Giustizia, antimafia e bene comune

di Giacomo Panizza
Edizioni Liberedizioni, 2015, pp 82

Ogni società non può e non deve trascurare l’educazione, tantomeno la legalità e il bene comune. Sono aspetti inscindibili della persona, della famiglia, della società e della polis, della mondialità. L’educazione alla legalità e al bene comune non possiamo nemmeno delegarla alle parrocchie o alle scuole, alla sola famiglia o agli esperti. Soprattutto faremmo un grosso errore se pensiamo di affidarla ai soli tribunali e allo Stato. Non andremmo da nessuna parte, perché i giudici per mestiere intervengono solo dopo una denuncia; non possono prevenire, essi agiscono dopo che la frittate è già fatta, quando i buoi sono scappati dalla stalla. Tenerlo presente è saggio: educare è umano, è intelligente, è etico. Educarci è responsabilizzarci. Non si scappa; addirittura è anche conveniente. Si tratta di idealità e di esperienze per le quali vale la pena metterci la vita.

Cattivi maestri. La sfida educativa alla pedagogia mafiosa

di Giacomo Panizza
Edizioni Dehoniane Bologna, 2017, pp 120

In molti luoghi del nostro Paese la mentalità mafiosa si insinua nel modo di pensare comune. È la mentalità dei boss, delle donne di mafia e dei giovani arruolati dalle cosche, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città. Piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, le regole «educative» criminali si impongono nelle comunità locali e insegnano la prepotenza, riproducono modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali – come la riscossione del pizzo –, mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, viene sottomesso dal clan che gli preclude un futuro diverso. L’educazione dei giovani criminali, allenati a collocare in secondo piano i sentimenti e l’amicizia, avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano, dimostrazioni lampanti che uno sparuto gruppo di persone riesce ad «ammaestrare» interi quartieri e intere città. Una vera e propria «pedagogia mafiosa» che si può contrastare solo con un’educazione alternativa. Questa (mala) educazione si deve e si può sfidare e capovolgere.

Àlogon 106

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«cheilSignoretibenedica»

Un gruppo di amici, colleghi e allievi dell’Università della Calabria, abbiamo ideato una sorpresa in occasione dei 70 anni di Piero Fantozzi. Ne è scaturito il libro “LE PAROLE DI PIERO”, un vocabolario scientifico e civile di 35 parole, da Amicizia a Welfare, che alterna e intreccia racconti e aneddoti su relazioni umane e di ricerca, valori e categorie analitiche, vicende e luoghi che hanno contrassegnato la sua vita. Da parte mia, ho commentato il saluto che Piero mi ripete spesso.

                                                                                     «cheilSignoretibenedica»
   
                                                                                               (Giacomo Panizza)

