Assunta Signorelli: il gusto del vivere i cambiamenti sostanziali in direzione ostinata e contraria

di Angela Regio*

Io: “Ma che fai: prima ti lavi i denti e poi ti bevi il caffè?” Assunta: “Si, voglio che rimanga in bocca il sapore della caffeina per poi fumarmi con gusto una bella sigaretta”.

Ho sempre avuto questa immagine di Assunta Signorelli: una donna che gustava la vita anche nei suoi piccoli momenti quotidiani. Era stata questa sua predisposizione al “gusto del vivere” che l’aveva portata a diventare psichiatra e le aveva fatto intraprendere tante appassionate battaglie contro un sistema che continuava a relegare e rinchiudere le persone che esprimevano il loro disagio mentale verso le autorità costituite e l’organizzazione sociale. Tutto questo a dispetto della legge di Franco Basaglia del quale era stata entusiasta collaboratrice.

Da quando nell’agosto del 2006 era diventata Direttrice sanitaria dell’istituto Papa Giovanni XXXIII di Serra d’Aiello, aveva sollecitato alcuni di noi a diventare amministratori di sostegno per prenderci carico delle persone che lì erano rinchiuse da decenni e che, in un sol colpo, a causa dell’indagine giudiziaria balzata alle cronache non solo regionali ma anche nazionali, avevano perso il loro amministratore unico che deteneva i loro averi in un solo libretto indistinto: così come “indistinti” erano diventate tutte quelle persone quando avevano varcato la soglia di quel “manicomio”.

Il 13 maggio 2008, nel trentennale della Legge Basaglia – la 180/78, avevamo fatto nascere insieme una associazione di amministratori di sostegno con lo scopo di tutelare chi fino a quel momento non lo era stato e il nome, suggerito da Assunta, era già un programma: In direzione ostinata e contraria, ripreso dal titolo di un album di Fabrizio De Andrè.

In quella sua esperienza da “commissaria”, durata poco meno di tre anni, Assunta si sentiva, come piaceva a lei, di nuovo protagonista perché davanti le si presentava una sfida per un cambiamento sostanziale: portare un istituto di reclusione sociale ad una realtà aperta sul territorio e con la possibilità di sperimentare micro abitazioni autogestite dove le persone potessero riappropriarsi della dignità umana del sentirsi a casa propria.

Ricordo che delle quattro persone, affidate a me dal giudice tutelare come amministratrice di sostegno, insistentemente le chiedevo di leggere le poche carte disponibili, mi animava la volontà di conoscere più approfonditamente le loro storie e la incalzavo con continue domande alle quali, a volte, rispondeva nel suo modo tanto diretto da sembrare perfino scorbutico … e io, peggio di lei, insistevo!

Della signora Gina, in particolare, mi raccontò che, da quello che aveva ricostruito, era stata chiusa in quell’istituto nei primi anni sessanta verso i 45 anni e, verosimilmente, non perché presentasse gravi problemi mentali, ma semplicemente perché era “zitella”, quindi sola, abbandonata dai familiari. Abitava in uno dei più poveri paesini dell’entroterra calabrese racchiuso nelle serre vibonesi e faceva la sarta. Aveva portato con sé, nell’istituto, il corredo al quale aveva lavorato tutta la vita: lenzuola di lino ricamate, asciugamani di seta, copri letti di ciniglia. Così come una bella pensione da artigiana conseguita grazie ai tanti contributi costantemente versati. Una volta in istituto tutto era finito in chissà quali mani e la sua pensione nel conto indistinto!

Esprimevo ad Assunta la mia forte indignazione per tutte le ingiustizie che avevano dovuto subire tutte quelle persone e lei mi rispondeva con la durezza di chi ne aveva viste tante e ancora peggiori: «Sono i senza. Senza diritti, lavoro, casa, affetti, documenti e questo conviene ad un potere politico che si regge sull’ineguaglianza e sul sopruso».

Già, la politica. Anche su questa abbiamo avuto più di una volta degli accesi confronti. Da fervente e ostinata sessantottina giudicava la sinistra allora al governo, come asservita alle logiche delle grandi lobby e distante dai bisogni reali della classe lavoratrice. Sull’analisi sociale spesso concordavamo, ma sui metodi delle azioni da intraprendere per provare a cambiare una società ormai profondamente mutata dalla globalizzazione, ci scontravamo senza mezzi termini. Era sulla necessità di praticare la differenza che eravamo pienamente d’accordo: l’accettazione dell’altra e dell’altro da me non passa solo a livello del pensiero razionale ma va vissuta, appunto praticata, perché solo facendo esperienza gli uni con gli altri si impara a coglierne realmente l’essenza umana e lasciare da parte tutti gli inutili stereotipi.

In tutto Assunta manifestava il suo “gusto del vivere”: mi piace pensare che alla fine dei suoi giorni abbia potuto dirsi di aver vissuto in modo intenso e appassionato la propria vita. Una vita vera. Una vita gustosa.

 

*Angela Regio è sociologa, co-fondatrice della Comunità Progetto Sud e membro del CTG. È la responsabile dell’area disabilità e referente del Centro Autismo della Comunità Progetto Sud.