Quelli che… al disagio si ribellano
di Giacomo Panizza
Il disagio di non fare anche la tua parte
La disperazione indicibile di quattro bambini rom avvinghiati mentre bruciano ci fa avvertire il disagio dei genitori che fuggono alla vista delle fiamme divampanti nella roulotte; di chi si mette a telefonare ai pompieri e al 118; di chi apre un procedimento giudiziario ficcando in galera quel papà e quella mamma; di chi scrive la notizia pensando a come commentarla; di chi la legge inquadrandola di destra o di sinistra; di una cultura balbettante su questi temi; di chi non riesce a digerire come mai in una città come Livorno, e in una regione “sociale” che vanta una storia di impegno popolare e istituzionale, non c’erano adeguati operatori e servizi per curare quel disagio, né politiche sociali all’altezza di prevenirlo; di chi si stufa di riparlare dei rom dei quali sa già tutto; di una società che si reputa normale permettendo e sopportando che tali orrori accadano. O no?
Quattro piccoli arsi vivi, loro e solo loro, hanno subito da vittime un mondo di disagio provocato e tollerato dagli altri, adulti e istituzioni, cultura e società, rimasti identici, tali e quali, anche dopo “l’incidente”. Senza subire il disagio nemmeno come imbarazzo psicologico o fremito morale. Del disagio, e di chi lo cura, se ne può parlare in tanti modi; però, perché non reagire, perché non parlarne cercando e sperimentando opzioni alternative? Ribellarsi costruttivamente non è un moto ingenuo e velleitario della coscienza. Credo che occorra cambiare paradigma, che sia necessario parlare molto anche dell’agio e sperimentare culture, relazioni sociali, servizi e iniziative di promozione dell’agio e non solo di tamponamento del disagio. Il “normale” costume di una società, l’etica di un popolo, di fronte a simili episodi di disagio che genera vittime, spinge a criticare e a protestare. E anche a reagire. Almeno a ribellarsi per fare in modo che certe cose orribili non accadano più. O no?Davanti a bambini carbonizzati, agosto 2007 in Italia, è cinico rimbalzarsi le responsabilità tra famiglia, società, assistenti sociali, enti locali, polizia, stato. O assurgere ai massimi sistemi incolpando la cultura dell’indifferenza (comunque colpevole) o dare addosso alla solita politica (pure colpevole), timorosa di perdere i voti qualora affronti con l’intenzione di risolvere l’esclusione sociale dei rom. Nel teatrino dello scaricabarile ciascuno appare o ingiustamente innocente o superficialmente colpevole. Piuttosto, la costituzione “di carta” fino a ieri poco seriamente assunta dalla comunità nazionale e causa oggi di “disagio” alla società dei due terzi che sta erodendo il patto sociale allora condiviso, insieme alla debolezza di altri fattori valoriali e sociali, consentono alla comunità di sfilacciarsi e a ognuno di pensare di poter vivere e fare da solo e di reputarsi responsabile di nessun altro, nemmeno dei bambini. “Il disagio e chi lo cura” è un tema a due fuochi. Da una parte vi si colloca il disagio fatto di persone e relazioni, di situazioni di sconfitta e significati monchi, di bisogni e di notorie carenze di strumenti; dall’altra si mette chi lo cura, opera, programma, interviene, verifica. Ma questi due fuochi non rappresentano la dimensione completa del disagio. Lo semplificano troppo. Bisogna andare oltre. Limitarsi a questi due fuochi oltre che riduttivo occulterebbe altre radici, altre cause e altri effetti altrettanto importanti del disagio diffuso. Ad esempio, rischieremmo di dover concludere che il disagio della droga è di chi si droga e solo suo; o d’altro canto di attribuire a chi cura il disagio delle