Ciao Piero,
il saluto di commiato «cheilSignoretibenedica» che rivolgi alle persone care, pronunciato di filato con sottintesa la S maiuscola, insieme all’amicizia, mi agevola la discussione su certi argomenti interessanti la «tua» sociologia e la «mia» teologia.
Da te a casa tua o all’Unical, oppure da me alla Comunità progetto sud, come in vari luoghi istituzionali o sociali o ecclesiali, ci incontriamo da quarant’anni a esaminare questioni divenute grandi come il mondo e da quarant’anni puntualmente ci si ripresenta la questione “povertà”, da noi attenzionata nelle sue forme mutabili per indagarne le cause e cercare di individuare strategie in grado di contrastarla su più fronti possibili.
Non so spiegarmelo, ma sentirsi benevolmente abbracciati da «cheilSignoretibenedica» sento che induce a riconoscersi persone, tutti e tutte più grandi del nostro “oggi”, particolarmente quelle povere, quali detentrici di una suprema dignità (o sacralità, per il lessico religioso) che ne afferma il valore inestimabile. Su questo assioma valoriale abbiamo ideato esperienze sociali, articolato (o criticato) delibere e leggi regionali, gestito progetti e interventi necessari per emanciparsi da disparate condizioni di povertà. Insieme ai nostri “giri” e reti di riferimento ci siamo anche indignati e abbiamo denunciato le condizioni in cui venivano segregate tante persone povere e vulnerabili. Quante maltrattate invece che professionalmente e degnamente aiutate presso enti assistenziali anche di matrice religiosa, sfruttatori del nome di un papa buono, di santi e sante, o irrispettosi profittatori di sigle con dentro “Amore”, “Pace” e “Misericordia”!
Alla scienza del professore sociologo e a una sorta di sapienza del prete cattolico, nei fatti, la lettura della povertà è risultata molte volte affine, proprio in forza di un’omogenea fondata interpretazione del concetto (astratto?) di “persona umana”. Ci ritroviamo spesso affiancati a scegliere da che parte stare nelle diatribe insorgenti tra coloro che operano nel riconoscimento della dignità umana a ciascuna persona versus altri che vogliono suddividerci in classi o caste. Allo stesso modo, non abbiamo dubbi a schierarsi con coloro che s’impegnano a comporre comunità coese e accoglienti versus altri che vogliono erigere muri e recinti di separazione.
Abbiamo avuto a che fare con schieramenti detentori di diverse tesi sulla povertà, sommariamente raggruppabili in due ampie cornici contrastanti. Dentro la prima, potrebbero figurare coloro che aspirano a salvaguardare e a promuovere la dignità delle persone per affrancarsi e liberarsi insieme dalla povertà attraverso politiche solidali e corresponsabilizzanti il più possibile ciascuno e tutti, in vista di conseguire democrazie partecipative; nella seconda cornice, invece, potrebbero figurare coloro che aspirano a salvaguardare unicamente i propri averi, poteri e prestigi, e a strutturarsi in oligarchie e poliarchie ostative all’accesso dei «diversi» classificandoli inferiori.
È sotto gli occhi di tutti il divario esistente nella produzione e nella distribuzione della ricchezza, che si autoriproduce con l’aumento numerico dei poveri che diventano sempre più poveri e col decremento dei ricchi che diventano sempre più ricchi. I dati statistici che conteggiano questo fenomeno, ci consegnano percentuali e numeri scandalosi, ponendo problemi etici, di giustizia e di equità anche al sociologo e al prete. La dignità calpestata dei poveri, già deboli e ulteriormente indeboliti, accusa la politica governativa che rinvia puntualmente la vera lotta alla vera povertà. Insomma, uno Stato veramente democratico dovrebbe dichiarare guerra alla povertà e non ai poveri!
Caro Piero, ti confesso di essermi arricchito più volte sulle tue spalle, attingendo ai tuoi saperi sociologici, ad analisi, cornici, cause e interpretazioni della povertà (specie del nostro Sud), che ho trovato utili per decifrarla e poter meglio comprendere quei poveri che incontro, che avvicino e che mi avvicinano. Le conversazioni tra noi due sulla condizione sociale di persone e gruppi poveri di pane e di affetti, di istruzione, di salute, di casa, di lavoro, di senso, di potere, di legami e di libertà, hanno favorevolmente impastato la «mia» religione con la «tua» scienza. Anche tu, forse, avrai notato una scienza impastarsi con una religione. Le due teorie, seppur distinte nei rispettivi oggetti di studio, obiettivi e metodi, a me sono parse friendly e adatte a sollecitare e avvincere il sociologo di professione e il prete di mestiere.
