Beni che insegnano, simboli che parlano

Beni che insegnano,
simboli
oltre la confisca

Giacomo Panizza (Articolo pubblicato su Italia Caritas marzo 2012, pp. 16-18)

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Beni economici, pubblici e simbolici
I beni confiscati alla criminalità organizzata di stampo mafioso sono beni economici, ma nelle regioni del Sud Italia sono intesi come beni simbolici. E il motivo si capisce. Parlano. Vivacizzati da iniziative culturali, trasmettono un’aria di libertà, mentre prima comunicavano la rigida forma mentis impositiva dei boss. Utilizzati dalla gente, diffondono semi di democrazia, mentre prima diffondevano il potere smisurato dei clan. Offrendo lavoro sociale e produttivo, divulgano giustizia, mentre prima quei terreni e quei fabbricati dominavano come strumenti d’iniquità.
È importante che le proprietà dapprima esibite dalle mafie come beni “posizionali” (attraverso i quali ostentare potenza e prepotenza), una volta confiscate vengano riutilizzate in maniera diversa, soprattutto come beni “relazionali”. Per gli abitanti delle regioni del sud, la loro rilevanza simbolica ha una presa maggiore di quella economica, e credo che ciò valga anche al centro e al nord. I beni confiscati ben si rappresentano come beni relazionali, idonei a mettere in rapporto e in collaborazione persone e gruppi, enti e istituzioni. Non sono proprietà di classe o ceto sociale, non suscitano invidia tra individui, non sono beni oppositivi. Hanno destinazione generale.
Così, a mio avviso, andrebbero considerati, perché così essi parlano e insegnano. Case, capannoni e terreni, con le innumerevoli iniziative che vanno svolgendo, sono essi stessi i contenuti d’insegnamento, il materiale didattico, esempio parlante educativo nel momento in cui mostrano in concreto storie di partecipazione, democrazia, economia civile, invece che incivile.
Il via vai della popolazione del luogo, le visite scolastiche e delle associazioni educative, il confronto con gruppi di impegno sociale e politico, portano i gestori dei beni confiscati a “dare parola” a questi beni, rendendoli “ancora più pubblici”, nel senso di più ascoltati. Per esperienza diretta, posso affermare che i “visitatori” si portano a casa insegnamenti forti, molto utili alla crescita umana, civile e culturale.
I beni confiscati, e così significativamente utilizzati, insegnano che le persone e la società, e non soltanto la magistratura e le forze dell’ordine, promuovono la legalità e combattono le mafie. Anche i beni di lieve entità economica, come un campetto di calcio o un piccolo terreno coltivato a fiori o verdure, oppure una sala in cui fare musica o un ufficio per la tutela dei diritti, in un territorio di mafia possono diventare messaggi potenti di riscatto e promozione della libertà e della democrazia. Questi beni così trasformati educano a vivere a testa alta i loro gestori, i fruitori e anche i sostenitori delle iniziative, che in essi e attraverso essi si svolgono. Sono i basilari costruttori di un’effettiva cultura della legalità.


Leggi più avanti della cultura sociale

La “forma” della legge 109/1996 (“Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati”) destina questi beni a un uso “pubblico”. Vi sono buone ragioni per sostenere che lo “spirito” della legge intenda quei beni a dimensione altamente “relazionale”. Dunque, pare ragionevole considerarli come beni a ricaduta collettiva, non soltanto come beni-case da gestire al pari di semplici servizi alla persona, o beni-terreni da far fruttare al pari di attività meramente economiche.
Nelle “Disposizioni contro la mafia” previste nella precedente legge 575 del 1965, sequestro e confisca di beni erano stati pensati come delimitate misure di prevenzione patrimoniale, finalizzate a impoverire economicamente le persone e le cosche mafiose; invece, la vigente legge 109 enfatizza la riconsegna del maltolto alla collettività, sottolineando il concetto di restituzione alla società considerata nel suo insieme. Dunque, non si tratta soltanto di sottrarre ai clan mafiosi gli strumenti economici da essi utilizzabili per ricostruire o mantenere il controllo del territorio e per lo svolgimento delle loro attività delittuose; piuttosto, si tratta di fornire la società di strumenti concreti di socializzazione, di poter fruire al meglio di beni ora diventati pubblici. A mio avviso, in questo caso, la cultura legale è risultata più illuminata della cultura reale, dimostratasi impreparata a concretizzare l’uso sociale dei beni confiscati.
Vi sono aspetti valoriali, e altri più tecnici, che sollecitano a valorizzare le iniziative di educazione alla legalità e alla cittadinanza, ben introdotte nelle scuole italiane ma ancora poco diffuse negli altri ambiti della vita civile, in cui permangono misconosciuti scopi sociali e procedimenti riguardanti l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. La cornice valoriale connessa allo spirito della legge 109 sottende che la gestione dei beni confiscati non deve più risultare un dovere del solo stato, ma anche di comuni e società: in definitiva, la legge auspica la partecipazione di tutti e di ciascuno, anche attraverso le formazioni sociali di appartenenza, al fine di fare sistema contro le mafie e per una società corresponsabile nella gestione dei beni pubblici.

