La ’ndrangheta sul collo la si vince educando

di Giacomo Panizza (Articolo pubblicato su Italia Caritas, settembre 2012, pp16-18)
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La legalità è un banco di prova della credibilità della cultura di un popolo. E anche della Chiesa. Trainando con sé valori umani quali onestà, lealtà, rispetto delle persone e della verità, corresponsabilità nella definizione e nell’adesione alle regole condivise, essa contraddistingue la comunità che la esercita e la trasmette attraverso l’educazione. C’è un nesso inscindibile tra legalità ed educazione: al punto che in un Paese maturo è impossibile pensare di potenziare la legalità e al contempo indebolire l’educazione.
In Italia la legalità non ha assunto compiutamente il peso che le spetta. Anzi, si enfatizza l’illegalità esibendola quasi come “lo” stile di vita del Paese Italia.

Viene agile ricordare una nota storiella di costume.
«Sono stati pubblicati i risultati di un recente sondaggio commissionato dalla FAO e rivolto ai governi di tutto il mondo. La domanda era: “Dite onestamente qual è la vostra opinione sulla scarsità di alimenti nel resto del mondo”.
Ecco in sintesi le risposte: gli europei non hanno capito cosa fosse la “scarsità”; gli africani non sapevano cosa fossero gli “alimenti”; gli americani hanno chiesto il significato di “resto del mondo”; i cinesi hanno chiesto delucidazioni sulla parola “opinione”; gli italiani stanno ancora discutendo su cosa possa significare “onestamente”».

L’immaginario collettivo ci qualifica popolo di “furbetti”, iniziando dai “piani alti”. Ma il trionfo dell’illegalità distrugge la speranza. Nel secolo scorso, lo scrittore calabrese Corrado Alvaro sentenziava che “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.

Legalità, nome della carità
In Calabria le dodici Caritas diocesane hanno elaborato il progetto Costruire speranza, nel quale si evidenzia la legalità come un attualissimo nome della carità. Non che prima fosse assente, ma adesso pare utile esprimere meglio la legalità come grande valore civile, irrinunciabilmente cristiano. Il progetto sfida il dato dell’illegalità, della corruzione e della disonestà, e rimarca che al malaffare la ’ndrangheta 8in Calabria) aggiunge la caratteristica tipica (ovunque) delle organizzazioni mafiose: le quali non solo rubano, ma usano armi e uccidono; non solo si arricchiscono, ma sottomettono persone e territori; non solo violano le leggi dello Stato, ma si fanno Stato parallelo.
In Calabria i clan depredano le risorse locali, e hanno a che fare con l’impoverimento materiale e spirituale della nostra regione. È un ritornello ricorrente nei nostri incontri, che il compianto don Italo Calabrò affermava fin dagli esordi delle Caritas calabresi. Il progetto si propone dunque di accompagnare le diocesi perché diventino capaci di gestire efficacemente l’utilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e di seguire le trafile burocratiche, non per caso frequentemente difficoltose e ostacolate da lungaggini e “incidenti” di percorso. L’intenzione è formare alcune persone per offrire in ciascuna diocesi calabrese almeno un’opera segno che, componendo carità e legalità, sia di aiuto ai poveri e divenga un messaggio educativo per la Chiesa stessa e la società.
I numeri parlano da soli. A maggio 2012 in Calabria i beni confiscati erano 1.729, tra cui 143 aziende, ma solo due nostre diocesi hanno le mani in pasta in materia. Inoltre, accanto agli innumerevoli reati di mafia che hanno interessato singoli cittadini, il 2011 ha fatto registrare 103 intimidazioni ai danni di amministratori locali, e poi incendi di strutture pubbliche, spari su beni comunali, recapiti di proiettili a uffici pubblici in 222 comuni (il 54% del totale dei comuni calabresi), mentre lo Stato ha decretato 37 scioglimenti per infiltrazioni mafiose. In un simile contesto, non sorprende che siano stati destinatari di attentati e minacce anche alcuni sacerdoti (tra cui l’autore di questo testo, ndr).
Nasce in questo scenario il progetto Costruire speranza. Il quale intende valorizzare, più che il valore economico del bene confiscato, il bene educativo, per la diffusione di una cultura di legalità. Nei casi di destinazione sociale del bene confiscato, il significato che passa di bocca in bocca tra la gente è infatti che la ’ndrangheta non ci perde solo il bene, ma la faccia. Monsignor Giuseppe Merisi e don Francesco Soddu, presidente e direttore di Caritas Italiana, al convegno di lancio del progetto hanno efficacemente ribadito che «le mafie sono strutture di peccato» e che «costruire speranza significa passare da un’opera di denuncia ad azioni appassionate, individuali e collettive, di popolo e di istituzioni, al fine di realizzare legalità e solidarietà».