Come a dire che il prete, per capire i poveri che incontra, oltre alla sua teologia, ha bisogno di comprendere il contesto strutturale e relazionale della povertà nelle sue cause, nei suoi meccanismi, fino ai suoi immancabili effetti deleteri; e (oserei riassumere) che il sociologo studioso della povertà, per capirla, oltre alla sua scienza, ha altresì bisogno di incontrarsi coi poveri, coi loro volti e le loro storie, con le loro capacità fragilizzate e il profondo delle loro aspirazioni. Mi viene da dire che oltre a noi, una più puntuale collaborazione potrebbe arricchire anche entrambe le nostre scuole, istituite l’una per gli studi delle discipline delle scienze sociali e l’altra dello spirito umano.
Negli ultimi decenni, la chiesa cattolica si è trovata in buona compagnia delle altre chiese cristiane, quali le ortodosse e protestanti, l’anglicana, l’armena e la copta, a svolgere insieme numerose ricerche e sperimentazioni alla luce degli insegnamenti della Bibbia e mutuando molto dalle scienze umane.
La Bibbia tratta parecchie volte della povertà e della ricchezza ritenendole entrambe valori che disvalori a seconda di come-quando-perché ogni persona, famiglia o raggruppamento le praticano nella loro esistenza e nel loro ambiente. Le esamina dentro il contesto storico in cui si manifestano, valutando l’etica dei soggetti attori, autori o vittime, insieme alle cause che le generano e gli effetti diretti e indiretti che provocano su sé stessi e sugli altri, sui vicini e sui lontani, sui contemporanei e sui posteri. La Bibbia giudica la povertà anche in relazione e spesso connessa in opposizione alla ricchezza, e viceversa, perché sia l’una che l’altra hanno il potere di onorare e, al contrario, di umiliare gli uomini e le donne che compromettono. Entrambe svalorizzano le persone quando antepongono la ricchezza al prossimo, valorizzando qualcosa al di sopra di qualcuno. Ricordi la frase: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio?».
Però, nella Bibbia riscontriamo la presenza di una povertà che Dio non vuole e di una povertà che Dio vuole. Non vuole la povertà che chiamiamo miseria, quella di chi è privo dei beni necessari per vivere dignitosamente; non vuole la povertà di chi viene abbandonato privo di relazioni fraterne, senza un “tu” che gli faccia da specchio; non vuole la povertà come privazione del diritto e del potere di vivere alla pari a fianco e di fronte ai propri simili.
Anawim è uno dei termini ebraici antichi che indicano la persona povera, sparuta, magra, priva di parvenza umana, misera e pezzente, maltrattata, che s’affligge e implora aiuto perché da sola non riesce a opporsi alle ingiustizie che subisce né ad affrontare le difficoltà che incontra. Anawim è scritto spesso così, al plurale, intendendo i poveri non solo singolarmente ma anche come categoria sociale, in quei tempi composta dagli orfani e dalle vedove, dai piccoli e dagli indifesi impossibilitati a resistere alla violenza, esposti all’oppressione e sfruttati dai prepotenti. Anawim è un termine onomatopeico che indica il vento quando batte sul canneto piegando le canne col suo soffio. È la metafora di coloro che, fragili, vengono costretti a curvarsi, a sottomettersi ai soprusi dei violenti.
Nella Bibbia, però, c’è anche una povertà che Dio vuole (e mi piacerebbe analizzare questo aspetto insieme alle nuove leve dei sociologi contemporanei!). Il Dio che non vuole la povertà trasformata in miseria disumanizzante, apprezza quella di chi rifiuta di arricchirsi a scapito del suo prossimo, apprezza anche quella che mantiene liberi dai compromessi iniqui, quella onesta, utile e positiva. È la povertà del povero che vive a testa alta umile e fiero e in opposizione agli orgogliosi; è quella di chi si riconosce creatura e non si colloca al di sopra degli altri e tantomeno al posto del creatore; è quella capace di gratitudine e di gratuità nei confronti dei suoi simili; è quella che al denaro per sé e al potere sugli altri preferisce la giustizia con tutti. Il povero di Dio è colui e colei che – dice sempre la Bibbia – ha mani innocenti e cuore puro, e nelle alterne vicende della vita si fida di Dio «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre».