dipendenze un po’ tutte le disfunzioni individuali e sociali connesse con l’universo droga, perché chi si prende cura della persona in situazione di disagio fa – bene o male – “solo” l’educatore e non anche il carabiniere, opera per la prevenzione sociale e non per la repressione, cura il disagio della persona tossicodipendente ma non le cause generali della diffusione delle sostanze stupefacenti. Un po’ come dire che il mondo della droga ce l’ha in carico lui. Mi pare che esageriamo!Qui, oltre che porre a tema il disagio e chi lo cura, ci rendiamo conto che occorre mettere in gioco anche qualcun altro e qualcos’altro. Qui occorre anche reagire al delirio di onnipotenza di chi potrebbe pensare che il disagio lo possa e lo debba curare lui e nessun altro. Qui occorre smascherare il bluff di chi opera pensando di contrastare e superare il disagio considerandolo in sé e per sé, come fosse un’area o una cosa o un problema circoscrivibile, isolandolo dai contesti e dai molteplici fattori umani, culturali, economici, sociali, etnici, informativi, psicologici, e così via, che invece entrano in gioco a provocarlo e riprodurlo. Ci sono utili idioti persuasi di poter curare il disagio delle persone individuandolo in esse, “curando” certe loro parti cosiddette malate; ci sono anche utili idioti che pensano di sanare certi disagi sociali stigmatizzandoli in categorie sociali e recintandoli in servizi apposta per loro che sanno di “fabbriche, scuole e prigioni”, ma relegando “i disagiati”, le persone concrete, in contenitori dell’abbandono chiamati case della salute o comunità o gruppi-famiglia o con altri eufemismi agendo un controllo sociale legalizzato e remunerato. Ci sono idioti puri che con teorie, leggi, populismi e promesse elettorali, raggruppano persone in categorie di problematiche stigmatizzandole come atomi del male, untori, cause prime del disagio sociale generale. Qui insomma occorre onestamente che ci troviamo d’accordo sul fatto che per curare il disagio è fuorviante demonizzare i più disagiati; che non basta solo (o non basta più) predisporre prestazioni professionali di bravi esperti singoli, ma servono interventi competenti e solidali determinati dalla società e messi in campo anche dalla collettività civile e dai territori; che giova a poco o niente avere i servizi sociali senza chiare e efficaci politiche sociali per la scuola, la salute, l’occupazione, la partecipazione attiva; che il terzo settore è destinato a produrre nessun cambiamento utile alla gente, all’uguaglianza e alla democrazia se permane nell’alveo tecnico specialistico di servizi in se stessi di qualità ma senza ricadute di coesione sociale e di mutamento solidale tra persone e società, istituzioni e raggruppamenti sociali.
Occorre ribellarsi e reagire costruendo non solo prestazioni e servizi sociali rivolti al disagio ma anche alla cosiddetta normalità. Il disagio, sia esso patito individualmente, o pensato come fosse un bubbone malato di una società invece sana, o ritenuto come la conseguenza brutale di una società ingiusta, o altro ancora, va comunque situato nei contesti e nelle dinamiche strutturali che lo provocano, che lo tollerano, che perfino lo gestiscono. Di fronte al disagio oggettivo, si deve però smettere di parlarne soltanto, di vederlo ma non fare niente, di mostrarlo su riviste patinate chic e su reportage televisivi fuori orario, di coglierlo nelle sofferenze profonde di persone, gruppi, etnie, “categorie”, ma rimanere alla finestra a guardare. Davanti a una baracca-roulotte in fiamme si può continuare a chiacchierare di disagio rassegnandoci al pensiero che non possiamo né organizzarci né fare qualcosa?
