Una storia critica del terzo settore, per rispondere alle sfide dl presente e interrogarsi sul futuro

di Giacomo Panizza

«Abbiamo ballato in tanti una bella stagione culturale»

Il terzo settore
promotore e
difensore dei
diritti sociali

Si può affermare che il terzo settore in genere, in Italia, al suo formarsi si sia caratterizzato come sfera di vissuti che lo connotavano come «mondo» promotore e difensore di diritti sociali? Sì, per parte mia lo posso e lo debbo affermare. Altrimenti non saprei nemmeno fornire spiegazioni plausibili alle innumerevoli iniziative avviate e ai molti servizi realizzati insieme a tanti altri, singoli e gruppi. Gente che ha profuso energie facendosi carico di persone e situazioni di disagio e lottando per ideali di giustizia.
Impegnarsi per i diritti è stata la molla scatenante di molte delle esperienze che ora, in gran parte, si sono trasformate in servizi stabili: sociali, sociosanitari, promozionali, di prevenzione, di mediazione ed educativi. Basti dire che non pochi servizi, sperimentati nella stagione di fine anni settanta, sono stati sentiti come esperienze di vita, anche al punto da sottovalutarne ingenuamente quegli aspetti di programmazione, di organizzazione e di sostenibilità che oggi, nello stesso terzo settore, vengono riconosciuti necessari ex ante.
Quel clima diffuso di sentire sociale certo si nutriva di una letteratura ricca di idealità egualitarie (era la cosiddetta «epoca dei grandi maestri» a livello mondiale e di grandi riforme legislative a livello nazionale). Quel clima stimolava dibattito nell’area dei servizi pubblici e in quella del «privato sociale» (per esempio, in relazione alla proposta e attuazione di varie leggi quali la riforma psichiatrica, il riordino dei servizi sociali, la riforma carceraria, quella sanitaria, l’obiezione di coscienza al servizio militare ecc.).
I vissuti di solidarietà, connessi col lavoro sociale, si collocavano dentro una cornice in cui i diritti umani venivano concepiti senza frontiere geografiche o culturali, e accomunavano «anime» differenti, le quali su altre questioni culturali o politiche si collocavano persino su fronti tra di loro contrapposti. E adesso?

Un cammino
personale,
ma non solo

La mia esperienza personale incomincia molto tempo fa, intrecciando un momento storico che indubbiamente mi ha aiutato a cogliere da un punto di vista favorevole la genesi e l’evolversi, o l’involversi, del terzo settore. Allora, dal 1974 al 1978, mi trovavo a frequentare, per conto delle Comunità di Capodarco, un «luogo» di confronto tra realtà italiane di impegno socio assistenziale, di ispirazione ecclesiale, avviato con pochi ma precisi obiettivi: anzitutto, col proposito di sganciare enti e servizi dall’ombrello di «madre chiesa»; inoltre, con l’obiettivo di accompagnare il loro/nostro cammino laico, di autonomia e di responsabilità; infine, sostenendo la creazione di movimenti o coordinamenti di secondo livello tra le stesse organizzazioni.
In un gruppo di persone «con le mani in pasta» sui temi sociali e in stretto collegamento con la Caritas Italiana, ci siamo trovati a escogitare un nome per l’area della solidarietà, al fine di enfatizzarne l’importanza e definirne meglio i contorni. In questo frangente si è rielaborato il significato del termine «volontario» (che nel linguaggio comune allora indicava coloro che mettevano la firma nelle Forze armate) e, non senza difficoltà anche tra di noi, lo abbiamo applicato all’impegno sociale di persone aggregate in gruppi o in enti privati. Quel periodo ha fatto un po’ di storia e letteratura, ha coniato frasari e stabilito significati, al punto che taluni – purtroppo anche tra gli addetti ai lavori – intendono ancora oggi il termine «volontariato» come sinonimo di «terzo settore».