In definitiva, la Bibbia non sviluppa trattati sulla povertà pur parlando insistentemente dei poveri. Manifesta un Dio amorevole verso l’umanità intera, però giudica le situazioni umane identificandosi coi poveri, con le vittime e non coi carnefici. Ai poveri «il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri. Ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge i forestieri. Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi».
Interpretando la Bibbia con la Bibbia, potremmo riassumere che in essa il povero ha sempre un nome, un corpo e un volto, è rivestito di una dignità inalienabile che taluni possono misconoscergli ma mai togliergli perché gli è stata impressa indelebilmente dal Dio che l’ha «creato a sua immagine». Pertanto, la povertà umana che Dio non vuole è quella che impedisce alle persone di poter realizzare sé stesse, di vivere appieno la vita libere e amorevoli, creative e giuste accanto e di fronte alle altre.
La povertà, dunque, è riduttiva se intesa solo come insufficienza dei beni materiali ed economici indispensabili per vivere, perché essa è anche privazione di autonomie, di affetti e libertà. È povertà anche non avere difensori contro le violazioni della propria dignità. Il povero è caratterizzato dall’impossibilità di poter essere sé stesso. Questi principi millenari di vita religiosa e sociale sono illuminanti di ciò che oggi, insieme ai sociologi, possiamo denominare come vecchie e nuove povertà.
È grazie a scienze umane come la sociologia, che la chiesa si può avvalere di termini pertinenti per ridefinire l’andamento delle povertà nei diversi luoghi del mondo e nelle diverse fasi della storia. Non è cosa di poco conto, perché esse hanno coraggiosamente svecchiato le stigmatizzanti concezioni del “povero” e si sono potute affinare le indagini sulla povertà aggiungendo indicatori di lettura ulteriori a quello economico. Sono così emersi aspetti prima trascurati, come quelli esistenziali, di disagio, di vergogna, di fragilità, di senso del vivere, di fatica, di contare in quanto persone e in quanto cittadini e cittadine, e via di seguito, al punto che oggi, almeno per il mondo accademico, pare sia superato (che mi dici?) quel pensiero unico da taluni qualificato come “dittatura del PIL” che occultava la dimensione integrale della persona umana in sé stessa e nella sua natura sociale. È segno di questa consapevolezza il non sentire più tanto scandire alle manifestazioni lo slogan «dePILiamoci!».
La stessa Dottrina sociale della chiesa, infatti, ringrazia una Sociologia che analizza il fenomeno della povertà, e fa tesoro di tanti risultati scientifici. In particolare, esorta all’utilizzo di indicatori (come ad esempio il benessere equo e sostenibile (BES) utilizzato dall’ISTAT in Italia o United Nations Development Programme patrocinato dall’ONU (UNDP), ecc.), elaborati in una visione multidimensionale della povertà e gravitanti sulla centralità della persona, intesa come valore supremo e indispensabile risorsa. Insomma, alla Dottrina delle religioni cristiane che alla Sociologia in generale, sembra concorde la tesi che nelle situazioni di povertà non sono i poveri il problema, semmai essi sono i soggetti-risorse imprescindibili per poter uscire dai problemi della povertà e dai drammi della miseria.
Le scienze sociali, e la Sociologia in primis, hanno stimolato la chiesa a rimodulare le sue vecchie letture e risposte alla povertà improntate alla beneficienza, attivando nuove risposte di assistenza organizzata, di promozione dei diritti e di tutele della dignità umana. In questi passaggi, la chiesa è stata favorita dai grandi valori presenti nel “suo” Vangelo e nei suoi elaborati dottrinali, nonché dalle analisi scientifiche, dai modelli sperimentali e dai nuovi metodi e tecniche d’intervento professionale. Si è istruita e lasciata aiutare per poter “fare bene il bene”.
Carissimo Piero, adesso ripartiamo dal tuo e mio pensionamento, e con rinnovata grinta e serenità facciamo continuare il dialogo tra noi, le nostre scienze e sapienze, augurandoci: «cheilSignorecibenedica».