Curare il disagio non è solo un mestiere
Nelle società moderne, e un po’ ovunque oggi nel mondo grazie ai mass media globalizzati, il disagio si legge con occhi diversi che nel passato. Talvolta addirittura lo si percepisce in maniera più acuta. Una qualsiasi carenza di opportunità, un tipo di povertà materiale o immateriale, una sensibilità esistenziale o identitaria, e così via, si percepiscono con intensità differenti a seconda se sei in città o in campagna, se svolgi una professione o un’altra, se frequenti un giro di persone diverso, se sei di una certa zona del sud o del nord, e via di seguito con altri paragoni e altre combinazioni di cui i sociologi sono maestri. La fatica del disagio non è più un vissuto solo di persone, situazioni, categorie “date”, e la lettura delle sue forme si è fatta più complessa e raffinata anche nella popolazione, la quale la interpreta con l’abbiccì della paura e della minaccia, evocando insicurezze e invocando interventi polizieschi, di difesa piuttosto che di cura. Riscuotono successo quei politici che con pugno di ferro promettono sicurezza illudendo di far pulizia degli (ap)portatori di disagio. Quei politici diventano contagiosi; basta leggere alcune dichiarazioni ultimamente rilasciate da altri politici, della sinistra-sponda-opposta, che fino a ieri affermavano e promettevano programmi diversi sull’immigrazione, sulla droga, sui giovani, sul carcere, sulla psichiatria, insomma su tutti i temi del disagio. Quei politici e questi altri hanno bisogno di utili idioti disponibili a prendersi cura del disagio loro e dei benpensanti.
In un simile clima culturale, chi cura il disagio non può pensare che sta svolgendo una professione neutra: non lo è operativamente né culturalmente, socialmente né politicamente. Non fa un semplice mestiere, aiuta o imbriglia. Chi cura il disagio deve discriminare per costruire uguaglianza; deve operare per costruire cittadinanza; deve far accadere una continua messa in circolo delle risorse umane, culturali, istituzionali; deve supportare l’autonomia delle persone delle famiglie e dei gruppi sociali, specialmente quelli deboli; deve avere di mira la “salute” e il generale ben-essere della società. Tutto questo dovrebbe essere fatto per curare il disagio e per il suo superamento. Però, a fronte di una maggiore consapevolezza del disagio, non si sono evolute più di tanto le pratiche di contrasto, di lotta, di ribellione, di costruzione dell’agio. Si vedono troppi servizi pubblici rintanati in meri interventi di ufficio (in tutti i sensi), mentre il terzo settore è in panne, spesso ridotto a fare prestazioni più che coesione sociale, servizi sociali più che politiche sociali. Sarebbe ora di svelare la persistente enfasi della cura del disagio come missione, religiosa o civile non cambia nulla. Sarebbe anche ora di finirla con il sopportare mestieranti del lavoro sociale dedicati alla cura del disagio, remunerato o gratuito, svenduti al comune o alla cooperativa senza capacità di costruire alternative alla vita delle persone prese in carico.
Sulle innumerevoli possibilità pratiche di contrasto esiste un analfabetismo disarmante. È più ovvio procurarsi pastiglie, polverine, gocce, droghe anche illegali, per fronteggiare autonomamente temporanee o ricorrenti situazioni di disagio. Lo si fa anche coi bambini. Si sedano le ansie agendo sui sintomi. L’idea di lottare contro le cause e gli effetti degradanti del disagio fatica a entrare nell’immaginario collettivo; diviene improponibile il pensiero di conviverci, di riuscire a non reputarlo sempre e comunque un problema che si può risolvere o eliminare. Non si considera che non è possibile prefigurare sempre “la guarigione” e che è percorribile anche l’impegno per la sua trasformazione in una dimensione più umana, sopportabile, vivibile, con-vivibile. L’analfabeta del disagio è portato a commettere l’idiozia di prendere la scorciatoia della fuga dalle persone in situazioni di disagio confondendole e persino identificandole col disagio. Lo cataloga come una sfortuna casuale o un tocco di destino crudele. Non intende la prospettiva indicante che prendersi cura del disagio porta a fare un tuffo nell’umanità. Reagire al disagio è una questione antropologica, di significati umani e perciò culturale, di democrazia e perciò di welfare: curare il disagio è declinare i rapporti umani, le politiche sociali, i servizi pubblici e privati, le tecniche e le metodologie di intervento, dentro significati umani. Pertanto non ci dobbiamo meravigliare se esistono persone, professionisti che affrontano la scommessa di curare il disagio anche se esistono alte probabilità di fallimento; che stanno vicino a chi prende loro tempo, a chi non