La «mitica»
stagione fondativa

Dal 1976, con la Comunità Progetto Sud e la Caritas di Lamezia Terme, ho incontrato tantissime persone che si proiettavano nelle iniziative sociali, compresi i primi interventi di protezione civile partecipati massicciamente «dal basso», quali per esempio la presenza in Irpinia in seguito al terremoto del novembre 1980. Ho percepito quel periodo come «mitico» e fondativo. Per le idealità di giustizia e uguaglianza e per i valori che ci accomunavano, specialmente quelli emergenti dalle riflessioni sui testi del Concilio Vaticano II, pensavamo che vi fosse ben poco da mutuare dal sistema assistenziale vigente pubblico e privato, entrambi lontani dal tema dei diritti, entrambi caratterizzati da rapporti asimmetrici tra assistenti e assistiti, entrambi con servizi da «umanizzare» e democraticizzare. Ci sentivamo in una situazione in cui c’era molto da inventare e da rischiare. Fummo facilitati anche da fatto che esisteva poco tra regole, vincoli standard operativi e professionali.
Il filo rosso di valori e princìpi che collegava le organizzazioni coinvolte era costituito dai diritti delle persone, dei poveri soprattutto: questi, in particolare, avrebbero dovuto emergere come soggetti di cittadinanza e non come oggetto di assistenza. In molti gruppi era esplicito il nesso tra i temi dell’impegno sociale e i temi della pace e quelli della responsabilità verso «il creato». I metodi venivano in prevalenza estrapolati dalla teoria e dalla pratica della non violenza, distanziandosi nettamente dalle metodologie delle Brigate Rosse.
Ridetto con l’enfasi del ricordo, oltre ai temi della giustizia e dell’uguaglianza, si mirava a sperimentare una cultura di fraternità diffusa nelle relazioni umane e sociali. Col tema dei diritti affermavamo l’importanza dei doveri: ovvero che le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di fare al meglio la loro parte per il corretto funzionamento degli ospedali, delle scuole, dei servizi pubblici normali; dovere di solidarietà pubblica che vale anche per la società in genere, gli operatori dei servizi, le stesse persone assistite e i gruppi di «volontariato».
In verità, occorre rimarcare che non sono mancate difficoltà e fatiche dentro l’area cattolica proprio su questi temi. Vi erano più anime, più metodi, più princìpi, più pratiche di intervanto sociale. Vi era chi metteva al centro i «suoi» poverini e chi il tema dei diritti, chi la motivazione cristiana del volontariato e chi l’esito emancipante dei servizi, chi privilegiava fare «movimento», per stimolare le istituzioni, e chi addirittura non nascondeva di voler gestire da privato le attività di welfare in sostituzione e in alternativa del pubblico.

Creazione
di idealità,
formazione
di leadership,
assunzione di peso
culturale e politico

Si diffondeva la voglia di organizzarsi dal basso e di corresponsabilizzarsi nelle iniziative sociali. Giovanni Nervo era anima e teoria della scommessa in atto, Luciano Tavazza assumeva la leadership di questo movimentarsi, in altri eravamo partecipi e d’accordo: la coesione sulle idee e i programmi in comune era sostenuta da fiducia ed entusiasmo.
Con questa compagine, a quei tempi la più visibile nel mondo magmatico del volontariato, per scelta strategica si sostenne il Movi (Movimento di volontariato italiano) fin dalle sue origini. Si trattava di puntare a governare il sociale da parte del sociale stesso, appoggiandone l’evoluzione organizzativa e la linea politica dei gruppi. Si trattava di dotarci di pensiero autonomo e di metodi, di cultura e programmi sotto la nostra diretta responsabilità. Ben presto si comprese che si erano scatenati appetiti di potere sul sociale da parte di taluni partiti e che si stava ingenerando un problema di potere nel sociale da parte di enti e di raggruppamenti che andavano man mano incrementando e componendo il terzo settore. Eravamo di fronte a una situazione inedita, la quale andava affrontata dal di dentro, da noi stessi.
In quel preciso contesto storico si mise insieme quel gruppetto di preti che decise di dare avvio al Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) come federazione di gruppi già esistenti e operanti. Al di fuori della cultura e dei raggruppamenti di matrice cattolica, nella società italiana vi erano ben poche organizzazioni dedite a farsi carico diretto delle persone in situazione di emarginazione. Le molte lotte sociali fiorenti in quella stagione non erano ispirate tanto al tema dei diritti sociali quanto a quello dei diritti civili e politici. Ma quando il Cnca, alla fine degli anni ottanta, propose la campagna «Educare non punire», per contrastare certe scelte contenute nella proposta di legge governativa sulla droga e le tossicodipendenze, la quasi totalità delle sigle di impegno sociale, educativo, ecclesiale, sindacale, culturale si aggregarono (e inspiegabilmente il Movi si chiamò fuori). Comunque abbiamo ballato in tanti una bella stagione culturale. E la prossima?