La lettera

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“Voce del verbo restare”. Don Giacomo Panizza

di Valeria Guarniera – “Nella parola “antimafia” c’è l’atteggiamento sbrigativo di chi vuole delegare, di chi responsabilizzando altri deresponsabilizza se stesso (…)Ma un prete fa il prete, un insegnante fa l’insegnante, un padre fa il padre e un imprenditore fa l’imprenditore: non ha bisogno di definirsi ‘antimafia’. E’ un modo di vivere, in quello che fa c’è il no a certe cose”. Lontano dalle semplificazioni e dalle definizioni forzate, nelle parole di don Giacomo Panizza c’è la consapevolezza della scelta: bresciano doc, emigrante al contrario, ha fatto della Calabria terreno fertile per la sua rivoluzione. Ricomincia con lui “Voce del verbo Restare”, la rubrica che racconta le storie di chi alla sua scelta ha dato un senso: arrivare, partire, tornare… restare.
Don Giacomo da 40 anni respira l’aria calabrese. Ne conosce l’animo e le contraddizioni, sa coglierne limiti e sfumature: “Inferno, purgatorio e paradiso, in Calabria li ho conosciuti”. Fondatore a Lamezia Terme della comunità “Progetto Sud” – Onlus indipendente che nasce con l’obiettivo di dare risposte alternative alle problematiche sociali – è per il territorio un punto di riferimento. Modi gentili, voce pacata, il suo sguardo brilla di una luce intermittente mentre ripercorre a ritroso la sua storia: ricorda, di quei primi anni, la paura di chi era costretto a vivere la disabilità da recluso, la totale assenza di servizi e quelle parole nuove – mafia, ‘ndrangheta – che a Brescia non aveva mai sentito e che, col tempo, ha imparato a conoscere. E ripensa alla paura – questa volta la sua – quando quelle parole sono diventate persone che bussavano alla sua porta chiedendogli il conto.
Parla dei giovani, don Giacomo, come simbolo di rinascita per la Calabria. E parla ai giovani, sfidando la pedagogia mafiosa, perché capiscano l’importanza di lasciarsi educare alla libertà: “Dobbiamo insegnare loro ad essere cittadini consapevoli, uomini e donne che sappiano vivere a testa alta. Dobbiamo seminare consapevolezza e speranza”.

Emigrante al contrario, è arrivato a Lamezia Terme negli anni ’70. In questa specie di viaggio della memoria, se ripensa a 40 anni fa: cosa ricorda?
I miei occhi guardavano a chi doveva partire per forza, stile deportazione: la partenza era vissuta come allontanamento, una vera e propria migrazione forzata. Erano persone in carrozzina. E negli anni ’70 in Calabria per certe problematiche le uniche soluzioni erano il manicomio di Reggio, l’ex ospedale psichiatrico di Girifalco e quello di Serra D’Aiello: grandi strutture in cui migliaia di persone venivano ricoverate e stavano lì ammucchiate, una sull’altra. Erano disabili o – come si diceva – “gente fuori di testa”; oppure donne “che non stavano in riga” secondo la mentalità del paese e che magari rimanevano incinta: le mettevano tutte lì, indistintamente: senza accertamenti o pareri medici approfonditi, senza una possibilità reale di cura, spesso senza motivo. “Urlava in piazza”, poteva essere una diagnosi. Le persone in carrozzina che all’epoca ho conosciuto non immaginavano un bel futuro: i genitori anziani erano sul punto di ricoverarli e la totale assenza di prospettiva annientava le loro speranze. Dire Girifalco o Serra D’Aiello significava “andare perduto”, allora chiedevano di essere ricoverati fuori: il male minore, “meglio che qui”, ma comunque allontanamento forzato, una deportazione e una condanna alla solitudine: chi sarebbe andato a trovarli, dalla Calabria? Il sentimento che vedevo allora, soprattutto sulle tematiche legate alla disabilità, era la rassegnazione. Non c’era il concetto di “persona”, ché il lavoro può toccare a tutti, e la scuola può toccare a tutti e che i sentimenti riguardano tutti. C’erano i più forti che potevano rimanere e i più forti che potevano partire. E poi c’erano gli altri, che erano di contorno e di cui nessuno si prendeva cura. La totale assenza di servizi, in tutta la Calabria. Ricordo a Reggio iniziative differenti grazie a don Italo Calabrò che raccoglieva attorno a sé gruppi di giovani volontari e creava per le persone disabili situazioni più familiari. La diversità era intesa come inferiorità e mi sembrava assurdo – mi disturbava proprio – vedere una totale assenza di tutela nei confronti di queste persone. Allora, se ripenso ai primi anni in Calabria, ricordo la paura di chi era costretto a vivere la sua disabilità da recluso, la totale assenza di servizi e parole nuove – mafia, ‘ndrangheta – parole che a Brescia non avevo mai sentito e con cui, col tempo, ho imparato a fare i conti…