parla, a chi si perde; che operano con chi è sguarnito di abilità minime o deprivato delle sue possibili capacità e dei suoi diritti. È una dimensione umana “materna” delle professioni di cura del disagio, una dimensione che tocca dal di dentro uomini e donne che si tuffano nel disagio di altri uomini e altre donne per “abitarlo” con loro, per combatterlo e poterne uscire. Insieme. Co-gestendo il disagio si può e si deve essere utili senza essere idioti. Il politically correct viene messo in subordine ai bisogni-diritti umani, a qualcuno ora qui, il quale senza una vicinanza “calda” e un aiuto competente perderebbe speranze, pane, senso della vita, capacità. Insomma non è sempre idiota colui o colei che si prende cura del disagio, che abilita le relazioni umane, accresce le capacità, socializza i territori – specie in contesti di mafie -, combatte lo stigma della diversità-come-inferiorità innescando “logiche” paritarie tra “assistenti e assistiti” nelle dimensioni relazionali, politiche, pedagogiche degli interventi. Costoro affermano che con la loro professione e la loro organizzazione non possono saltare a pie’ pari la responsabilità di prendersi cura di qualcuno ora qui che non ce la fa a vivere dignitosamente da solo. Rifiutano l’atteggiamento di “suonare il piffero per la rivoluzione” – di vittoriniana memoria. Per un principio elementare di affermazione di essenzialità e di priorità c’è chi cura il disagio volendo essere utile alla dimensione antropologica “prima” che a quella politica, tanto meno partitica. Insomma, curare il disagio non è un mestiere esecutivo privo di responsabilità, non è un mestiere operativo senza intelligenza, non è un mestiere che si possa svolgere da soli; è un mestiere che richiede preparazione, capacità di relazione, etica e etica professionale, acume politico, empowerment e dignità dei destinatari della “cura”, abilità di coinvolgimento della comunità locale, passione per l’agio e per la felicità che si co-costruisce cogli altri nella vita delle e tra le persone. Curare il disagio non è solo un mestiere. Oppure è un bel mestiere… a certe condizioni!
Alcuni punti chiave per fronteggiare il disagio nella crisi strutturale attuale
L’innegabile crisi dello stato sociale, con la diffidenza serpeggiante nelle comunità locali verso stili di socialità friendly, confermano che nel Paese stiamo attraversando una crisi strutturale e non passeggera. Nelle crisi il peso del disagio cade doppiamente su chi già è debole e diminuisce le risorse a disposizione di chi lo cura, il quale è sfidato ad aggiornare e a ricalibrare il suo approccio. Chi cura il disagio può produrre ancora margini di movimento per non trasformarsi in utile idiota: i servizi, gli operatori pubblici e privati, il territorio, il terzo settore, i diretti cittadini utenti, le organizzazioni sociali, lo stesso volontariato di advocacy e così via, sono ancora leve su cui mettere mano per dire fare cambiare tante cose. Nella manciata di iniziative strategiche attivabili, ne ritengo prioritarie quattro.
Uno. La responsabilità di prendersi cura del disagio è pubblica, è politica. Fronteggiare il disagio non è cosa di buon cuore o un “fai da te” dell’assistente; nella nostra repubblica ha una rilevanza giuridica per cui occorre prevedere politiche sociali, promulgare leggi adeguate e non leggi manifesto, creare servizi e dedicare personale, risorse e strumenti, titolare professionisti. Il disagio, come parola per dire bisogno materiale, sofferenza fisica o esistenziale, non autonomia, limite, disuguaglianza e altri termini significanti la mancanza di pari opportunità tra cittadini, nella nostra costituzione richiama ad una solidarietà per certi versi libera ma per altri versi obbligata. Pertanto, curare il disagio non è compito anzitutto degli enti non profit o del privato for profit, nemmeno è delegabile agli operatori pubblici ma coinvolge interamente la collettività, chiama in campo votati e votanti, l’economia di un popolo, i suoi valori, le sue pratiche di vita comunitaria. La responsabilità di garantire servizi efficaci rimane di livello politico. Sarebbe apprezzabile che gli enti locali smettessero di abdicare progressivamente alla programmazione, gestione e verifica diretta dei servizi alla persona e alla collettività. Finalmente si va allargando un rinnovato movimento di alleanze tra più attori impegnati nella cura del disagio, che ritornano a pensare, a studiare, a fare ricerca, a sperimentare, a operare prefiggendosi lo scopo di responsabilizzare la politica e gli operatori pubblici e privati, di rinforzare le capacità di coloro che si rivolgono ai servizi attraverso programmi di empowerment e di rinforzo di reti sociali solidali.
