Lasciarsi investire, non esaurire dalla sicurezza

di Giacomo Panizza
Discutere di sicurezza quanto basta, sostiene Giacomo Panizza rivolgendosi agli operatori sociali.
Quanto basta per non banalizzare la domanda di sicurezza. Ma pronti anche a sottrarsi al rischio di impantanarsi, come operatori sociali, in approcci che rischiano di dimenticare che dietro molti problemi sul territorio ci sono problemi di giustizia, accesso ai servizi e prima ancora al lavoro e alla casa, ridistribuzione della ricchezza, prepotenza della criminalità organizzata, spinte alla segregazione. E dunque, «lasciarsi investire, ma non esaurire dalla sfida della sicurezza», per interrogarsi criticamente su stili di vita e modello di sviluppo, legalità e giustizia, controllo sociale ed etica dell’inclusione.
(Pubblicato in Animazione Sociale, maggio 2008, pagg. 89-91)

Attraverso un crescendo di puntualizzazioni e interrogativi, l’articolo di Franca Olivetti Manoukian (ri)sollecita chi svolge lavoro nel sociale a «riaprire il dialogo con la società», prefigurando che per il futuro prossimo diventerà «cruciale che i servizi accolgano il disagio collegato alla percezione di insicurezza dilagante». Non si può non convenire con affermazioni rimarcanti lo spartiacque tra due paradigmi di welfare – l’uno difensivo, residuale e paternalistico e l’altro promozionale ed egualitario -, paradigmi che influiscono differentemente sull’operatività delle professioni sociali, sui principi fondativi dei servizi sociali, sulla funzione delle politiche sociali prevista nella Carta della Repubblica. Stessa controversia di sessant’anni fa, solo che allora i cittadini «bisognosi» erano la maggioranza della popolazione, mentre adesso sono ribaltate le percentuali, mutate le condizioni sociali, moltiplicate le attese e ridotte le ipotetiche risorse da mettere in campo. Quindi l’articolo invoglia a ulteriori interrogativi.

La forza istintiva della domanda

Dalle domande di ordine pubblico provengono sollecitazioni forti e risolute, ma al contempo alteranti l’offerta di aiuto dei servizi sociali. Come reagiscono gli operatori pubblici? E il terzo settore?
In un simile clima di pressione, quando al servizio sociale comunale si riscontra il ricongiungimento familiare di un clandestino, si rischia in primis di denunciarlo piuttosto che dedicarsi a esplorare possibili percorsi proficui a rinsaldare quel legame familiare. Similmente anche lo straniero sarà propenso a inventare storie lacrimevoli e identità fasulle pur di prolungare la sua permanenza.
E quando un capofamiglia rom stanziale presenta credenziali totalizzanti un punteggio che gli farebbe ottenere l’abitazione popolare prima dei gaggè residenti, quali sommovimenti e prudenze si scatenano nell’ufficio comunale?
La domanda di ordine pubblico tende anche a snaturare il ruolo super partes di pubblici amministratori timorosi di perder voti qualora promuovessero servizi rivolti a «certe categorie» sociali: l’altro ieri i tossicodipendenti, ieri gli extracomunitari e oggi i rom.
La domanda di sicurezza pubblica non risparmia inoltre il terzo settore, in specie quello proprietario di servizi. Lo forza a scelte ambigue, ad agire più come cliente gestore di prestazioni su fornitura del «pubblico» piuttosto che a divenirne partner. Lo spinge a ripiegare su posizioni di appaltatore di pacchetti di servizi prestazionali, piuttosto che costruttore di legami e di agio sui territori.
Il mondo del non profit si va interrogando su come posizionarsi nell’attuale panorama politico e culturale. Alcune sigle già si «adeguano» a fare da utili idioti col soldo delle pubbliche amministrazioni e col favore «popolare» di chi invoca il pugno forte quale risposta e soluzione delle problematiche sociali incombenti.

«Chi» è soddisfatto di «cosa»?