A Lamezia i primi laboratori per l’inserimento lavorativo delle persone disabili, la comunità Progetto Sud e la ‘ndrangheta, non più solo parola, che le si materializza davanti
Sì, li ho conosciuti e da subito ho potuto constatare di cosa sono capaci. Abbiamo iniziato le nostre attività con dei laboratori: i primi undici anni abbiamo vissuto solo del nostro lavoro, senza convenzioni. Realizzavamo oggetti in rame e in legno, stampe, cornici. Progetti semplici e senza troppe pretese. Lavoravamo e ci piaceva. Ricordo ancora oggi quando due giovanotti sono venuti a chiedermi il pizzo. Ed io meravigliato mi chiedevo: “Ma come fanno a non vedere che queste persone sono in carrozzina?”. Mafia non sapevo cosa fosse. Erano ladri – questo lo sapevo – ma non li facevo così balordi. Vari atti vandalici per aver detto subito no e minacce per niente velate. Ingenuamente pensavo fossero solo modi per mettermi paura, ed io di paura ancora non ne avevo, tendevo a sottovalutare il problema. Poi mi dicevano che non era mafia, che la mafia non esiste. Ma ad aprirmi gli occhi per fortuna c’era don Italo Calabrò…

Un’alleanza forte, un consigliere affidabile quando attorno a lei c’era il contrapposizione tra ciò che vedeva – e subiva – e ciò che (non) le raccontavano
Avevo conosciuto don Italo a Roma, grazie alla Caritas. Discutevamo di welfare, di poveri, di diritti negati. Mi sembrava un tipo sveglio, e lo era davvero. Si è rivelato un grande amico in grado di indirizzarmi attraverso utili consigli che io fidandomi mettevo in pratica. Mi ha raccontato la Calabria e le sue contradizioni, mi ha aperto gli occhi su tante cose. Qui, a Lamezia, non è che non mi davano consigli. Dicevano che non c’era bisogno di consigli, che andava tutto bene, che venendo da fuori non capivo e che dovevo ambientarmi. Io non avevo argomenti per ribattere, se non che “m’han chiesto il pizzo”, “mi han rotto le finestre” e “mi han tagliato le gomme dell’auto”. Ma questo non bastava.

Nel 2002 la comunità Progetto Sud trova la sede dentro un bene confiscato ritenuto “intoccabile”: prima di lei tutti avevano restituito la chiave. Da un’intercettazione emerge il forte disappunto da parte di alcuni esponenti del clan della zona per il suo lavoro, diventa – suo malgrado – il simbolo della lotta al malaffare, primo testimone di giustizia di Lamezia Terme e per la prima volta fa davvero i conti con la paura…
Sì, in quella vicenda ho avuto una paura tremenda. Una finestra nuova mi si è aperta davanti: ho visto la voglia di vendetta da parte delle donne della famiglia che puntavano il dito contro di me a autorizzavano i figli alla resa dei conti, in una sorta di liberatoria ad ammazzarmi e ho capito che nel loro ingranaggio ero un elemento di disturbo. Lì ho avuto davvero molta paura.

Intimidazioni, danni, minacce, richieste di pizzo: ogni giorno fa i conti con la paura. Si è mai sentito solo?
Qui vivo con un gruppo di persone che mi sta vicino. Ma può capitare, a volte nei confronti di un clan mafioso ti senti solo, indifeso. Però con la scorta prima, il programma di protezione dopo e la videosorveglianza diciamo che provo a dormire sonni più tranquilli. So di non essere mai solo, di avere sempre le spalle coperte. Gli uomini dello Stato ci sono ed io mi fido ciecamente.

