a credere che il movimento di soldi e di voti possa avvenire indipendentemente dai “locali” della ’ndrangheta.

Il secondo punto, chiama in campo il pacchetto delle leggi inerenti la ’ndrangheta. In esso spicca la patata bollente della certezza della pena per i reati di mafia a tutela delle vittime, del loro effettivo rischio di (ri)subire violenza. Per questo una giustizia giusta esige di ripensare anche le attuali modalità di applicazione del famoso articolo 41 bis. Oggi è diventato annacquato, si è snaturato insieme ad altri articoli del codice penale. Addirittura, di fatto, favorisce i boss, i forti tra i carcerati. Per i reati di mafia occorre diminuire il potere discrezionale del giudice altrimenti, costretto per legge a dover decidere su un divario troppo grande ed elastico tra anni di pena minima e pena massima, il giudice starà a metà, o sul minimo… o dove? Spetta ai legislatori, cioè ai politici, stabilire con maggior precisione le pene da infliggere: su questo punto i governi di destra o di sinistra non si sono affatto differenziati. Stessa perplessità sorge anche pensando a quanto avvenuto recentemente per l’indulto, sul punto riguardante proprio i politici colpevoli di episodi di voto di scambio. I reati di voto di scambio, essendo stati compresi nell’indulto, sono stati dichiarati invalidi. Quei politici sono stati ripuliti e rivestiti della veste candida, per cui possono ri-candidarsi, possono continuare a partecipare a parate antimafia, possono lottare contro la criminalità con le parole senza preoccuparsi di mettere in campo anche “uomini e mezzi”, personale dedicato e finanziamenti adeguati allo scopo da raggiungere. Perfino l’attuale legge elettorale fa un gran favore alla ’ndrangheta, non consentendo alla volontà popolare di poter indicare quali persone lanciare in politica.

Il terzo punto fondamentale riguarda la società civile, la sua mimesi con la ’ndrangheta e i suoi vincoli di appartenenza, le relazioni asimmetriche e i metodi violenti, mimesi mista alla voglia che la stessa società ha di uscire da un sistema di omertà, di soffocamento delle libertà, di scacco alla dignità umana e ai bi-sogni di futuro. Se ne vuole liberare anzitutto il mondo economico, specie quello del lavoro e dell’imprenditoria. Ormai gli imprenditori vengono con derisione chiamati “prenditori” a causa dei tanti episodi di collusione tra essi con i politici, i colletti bianchi e le ’ndrine, finalizzati a intascare denaro pubblico senza resa alcuna.

La società civile deve ancora togliersi l’archetipo del mafioso forte, invincibile, coraggioso e protettore. Proprio le uccisioni a tradimento, le intimidazioni nei confronti di chi lavora, gli agguati di sorpresa, i sequestri di persone inermi, l’indebolimento di economie già deboli come quella calabrese, e così via, ne denotano la vigliaccheria, l’incapacità di rispetto, la disumanità. Forse può diventarle utile la cultura, quella cosiddetta colta come quella popolare, mediata dallo spettacolo Laura C., o dalla canzone di Sanremo, o da film sull’uccisione di magistrati o di preti o di persone che hanno vissuto resistendo e che ora esistono in ciò che altri hanno colto, trasformandolo in diritti e doveri di cittadinanza, in vita. Si può progettare di estirpare la ’ndrangheta? O ci dovremo accontentare di curare pian piano le ferite di questa nostra società? Estirpare o curare? Occorrerà dare valore a entrambe le ipotesi, rinforzando tutte e due le direzioni di impegno. Di sicuro, se si pensa almeno di disarmare la ’ndrangheta, si deve risanare la società, le regole della politica e dell’economia locale, ancora invischiate con essa.