Serrastretta: Intervista a Don Giacomo Panizza a margine dell’incontro voluto dalla Pro Loco

di Donato Parente
La presentazione del libro di don Giacomo Panizza “Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso” ha visto una partecipazione popolare assolutamente disarmante (nell’accezione positiva del termine) a Serrastretta. Forse le ragioni del successo insperato di questo evento, a metà strada fra cultura e impegno sociale, sta nella forma con la quale è stato presentato alla cittadinanza: in effetti, nell’intento degli organizzatori, l’evento non è stata concepito come la consueta presentazione di un libro, ma come “un momento di riflessione, una conversazione confidenziale ma di spessore sull’atteggiamento legalitario in un senso più ampio, su come si possano di fatto concretizzare alcune buone pratiche quotidiane nelle nostre realtà e su come alcuni soggetti del tessuto sociale possano intervenire per agevolarne la comprensione e favorirne l’attuazione”. Protagonisti dell’evento sono stati don Giacomo Panizza (autore del libro) e Nino Amadore, giornalista de “Il Sole24”. L’intervista seguente (effettuata al termine della presentazione) si propone di “approfondire” alcune tematiche sollevate da Panizza nel corso della presentazione.

Storicamente, il forte legame tra sud e feudalesimo ha impedito lo sviluppo di un’attività economica pari a quella settentrionale. Secondo te è corretto affermare che il sud rappresenti, per le mafie, la fonte di legittimazione culturale e il nord quella economica?
“Sì, l’esportazione del modello mafioso al nord appare quasi come un’evoluzione della criminalità organizzata: qui al sud il fenomeno mafioso ha come d’azione la famiglia e il territorio, mentre al nord ha un modo d’imporsi diverso. Mentre qui al sud è il territorio ad essere controllato, al nord sono controllati gli affari. Quindi, in un certo senso, è realmente un’evoluzione economica del fenomeno”.

Dicevi prima che “al nord c’è quasi un’incapacità di concepire il fenomeno mafioso e al sud un’incapacità di interpretare e contrastare il fenomeno”. Pare che l’unico grande comun denominatore sia l’assenza dello Stato. Sei d’accordo?
“Lo Stato è distratto. Assente del tutto no, però non è possibile porre in essere determinati meccanismi di contrasto e poi non utilizzarli a dovere. Spesso sono le leggi a penalizzare il funzionamento della giustizia. Questo vuol dire che bisogna fare leggi nuove. Da questo capisci come lo Stato non stia esattamente prendendo “il toro per le corna”: sembra sempre che ci sia una certa timidezza fatta di paroloni che non trovano fondamento nella realtà. Insomma, sembra quasi che le istituzioni non siano in grado di fronteggiare il problema. Paradossalmente, è come se concepisse e accettasse di buon grado un altro Stato al suo interno! È una cosa assurda!”.

Tu hai trascorso più di trent’anni in Calabria: quali sono i cambiamenti più significativi che hai notato a livello socio-culturale?
“Oltre alla presa di coscienza del mondo giovanile e di quello femminile, noto con piacere una ripresa delle attività economiche. Forse la gente sta iniziando a comprendere la necessità di avviare progetti di imprenditoria locale. Mi auguro che i calabresi puntino sempre più sulla micro economia piuttosto che sulla macro economia”.

Parlando dei tuoi primi tempi in Calabria hai affermato: “Mi si era cambiato il mondo”. Da questa affermazione traggo lo spunto per la prossima domanda: secondo te da cosa dipende la scarsa consapevolezza del popolo calabrese?
“Molti calabresi si adagiano su una Calabria sempre uguale, mentre gli emigrati sono in grado di fare i paragoni con altri contesti. Altrove ci sono delle attenzioni civili che qui non esistono per il semplice fatto che non sono mai esistite. Il passaggio culturale potrebbe consistere nel trovare un nuovo modo di fare e di essere. Il problema è l’organizzazione: è ora di mettere in pratica nuove esperienze, in cui la popolazione impari a gestire la cosa pubblica”.

Durante la presentazione del libro hai detto che il modello familista si combatte lavorando insieme. Ma come si convince la gente a lavorare insieme?
“Io ho cominciato insegnando ai bisognosi l’esigenze di collaborare. Ti racconto un aneddoto: con un gruppo di ROM di Lamezia Terme abbiamo messo su una cooperativa di raccolta differenziata porta a porta; lavorando insieme, questi ROM riescono a guadagnarsi da vivere lavorando onestamente. Lavorando insieme. È da questo che dobbiamo partire”.