L’ottimismo implicito nella proposta dialogica e costruttiva della Manoukian incontrerà strade tutte in salita, seppur affascinanti. Anzitutto perché esige selettività. Ingaggiare, motivare o rimotivare, attrezzare operatori pubblici e privati che scommettano sulla realizzabilità del dialogo tra servizi ispirati alla sicurezza sociale e una società viceversa vogliosa di sicurezza pubblica non sarà certo impresa facile; tuttavia, la Manoukian ha tutte le ragioni, poiché la sua proposta rappresenta giustizia e necessità. Al di là di essa i servizi sociali cessano di essere «sociali». I servizi tarati sulla sicurezza pubblica socializzano poco e motivano meno, livellano in basso i saperi professionali, non innescano processi relazionali paritari tra assistenti e assistiti e non intrecciano virtuosamente soggetti e interessi diversi. Piuttosto li fa scontrare.
Ci manca solo di affidare il sociale a «risposte» di separazione e carcerazione, piuttosto che ai servizi di prevenzione, educazione, riabilitazione, socializzazione, inclusione, mediazione e altro che ben conosciamo.
Credo che la domanda crescente di sicurezza pubblica ponga fine ai dubbi di coloro che si interrogano se i servizi sociali siano o debbano essere neutri. Valori umani e democrazia non esulano dal welfare.
I soddisfatti o gli insoddisfatti dei servizi saranno per primi coloro che avranno la ventura di averne bisogno. Ma la soddisfazione del lavoro sociale tocca in modo speciale chi lo svolge. Penso immediatamente a studenti e studentesse che si preparano ad esercitare una professione sociale: come si potrà dir loro che stanno studiando per imparare a sorvegliare le persone e non ad aiutarle a promuoversi?
E chi già opera? Come pensare di far assimilare a un educatore pratiche repressive? Oltre alle metodologie non altererà gli scopi sociali del suo servizio? Come opererà in una casa famiglia coi minorenni provenienti dall’area penale, o in un drop-in con persone tossicodipendenti attive, se non distinguerà il suo ruolo sociale di educatore da quello avulso di tutore dell’ordine?
Oltre a ciò, ritengo che vada menzionata la grinta di operatori che «disobbediscono», in nome della dignità umana e dell’etica professionale, alle lusinghe di amministratori che tentano di indurli a fare controllo sociale anziché servizio sociale.
Accanto al costante aumento di richieste di individualizzazione e autonomia dei fruitori dei servizi, il totem della sicurezza inibisce gli operatori sociali nel loro disegno di intervenire sulla «normalità» per ricacciarli sui «casi» e sulle categorie. Richiestissimi quando i mass media sbattono in prima pagina adolescenti che uccidono i genitori, bambini che travalicano con episodi di bullismo, disabili che chiedono di staccare la spina. Nella vita normale essi sono messi da parte. In fin dei conti credo nella tesi che il dialogo tra gli operatori e la società potrà ripartire solo con lo start up degli operatori stessi, ma a patto che essi sappiano assumersi la fatica di ascoltare le dinamiche sociali, abbiano l’autorevolezza di lasciarsi investire ma non esaurire dalle domande di sicurezza, siano radicati sui territori.

L’occultamento delle peculiarità

Cosa si chiede al Sud, di cui sono parte, quando si propone di riaprire il dialogo degli operatori con la società? Certo, in generale possiamo e dobbiamo parlare di operatori sociali, di società e di bisogno di sicurezza, ma questi termini nel Mezzogiorno si declinano diversamente dal resto d’Italia. Ad esempio, il dialogo dei servizi con la società, tranne eccellenze rare e puntiformi, non si è potuto o saputo o voluto mai aprire, in quanto storicamente i servizi sociali sono rimasti a lungo inesistenti o inconsistenti o occupati dalle clientele politiche. E quel periodo non è ancora finito.
Il territorio subisce il controllo più dalle mafie che dallo Stato; pertanto i temi della sicurezza presentano peculiarità aggiuntive e qualitativamente differenti rispetto a quelle generali di cui si parla quando esprimiamo a livello nazionale un bisogno di sicurezza.
Gli operatori sociali dei territori del Sud sono essi stessi investiti dalla responsabilità di fare letture locali competenti, adeguate, circa il bisogno di sicurezza esistente, bisogno che non è legato solo ai temi dei rom o degli immigrati, ma anche a quelli delle mafie, della disoccupazione, della malasanità, della carenza di servizi e infrastrutture, delle scarne esperienze di lavoro sociale e di cittadinanza attiva, e così via.
Come intervenire sui confini tra la sicurezza sociale e la sicurezza pubblica in territori nei quali la sicurezza pubblica viene da una parte richiesta e dall’altra ostacolata? Non è così a Napoli per la spazzatura, a San Luca per le faide e i latitanti, a Palermo per il racket o a Bari per il contrabbando? In luoghi grandi come regioni, quale dialogo realistico si potrà riaprire con la società reale?
Questa via sociale «dal sociale» al Sud fu provata tanto tempo fa e chi ne riparla, citando quel periodo pionieristico con Zucconi, Dolci, Marselli, Fofi, Olivetti, Rossi Doria e altri e altre, ne richiama la possibile ripetibilità. Questa è una scommessa imprescindibile, che non si può rinviare, entro territori in cui nel linguaggio comune il termine «sociale» risulta sbiadito, vissuto in ambiti di solidarietà corte.