“I mafiosi – ha detto – non vogliono passare per aggressivi, ma per amici e benefattori. Sono capaci di sistemare il portale della chiesa, di comprarti la statua… che però poi, certo, dovrà passare da casa loro durante la processione. Danno e in cambio chiedono, così sottomettono la città invece di liberarla”.
Loro hanno l’intelligenza di passare non da prepotenti ma da benefattori. E non si contrappongono mai apertamente a noi preti, lanciano segnali con frasi tipo “se hai bisogno di qualcosa, a disposizione”, non fanno i prepotenti. A loro basta che il parroco non parli contro di loro, gli serve l’approvazione per aumentare il controllo del tessuto sociale. E’ il riconoscimento “del loro buon cuore” che gli interessa, passare come uomini d’onore, specie nei piccoli centri. E un prete che sta zitto a loro fa comodo.

La definiscono “prete antimafia”. Perché c’è bisogno di questa etichetta?
“Nella parola “antimafia” c’è l’atteggiamento sbrigativo di chi vuole delegare ad altri, di chi responsabilizzando altri deresponsabilizza se stesso. Come dire: “Lo fa lui, non devo farlo io”. Ma un prete fa il prete, un insegnante fa l’insegnante, un padre fa il padre e un imprenditore fa l’imprenditore: non ha bisogno di definirsi “antimafia”. E’ un modo di vivere, in quello che fa c’è il no a certe cose. Allora: se io faccio il prete, come faccio a pagare il pizzo? Se faccio il prete, come faccio a tollerare i mafiosi? Se faccio il prete, come faccio a non dire che la mafia è un ostacolo al lavoro, alla libertà, alla cultura. Dire “prete antimafia” è come dire che i preti fanno altro, e se fai antimafia ti caratterizza. E’ facendo quello che fai che sei per certe cose e contro altre. E’ un metodo furbo e sbrigativo e non mi piace. E’ la mafia che è anti-preti, anti-scuola, anti-libertà, anti-lavoro pulito.

Lei ha sempre denunciato e spinge tutti quelli che vedono o subiscono a farlo: “Qui è cresciuto il potere della mafia –ha detto – ma è cresciuto anche il potere di chi si ribella alla mafia. C’è però ancora troppo silenzio”. Il grande problema – ne parla nel suo ultimo libro, Cattivi Maestri – è la mentalità mafiosa, quella che si insinua nel modo di pensare comune, quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città…
Loro vogliono rimarcare la loro presenza. Con le intimidazioni colpiscono tutti, come una sorta di promemoria per dire “Noi ci siamo”, e la gente lo sa. Ma qui si denuncia ancora poco, il silenzio che c’è è assordante. Bisogna dare una spallata e per farlo bisogna essere in tanti a dire no. E’ il “noi” che deve dire no, il senso responsabilità del non volersi svendere e sottomettere. Dire no a una strada che loro vogliono sistemare, a una statua che vogliono regalare alla piazza del paese, al portone nuovo per la chiesa. Sono i modi subdoli che questi hanno per mettere in ginocchio e sottomettere una comunità, per dimostrarsi superiori e la gente spesso ci casca o lascia correre “per il quieto vivere”. Ma pensare che così tieni la pace significa arrendersi: questi la pace non la cercano, non la vogliono e non ce la daranno mai. C’è rassegnazione. Qualcuno ancora dice che loro creano lavoro. Ma quello che danno non è lavoro: anche gli schiavi d’Egitto han costruito le piramidi, ma lo hanno fatto da schiavi.