Due. La lotta al disagio deve ridare priorità alle finalità che le sono proprie, quelle di promozione dell’agio, e non venire contraffatta in clientele partitiche o resa funzionale a bisogni occupazionali. I servizi sociali “appartengono” in primis a quei cittadini e a quelle persone che ne abbisognano, come a creditori di autonomia e di libertà. Il volontariato e i gruppi di promozione sociale hanno scritto una “bella” stagione storica riferendosi a questi valori, in un tempo in cui i problemi sociali venivano automaticamente tramutati in ricoveri e in separazione delle persone fragili e vulnerabili da quelle ritenute “normali”. Nei contenitori dell’abbandono non solo non si curavano le persone ricoverate ma nemmeno si prefigurava alcuna educazione utile al loro rientro nella società. Di certi ricoveri poi si conoscono le tristi vicende di degrado, di violenze e stupri, di aggiunta di disagio al disagio. Proprio in reazione a uno stato di cose disumanizzanti nella gestione separata del disagio sono iniziate alcune “avventure” sociali, esplicitamente indirizzate a mettere al centro dei servizi le finalità di umanizzazione e di liberazione. A metà degli anni sessanta, da gruppi di ispirazione ecclesiale, o poco dopo dall’alveo dei servizi pubblici, sono nate piccole ma incisive pratiche di cura del disagio che hanno “detto” la fattibilità della tutela della dignità umana degli “utenti” dei servizi, che hanno rimesso in gioco il ruolo di potere delle professioni di cura, che hanno connesso il tema della diversità con i temi della giustizia e della democrazia. Hanno rappresentato una rottura con il passato, facendo leva sulle finalità dei servizi di cura del disagio, e oggi si può – e si deve urgentemente – riandare in questa direzione.
Le finalità della lotta al disagio dovrebbero trovare posto anche nella formazione di chi opera e di chi progetta e verifica. La formazione ai metodi e alle tecniche, all’organizzazione e alla programmazione e altro, sono strumenti necessari senza i quali non si va da nessuna parte; ma la formazione alla mission del servizio, alla corrispondenza con un codice etico, all’attenzione alla dignità della persona – sia essa assistita o assistente – va prioritariamente sostenuta, altrimenti si snatura il servizio e la stessa professione di cura.
Tre. Il disagio va riletto anche con paradigmi di senso e relazionali. Nei principi e fondamenti delle professioni di cura si è affermato – finalmente! – il concetto di persona. Sia il paradigma laico che ritiene la persona un valore assoluto sia quello religioso che la ritiene sacra, entrambi richiamano i principi mutuati dal motto triadico dell’illuminismo francese: libertà, uguaglianza, fraternità. La stessa costituzione italiana mette libertà e uguaglianza a carico della solidarietà obbligata quando proclama di dover garantire la scuola per tutti, la salute pubblica, i diritti eccetera. Fino al momento in cui abbiamo vissuto un arco storico di crescita economica, i programmi di lotta al disagio si sono basati su questi paradigmi – salvo poi non metterli sempre in pratica. Ma ora non è più così. Ora la crescita economica si azzera e la decrescita viene percepita solo materialmente e consumisticamente. In questo frangente la novità è che si sta scoprendo, con buone ragioni, l’importanza di promuovere anche la terza componente del motto francese: la fraternità.