Il mutamento di quadro

Alcune esperienze
non rientrano più
nel volontariato
tout court

L’iniziativa intrapresa come Cnca nasceva dall’ulteriore consapevolezza che la definizione «volontariato» non era in grado di contenere sia l’evoluzione di molte nostre esperienze, sia non poteva consentire la gestione complessa di alcuni nostri, e non solo nostri, servizi stabili. Per esempio: con quelli di Capodarco, insieme al Gruppo Abele, avevamo partecipato attivamente nel dare avvio alla promozione del Movi, privilegiandolo ad altre cordate; eppure ci accorgevamo che i servizi che gestivamo e quelli che andavamo creando (le comunità di accoglienza per le persone tossicodipendenti) non rientravano strutturalmente sotto la logica e la forma del volontariato, pur impiegando anche un numero considerevole di volontari e volontarie.
Capodarco, poi, non rientrava nemmeno in questa tipologia a causa del suo strutturarsi in convivenze, del suo fare comunità tra persone «sane» che vivevamo in comune con quelle «handicappate». Ritenevamo di essere dentro a «scelte di vita» e non a scelte di impegno sociale e civile attuate nel tempo libero o «dopo» aver svolto correttamente il nostro lavoro quotidiano. La vita in comune era il quotidiano, ed era difficile totalizzarla o come volontariato o come lavoro sociale.
Quando più tardi, a distanza di tre mesi dall’approvazione della legge nazionale sul volontariato, fu varata la legge sulle cooperative sociali, si determinò chiaramente la differenza tra «volontariato» e resto del terzo settore, e ben presto si intravide verso dove si stava andando.

Un clima
di ostacoli
più che di alleanze

L’avvio e la gestione dei gruppi poggiava su leader, operatori e sostenitori quasi tutti volontari. Vi era una sensibile presenza di sacerdoti, religiosi e religiose, coppie e singoli con una chiara matrice cristiana. L’imprinting dato da questi attori registrò alcuni conflitti – più o meno profondi – con la chiesa ufficiale sui temi della povertà e della giustizia sociale. Conflitti che sono inoltre intervenuti con la Democrazia Cristiana e con altri partiti al Governo, a causa della denuncia di carenze evidenti di servizi sociali e del rifiuto di mettere in agenda una legge quadro in materia socio-assistenziale (faceva specie avere al Governo un partito cattolico che non legiferava in materia di bisogni e diritti sociali, tanto che in alcuni elaborammo più volte bozze di legge-quadro sul welfare).
Difficoltà ne esistevano anche con l’opposizione, a causa del fatto che in definitiva, come volontariato e altre realtà di privato sociale, portavamo avanti modelli di gestione privata dei servizi, mentre i partiti della sinistra consideravano l’intervento sociale come esclusiva competenza dello Stato, o comunque del pubblico. La frase era: «Lo stato è necessario, il volontariato è facoltativo». Eravamo distanti non solo rispetto alla comprensione dei termini, ma anche rispetto ai concetti basilari di «Stato» e di «volontariato». Certo, allora la legge n. 328/00 era futuribile.
Lo scontro avveniva anche con i sindacati, specie in relazione alle questioni riguardanti l’umanizzazione dei servizi: negli istituti di ricovero (anche di matrice cattolica) stavano relegate tante persone; agli operatori, ai sindacati che li tutelavano, alle direzioni degli enti, era inviso il volontariato, che andava ad aiutare e a curiosare … e a denunciare.