Alcune, insufficienti
In Calabria esistono alcune, e insufficienti, iniziative gestite da soggetti ecclesiali, dedite a educare, ma costrette a fare i conti con la forza antagonista del contesto mafioso. Iniziative che altrove vengono valutate come educazione civica o di socializzazione, da noi, provocati dalla radicata educazione alla ’ndrangheta, assumono anche la ratio di educazione alla legalità.
Eppure, sentirsi la ’ndrangheta sul collo impegna a organizzare attività educative specifiche. Non si parte da zero, esistono poche ma buone realtà ecclesiali impegnate in questo. Esse gestiscono corsi di educazione alla legalità rivolti a maestri e maestre, oppure sono catechisti che tengono le lezioni ai piccoli, anche ai figli di “quella” famiglia notoriamente mafiosa, sfidando le disapprovazioni. Sono chiese che collaborano con le scuole per sensibilizzare gli studenti a partecipare alle sfilate di protesta contro episodi di omicidio, di pallottole vaganti, di bombe fatte scoppiare presso aziende o negozi.
Sono gruppi che promuovono feste della legalità nella piazza del paese, dove anche i mafiosi possono osservarti e giudicarti. Sono gruppi parrocchiali e movimenti laicali che invitano personaggi a dialogare sul consumo e sul traffico di droga, tutt’ora nelle mani della ’ndrangheta. Sono persone attive nelle associazioni antiracket, che educano coi fatti a non pagare il pizzo.
Sono comunità situate in paesini dell’entroterra, che aggregano gli adolescenti in bande musicali, senza nascondere l’intenzione di ostacolare il loro coinvolgimento in bande criminali. Sono volontari e volontarie gestori di parchi gioco in zone ad alto tasso di criminalità mafiosa, destinati ai piccoli di tutte le famiglie, anche di quelle in cui gli adulti si massacrano reciprocamente. Sono doposcuola che evitano esposizioni mediatiche per non mettere in vista i figli di ’ndranghetisti uccisi o in carcere.
Alcune sono attività che è prudente non divulgare, perché si metterebbe a repentaglio l’incolumità e la vita stessa di persone, famiglie, educatori. Come quando si aiuta una persona ad abbandonare il proprio clan di mafia, o s’inventano soluzioni migratorie per orfani e mamme, perché fuggano lontano e tronchino così il vortice delle vendette senza fine. In altri casi tutto è palese: per esempio, quando una cooperativa agricola opera su terreni confiscati alla mafia, o si aprono servizi sociali e culturali negli edifici confiscati. Una Caritas diocesana da oltre un decennio ha sede in una struttura confiscata.
Dietro a questi esempi, e ad altri che si potrebbero enumerare in Calabria, c’è la presenza di uomini e donne di chiesa e strutture messe a disposizione dalle parrocchie: queste realtà, però, sono buone ma poche. E soprattutto non sono ancora diventate “cose nostre”, preoccupazioni della Chiesa, perché sostanzialmente ancora delegate a un numero esiguo di volonterosi. Ma oggi, a mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, siamo più consapevoli che le iniziative di contrasto ai poteri e alle logiche perverse dei mafiosi devono venire assunte più responsabilmente dalle chiese locali, proprio in quanto chiese. Sul fenomeno del contrasto dell’illegalità nel Mezzogiorno non bastano bei documenti: si sente indispensabile che la Chiesa scenda concretamente in campo con interventi corali. Pienamente ecclesiali.