Vi è un’evidente fatica a condividere il termine “fraternità” poiché evoca concetti religiosi confliggenti con alcuni di quelli laici e con tutti quelli laicisti; però dal di dentro delle situazioni di disagio, lavorando con le persone concrete, si riscopre sempre più l’importanza della costruzione di rapporti umani caldi, familiari in più sensi, di fiducia, di coesione sociale, di accoglienza, di contrasto all’indifferenza e a qualsiasi discriminazione, ovvero l’esigenza di dimensioni umane che riportano alla fraternità, a generarla, nutrirla e difenderla. Insomma la fraternità, accanto alle conquiste politiche di libertà e di uguaglianza, introduce l’idea di persona-in-relazione, che si realizza massimamente nel rapportarsi con le altre, che cresce se aiutata e se aiuta, se scambia e dona. Introduce un’idea di società fraterna oltre che libera e uguale.
La fraternità è un bene relazionale fragile perché richiede capacità di reciprocità. Va oltre l’individualismo. È un capitale umano potente che si scontra con altri capitali, come quello finanziario, economico, fisico, e vari poteri che – specie con questa globalizzazione – lo combattono. La fraternità mette in crisi una certa politica perché la vuole più sociale, l’economia perché la vuole più civile, la cura asettica e specializzata del disagio perché afferma che chi cura il disagio deve non solo operare ma anche sostare nelle relazioni, in vere relazioni umane.
Quattro. Il terzo settore si prende cura del disagio e dei diritti-doveri di cittadinanza. È lui l’utile idiota di cui si parla pur trovandosi nella sua fase di espansione più alta per la sommatoria dei servizi che va gestendo. Nessuno gli offrirà alcun ruolo, tanto meno la politica attuale né quella che si sta riscaldando per scendere in campo domani. La politica dei politici di casta e dei partiti fantasma non pare propensa a concedere voce al sociale organizzato. Gli offrirà briciole per adescarlo in rapporti di subalternità e per mettere il marchio al capitale sociale accumulato con fatica nell’intessere relazioni, creare saperi, mediare conflitti, intraprendere nuovi servizi, comporre interessi diversi, ripensare economie, sperimentare nuove professioni, eccetera. Il terzo settore deve tutelarsi e rappresentare lui stesso tutto questo capitale immateriale e di qualità.
Nel fare propria questa soggettualità, la controparte è nel terzo settore stesso, il quale deve risolvere al suo interno il conflitto tra l’ala movimentista che sostiene la voglia di rilancio della sua soggettualità sociale e l’ala gestionale che sostiene invece la miriade di piccole e medie aziende di lavoro sociale che si guadagnano il pane sull’indotto esternalizzato dall’azienda stato-comuni-distretti.
Questo dibattito non si sta facendo a tavolino. Si svolge piuttosto nelle dinamiche delle iniziative in cantiere e nelle riflessioni sulle attività concrete di “cura del disagio”. Ciò che si dibatte è il suo essere utile idiota o no, ovvero se il terzo settore sia a sostegno di un modello di repubblica di cittadini detentori di diritti oppure di un modello in cui le persone sono clienti di servizi e beneficiari di prestazioni. Il filone movimentista risulta numericamente minoritario ma non è più debole, è costituito da puntiformi realtà di base, da associazioni, gruppi e cooperative, ha buone ragioni per credere che nel suo mondo e dentro altri mondi, quali le chiese, le università, le associazioni di protesta e di proposta per un altro mondo possibile, può trovare motivazioni e strumenti per riavviare una nuova stagione di espansione dei diritti di cittadinanza.
La precedente onda lunga delle organizzazioni sociali impegnate a curare il disagio che si formò a metà degli anni settanta del secolo scorso non scaturì dal nulla. I fermenti di quel periodo erano a loro volta debitori di pensieri, utopie, bisogni, sperimentazioni, pressioni e lotte. Occorre dar vita alla futura onda lunga. Il terzo settore “movimentista” radicato nei territori, anche senza l’alleanza del terzo settore “gestionale”, sa di non dover mancare l’appuntamento.