Impegno
nelle relazioni di
aiuto individuali
e sottovalutazione
delle cause
socio/politiche

I punti messi a fuoco erano: la relazione d’aiuto, la socializzazione delle situazioni di esclusione, la critica all’indifferenza diffusa intesa come povertà di valori. Ma altrettanto a fuoco non venivano messe le politiche sociali pubbliche. Il mondo del volontariato, divenuto man mano privato sociale o terzo settore o non for profit, ha lavorato molto per rinforzare le organizzazioni al proprio interno, ma ha sottovalutato la debolezza provocata dalla carenza di politiche sociali pubbliche. Ha accettato con crescente evidenza la delega dei servizi alla persona e alla collettività che le amministrazioni statuali e degli enti locali andavano decidendo e attuando.
Le varie organizzazioni di primo e di secondo livello abdicarono in gran parte alla lotta per la responsabilità sui diritti che le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto assumere istituzionalmente. Inoltre, di fronte ai nuovi bisogni degli anni ottanta, quali il disagio giovanile e il dilagare delle tossicodipendenze, il Cnca ha faticato persino con alcuni suoi gruppi a sostenere teorie di intervento sociale che esso stesso aveva elaborato, come quella del «contesto competente», valorizzante le abilità delle reti dei territori, oltre che le capacità delle istituzioni. Purtroppo l’abbandono strisciante ma crescente delle politiche sociali da parte dello Stato e degli enti locali in generale, faceva il paio con un terzo settore che andava scommettendo più sui propri servizi che su quelli pubblici o su quelli promossi o promuovibili in collaborazione con il pubblico, fornendo così alibi ad un pubblico che stava abdicando al suo ruolo di garante dei diritti.

Passaggi
sostanziali nel/del
terzo settore

Durante sei lustri si è potuta notare una trasformazione concettuale, e non solo, dell’impegno sociale. Nelle comuni riflessioni iniziali – e nella letteratura del Cnca lo si può ancora riscontrare -, l’impegno sociale veniva inteso come impegno di persone, d’individui e di gruppi, a operare nel campo sociale; inoltre era inteso come impegno verso persone in difficoltà, situazioni di fatica, emarginati, verso cui ci si riteneva corresponsabilmente solidali. E ancora, era inteso come impegno verso il mondo (del nostro immaginario collettivo?), pensando di puntare a costruire società più accoglienti. Era un po’ il concetto francese di engagement: cioé non solo il mio impegno, ma anche il perché e il per chi e verso chi e verso quale progetto di società mi impegno. In definitva era un concetto prefigurante mutamento sociale, col sogno di un futuro per tutti più umano nelle relazioni e più giusto nelle sue «strutture». Questo appassionava.
Considerando la storia del terzo settore, riassumendo in sequenze, ritengo che si possa dire che all’inizio si è sottolineato maggiormente il vissuto motivazionale e politico (da «polis»); poi il volontariato promozionale; poi ancora la gestione manageriale dei servizi; infine, l’impresa sociale. Sono snodi, stadi utili e necessari, dai quali non credo si debba o si possa tornare indietro. Sono andati un po’ ridefinendo logiche, aspetti giuridici, status professionali degli operatori e posizionamenti di tutto il comparto del cosiddetto «terzo settore» nei confronti del primo e del secondo settore. Insomma, la storia è andata avanti.