Una vera e propria sfida alla pedagogia mafiosa: “Un libro per i giovani, perché capiscano l’importanza di lasciarsi educare alla libertà: i mafiosi chiamano ‘cattivi maestri’ chi insegna a riflettere e ad essere liberi e critici…”
Da un lato ci sono loro, con il loro modo di educare i figli, di imporsi alla società, di dettare regole di violenza e sopraffazione. Piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, le regole ‘educative’ criminali si impongono nelle comunità locali e insegnano il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali – come la riscossione del pizzo – mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, ottiene fiducia e fa carriera. L’educazione dei giovani criminali, allenati a collocare in secondo piano i sentimenti e l’amicizia, avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano, dimostrazioni lampanti che uno sparuto gruppo di persone riesce ad ‘ammaestrare’ interi quartieri e intere città. Dall’altro ci siamo noi, e il nostro modo di educare i nostri ragazzi. Dobbiamo insegnare loro ad essere cittadini consapevoli; uomini e donne che sappiano vivere a testa alta. Non basta sapere ma bisogna sperimentare, bisogna manifestare contro i delitti di mafia, contro l’inquinamento ambientale, contro i servizi che non funzionano. Per non dare importanza e non far prendere potere ai ‘cattivi maestri’ serve l’educazione quotidiana alla legalità. Una battaglia che tutti insieme dobbiamo combattere. L’educazione non si fa solo attraverso gli incontri nelle scuole, dobbiamo dimostrarla attraverso iniziative in cui si pratica l’amicizia, la democrazia, la libertà del pensiero. Cattivi maestri sostanzialmente sostiene questa tesi: in una realtà ad alta intensità mafiosa dobbiamo seminare consapevolezza e speranza.

C’è un elenco molto bello che lei ha fatto, “Cose che mi piacciono al Sud”. Parla di quanto siano belle le mani nude, disarmate; la bellezza della gente e delle sue parole; dei padrini che non fanno i padroni, dei doni fatti per amicizia e non per incatenare; poi le madri “a tutti i costi”, quelle che supplicano i boss di svelare dove sono i figli, spariti di lupara bianca; le donne appassionate, i giovani “che si sbattono” per un ideale e il coraggio di chi punta il dito contro chi gli ha chiesto il pizzo. “Mi è piaciuta l’idea di emigrare a rovescio, di andare a conoscere limbo e inferno, purgatorio e paradiso, la mia vita con altri altrove”...
In Calabria c’è l’inferno nella mentalità dei mafiosi e nel loro modo di vivere disperato: questa è gente infelice. Sono capaci di uccidersi tra di loro, persino di lasciare che un figlio venga ucciso. Vivono all’inferno e producono inferno: stare attorno a loro significa finirci dentro e da lì difficilmente si esce. Poi c’è un purgatorio ed è abitato da quella gente che pur non essendo direttamente coinvolta, ci collabora o li asseconda. Però lì la via d’uscita c’è, bisogna volerla cercare. E poi c’è un paradiso in Calabria: è fatto da tutta quella gente che fa fatica a non mettersi sotto, che evita le scorciatoie e si impegna per aiutare i figli a crescere lontano da questo mondo. In quella fatica lì io ci vedo il paradiso: una fatica che è frutto dell’amore per la propria libertà e per quella dei loro figli.

Quarant’anni fa è arrivato a Lamezia. Oggi è ancora qui a raccontare, ma prima di tutto a lottare. Allora le chiedo, resto in Calabria: perché?
Restare in Calabria non ha un senso se non significa restare con la Calabria. E “libertà” è la parola chiave: libertà di studiare, libertà di lavorare, libertà di restare ma anche libertà di andare. Restare “con” è importante, anche andando altrove.

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Volontariato e comunità cristiana

PANIZZA G., Il volontariato nella pastorale della Chiesa, in AA.VV., Volontariato e comunità cristiana, Edizioni Caritas Italiana, Roma, 1986, pp. 147-167.
Il capitolo è un sussidio per la formazione al volontariato, destinato a bambini e ad adolescenti, dal punto di vista dei valori cristiani. Esso descrive gli obiettivi di sensibilizzazione e di spiegazione di elementi basilari utili alla comprensione del volontariato che opera nel sociale. Offre alcuni aspetti metodologici teorici ed altri operativi, e descrive alcune forme di volontariato esistenti, quali: fare volontariato in gruppo, svolgere iniziative di volontariato nelle emergenze naturali, il servizio di volontariato sanitario, ecc. Inoltre descrive alcuni principi e metodologie di valorizzazione del volontariato ad uso degli educatori e dei formatori.
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