La storia è andata
avanti, non così
la memoria storica

Invece, ciò che non ha camminato di pari passo ritengo sia stata la memoria storica. È raro trovare oggi chi, come allora, sostenga il mix che caratterizzò gli «inizi», ovvero un terzo settore intenzionato a comporre la promozione e la gestione di servizi con la promozione e la tutela dei diritti (dei cittadini-utenti). Questa idea urge nella memoria di coloro che parteciparono alla nascita del terzo settore in Italia, ma non in quella di tanti parvenu.
Esagerando un po’, sembra che si siano susseguiti passaggi dall’impegno sociale (della società verso la società) a quello dei servizi, a quello per le professioni, a quello per le tecniche e le specializzazioni, e così via quasi a imbuto, tralasciando man mano cause e contesti, istituzioni e società, concentrandosi sul «lavoro sociale» inteso come attività rivolta a circoscritti problemi sociali. Quali altre trasformazioni si profilano per il terzo settore?

Alcune criticità per il futuro

Soggetto operativo
e/o politico?

Una criticità attuale del terzo settore, in generale in Italia, ritengo sia quella della sua preparazione a determinarsi come soggetto politico attivo. Vi è un diffuso bisogno di costruirsi la consapevolezza di essere soggetto politico perché sociale, anche e proprio per il fatto di essere differente dai partiti.
Ne è esempio la frequente delega a gestire servizi indipendentemente dall’andamento delle politiche sociali, che viene accettata spesso acriticamente, così come acriticamente capita di tacere sui diritti insoddisfatti di persone e famiglie, su ingiustizie sociali e vuoti legislativi. Così anche per lo spendersi esageratamente su temi di poca rilevanza rispetto ad altre (per esempio, la recente mobilitazione per salvaguardare i centri di servizio per il volontariato) e per l’impegnarsi poco contro lo svuotamento delle politiche sociali, sanitarie e scolastiche ecc.
Tra il primo e il secondo settore, il terzo viene schiacciato e si lascia schiacciare senza resistere: non si auto-propone, non fa cultura, non confida nel suo reale peso e nel capitale sociale che possiede.
Potrebbe meglio escogitare i modi per dire che c’è, che ha il gusto dell’autonomia, e che vuole giocarsi per la costruzione del bene comune: questo rappresentava in definitiva l’investimento basilare, inziale, di energie collettive e di crediti sociali, di economie e di tempi personali messi a disposizione.

Si scommette
poco sui soggetti
determinanti
per la cittadinanza

Un altro aspetto critico attuale è espresso da un terzo settore che si pone le domande sui servizi da gestire, ma sembra lontano dal cercare di capire e interpretare gli scopi per cui servono i servizi. Dovrebbe, oggi, ricercare nuove maniere di sensibilizzarsi, di porsi domande sui mali sociali, sui problemi, sulle solitudini, per entrarci dentro, per starci, per affrontare i problemi concreti insieme a più soggetti, coinvolgendo società e politica, per costruire insieme agio e qualità sociale, servizi e diritti diffusi (e non solo per le persone prese in carico). Gli esiti liberanti e socializzanti del welfare vanno (ri)messi al primo posto.
Sotto questo profilo si nota un’enfasi sul ruolo del terzo settore agìta dal terzo settore stesso, pensata dalla politica e circolante nell’immaginario collettivo. Una vasta area interna al terzo settore mette in risalto il principio di sussidiarietà, esautorando la responsabilità pubblica e i princìpi costituzionali di solidarietà.
In definitiva, si scommette poco sui ruoli di cinque attori pubblici che sono determinanti per la costruzione dei diritti di cittadinanza: la politica, la comunità locale, il mercato nel mondo del lavoro, il terzo settore e i cittadini-utenti-clienti del welfare territoriale.

Anime e energie
del terzo settore
a somma zero?

Nel panorama di aziendalizzazione della salute, dentro al parlare di impresa per la scuola, nel ritenere imprenditoriale la gestione dell’ambiente e mercantile la gestione dell’acqua, e così via, il terzo settore viene messo all’angolo. Su questi temi, le sue anime interne – gestionale assistenziale, movimentista, di advocacy, di impresa – si differenziano e si distanziano tra loro, andando anche in conflitto.
Le energie del terzo settore, soprattutto grazie al mercato dei servizi, rischiano un alto tasso di logoramento, e le varie sigle sembrano destinate a divaricarsi e a dissipare le loro potenzialità. Invece di stimolare la politica e la società a farsi carico del welfare e della qualità sociale della vita nei territori, gruppi ed enti del terzo settore, rischiano di investire le loro energie disponibili, professionali, economiche, culturali, simboliche, in questioni di leaderismi, di visibilità, di incameramento dei budget dei servizi, ponendosi gli uni contro gli altri.
Tantissime energie rischiano di venire spese senza un minimo di risultato utile; si tratta invece di moltiplicarne gli effetti.

Chi rappresenta
chi del terzo
settore?

La rappresentanza del terzo settore a livello nazionale e locale (seppur il tema si ponga anche a livello planetario: si pensi al Social forum, alla Tavola della pace, all’Onu dei popoli ecc.) si fa sempre più necessaria, sia come necessità interna che come richiesta dall’esterno dalle leggi di settore (per esempio, n. 285, n. 45, n. 328 e piani di zona ecc.). L’intelligenza della storia chiede ai componenti del terzo settore di muoversi insieme su alcuni punti strategici condivisi, e di designare al meglio luoghi e sigle di rappresentanza, poiché si va sempre più affermando la diffusione della governace.
Occorre superare l’attuale momento critico in cui il terzo settore viene ovunque rappresentato da alcuni gruppi che contano numerosi tesserati, poiché dovrebbero trovare congrua rappresentanza anche le realtà associative che operano a vantaggio dei non associati (come il volontariato, le comunità di accoglienza, le cooperative sociali ecc.), le quali non possono e non debbono iscrivere a soci le persone che prendono in carico o con cui vengono in contatto o in collaborazione per risolvere problematiche personali e sociali. Ma nel Forum del terzo settore questo punto di crisi permane aperto.
Inoltre, non dobbiamo sottovalutare il fatto che ad oggi molte sigle di impegno sociale, specialmente quelle storiche di ispirazione cristiana, che hanno contribuito a lanciare in Italia gran parte del movimento da cui è scaturito il terzo settore, non si sono iscritte al Forum, e quindi non sono rappresentate e rappresentabili da esso.

Possiamo dirci ottimisti?

Il posto e il ruolo
dei valori umani,
politici, religiosi

Non secondario è il fatto che l’espandersi del volontariato prima, e del terzo settore in genere poi, sia stato favorito dalla presenza di alcuni valori religiosi intenzionalmente mutuati dai Vangeli (i cosiddetti «valori del Regno») e di altri, condivisi con le idealità laiche di pace e di responsabilità per l’ambiente. Ora, mi sembra di poter affermare che i valori che il terzo settore in genere sta maggiormente sottolineando sulla scena nazionale siano riconducibili a quelli «interni» alle sue logiche e agli interessi dei suoi servizi sociali. A poco o nulla valgono gli slogan sulla persona al centro, la professionalità, la relazione, l’inclusione sociale. Nessuno metterà in discussione questi valori in sé stessi grandissimi, ma andrebbero declinati calcolando impatti culturali e interessi che oltrepassino quelli del terzo settore.

Un immaginario
fatto di prestazioni
o di organizzazioni
di prestazioni,
più che di strategie

Non si stanno facendo i conti con le matrici culturali che hanno spinto molti a «fare in prima persona» attività sociali, nemmeno per criticarle od eventualmente ritoccarle o riscriverne altre. Anche da questo dato si può capire la tendenza attuale a sottolineare più il pensiero organizzativo gestionale che quello strategico culturale e politico.
Aspetto critico del terzo settore attuale ritengo sia anche il fatto che gli interessi tematici esplicitati dall’immaginario delle recenti generazioni dei soci delle organizzazioni di terzo settore sembrano puntati sui servizi intesi come somma di prestazioni, sottovalutando l’ente in quanto organizzazione, oppure ignorando strategie per la difesa o la costruzione di diritti.
Anche la considerazione di questo immaginario ci può indicare che, oltre ad operare nei servizi, dovremmo anche operare sui territori, sulla legislazione, sulle regole amministrative, sulle alleanze e sulle reti formali e informali, sulla cultura, e così via.

La nuova
differenza tra
i leader e i manager

Inoltre, a differenza di «ieri», nei gruppi si nota la differenza tra i leader (gli inventori dei servizi) e i manager di recente acquisizione. La memoria valoriale e storica generazionale non si è ereditata come si auspicava. Oppure c’è stata scarsa capacità di trasmissione della leadership da parte dei «vecchi». I nuovi arrivati non incontrano facilmente una cultura organizzativa, piuttosto impattano in un’organizzazione che li inquadra, più che accoglierli e formarli. Spesso vengono messi all’opera a svolgere servizi, a eseguire prestazioni, a fare le pedine per le prestazioni da erogare, piuttosto che venire responsabilizzati su un progetto sociale e sulla mission dell’ente.
La criticità è quella di sentirsi in un clima lontano dal ricercare strategie per il cambiamento, dal tracciare nuove vie culturali, dal rigenerare soluzioni ai nuovi bisogni e diritti sociali.

Senza un indirizzo
culturale e politico
si diventa
troppo simili
al privato for profit

In certi aspetti oggi il terzo settore gestore dei servizi assomiglia, nei metodi, ai servizi gestiti dal privato for profit, mettendo anch’esso in campo prestazioni specializzate e parcellizzate, servizi di ricovero e di separazione dalla vita normale, piuttosto che fornire progetti di promozione e di inclusione sociale.
È necessario che il terzo settore ritorni a voler imprimere a sé stesso un indirizzo culturale e politico, decidendosi a svolgere un servizio «pubblico» capace di superare la trappola del mero mercato dei servizi sociali e puntando a collaborare con tutte quellle forze sociali e istituzionali che mirano alla costruzione di welfare comunitari.

Essere attori
sociali e non (solo)
tecnici del sociale

Anche la formazione all’essere attore sociale, autore di cultura professionale, innovatore di servizi e di coesione sociale, non può essere continuamente svilita in tecnicismi e metodologie di corto respiro. Servirà – ancora – sostenere scuole interne, in mano a raggruppamenti del terzo settore e non alle fondazioni di ditte o di banche, per poter foggiare anche idee e pensieri sociali maturati e appresi dalle proprie esperienze dirette.
Permane eclatante il problema della dignità di coloro che sono impegnati nel lavoro sociale, quasi ovunque senza possibilità di carriere, non sempre con dignità di statuto di lavoratori, abituati a contratti flessibili e precari.Ma forse questo è un problema solo del Sud, della Calabria da cui provengo?

Il sociale
non potrà essere
rilanciato che
dal sociale stesso

Chi rilancerà il sociale? Non si può non concordare che il sociale potrà venire rilanciato se non principalmente dal sociale stesso, da chi lo vuole, chi opera, si organizza, da chi fa rete e si allea. Potrà rilanciarsi se studia, ricerca, sperimenta, si appassiona e appassiona, se si dota di strumenti e linguaggi, se comunica significati, se intreccia e ascolta e valorizza le diversità sempre più manifeste. Se è convinto. E se convince.
Il sociale non è il terzo settore ma lo stato sociale. Il terzo settore e le sue grandi reti organizzate, come il Cnca, hanno buone ragioni per rilanciare i temi sociali dall’interno di uno Stato sociale… e di un’Europa sociale.