Costano, ma educano
Quanto alla macchina prevista per il corretto funzionamento dei beni confiscati, non sempre è un congegno ben oleato. Certo, sono tollerabili certe lungaggini burocratiche che intercorrono tra le varie fasi del percorso di sequestro, confisca, assegnazione, programmazione e utilizzo del bene confiscato, ma non esistono scusanti per la vasta inefficienza riscontrabile in non pochi comuni d’Italia. A me pare che le criticità maggiori siano addebitabili agli enti locali assegnatari dei beni, più che agli enti del terzo settore richiedenti.
Al riguardo, non è secondario sottolineare che un ente del terzo settore, associazione di volontariato o cooperativa o altro, deve mettere in conto che la gestione di un bene confiscato porta quasi sempre a rimetterci economicamente. La struttura assegnata troppe volte è incompleta, non sempre provvista di inventario e di note sullo stato dell’arte dell’immobile; nella quasi totalità dei casi non funzionano luce, acqua, riscaldamento, tantomeno gli impianti rispettano le leggi vigenti; le barriere architettoniche sono eliminabili a costi esorbitanti; non è detto che gli edifici risultino al catasto e in regola con l’agibilità. E così via. Capita anche di non trovare il bene libero da persone e cose. Ma quando beni confiscati vengono lasciati nel degrado, o quando passandoci accanto si notano stesi sui balconi ad asciugare i panni dei vecchi proprietari, o quando risultano destinati ma permangono inutilizzati, quei beni finiscono per insegnare che i mafiosi sono forti e la società e lo Stato sono deboli.

Bene di una popolazione
Una palazzina confiscata educa alla socialità e alla democrazia quando genera relazioni interpersonali, promuove senso civico, sostiene comunità solidali. È troppo poco che i gestori vi svolgano attività d’intervento sociale riducibili, ad esempio, a un mero servizio rivolto a persone con disabilità, o a minorenni in difficoltà, eccetera. È poco che operi come bene di servizio. Non è solo col cambio di proprietà, dalla mafia allo stato, che un bene confiscato si caratterizza come un compiuto bene pubblico, ma piuttosto attraverso le attività che svolge nel territorio, quando incrementa relazioni di comunità, quando impegna il contesto locale ad adottarlo come bene di una popolazione e delle sue istituzioni. La valorizzazione collettiva di un bene confiscato si realizza promuovendo gli interessi condivisi di una “comunità di destino”, la quale aspira, come traguardo minimo, a emanciparsi e liberarsi dalle mafie.
Allo stato attuale delle cose, in cui riscontriamo la positività delle attività formative svolte nel trascorso periodo pionieristico, diventa decisivo innalzarne la qualità e ampliarne la diffusione. È l’ora di una formazione capace di accompagnare enti locali, terzo settore e società a fare in modo che i beni confiscati alle mafie diventino sempre di più beni di tutti.

Condividere la disperazione oggi percorrendo sentieri di speranza

di Giacomo Panizza.
Intervento  in  occasione V Edizione de “La Bibbia sulle strade dell’uomo”, Campus universitario – Catanzaro – 15 novembre 2012.
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Solo una testimonianza
Sono onorato dell’invito, ma mi sento impacciato a esprimermi: sulla speranza ristiana, per la vostra attenzione esigente, e per essere qui con il professore Jurgen Moltmann, del quale ho letto meditato divorato molti libri. Per parlarvi della speranza che ho incontrato sulle strade della Calabria, proverò a riferire qualcosa di ciò che ho appreso dall’esperienza e dalle preghiere, dagli studi e dalla gente.

La speranza ha peso, più dei problemi
Dal nord, io mi trovo al sud per caso, in seguito alla decisione disperata di alcuni giovani con disabilità che, sfiduciati di poter soddisfare i loro bisogni di salute e assistenza in Calabria, si erano rivolti altrove. L’invecchiamento dei genitori, le difficoltà di accudimento in casa e di movimento in città, le limitate opportunità di relazioni umane, e soprattutto l’effettiva necessità di fruire quotidianamente di prestazioni sociali e sanitarie, hanno acceso in loro questa speranza di trovarsi risposte efficaci in altre parti d’Italia. Sconoscendo qualsiasi possibilità di poter praticare una vita normale al sud, speravano in un ricovero speciale al nord.
S’erano arresi. Rassegnati, si stavano preparando a seppellire la loro giovane vita in istituti distanti mille chilometri da casa, spezzando per sempre i legami coi famigliari e i conoscenti. Ci siamo incontrati per caso in questo frangente storico; ci siamo scambiati ideali e speranze; ci siamo alleati; e quel destino si è capovolto. Messo su un piatto della bilancia il peso dei problemi, e sull’altro piatto il contrappeso delle speranze, l’ago della bilancia ha dato più valore alle speranze. Perciò, invece che migrare altrove a elemosinare servizi li abbiamo creati qui, noi, insieme. Un gruppo coeso, di persone pur deboli e in gravi situazioni di handicap, non ha impoverito ma arricchito la Calabria di servizi necessari e di diritti per sé e per molti altri.

Una speranza che ascolta i “piccoli”
“Saldo nella speranza contro ogni speranza” è un versetto fondamentale della fede cristiana; però io lo ritrovo sempre duro e impietoso. Soffermandomi a ripensarlo, lo trovo contro logica. Meditandolo, non pervengo a conclusioni. Mi “dice” di più se utilizzo icone bibliche con interpretazioni ineffabili quindi aperte a significati ulteriori.
Alla mamma, col figlioletto gravemente menomato in braccio, che chiede: “Cosa ho fatto di male, io, per avere un figlio così?”, io, privo di argomenti, mi rifugio nell’icona del vangelo di Giovanni, dove racconta: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” Rispose Gesù: “Né lui né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”» (Gv 9, 1-3).
Tralasciando l’argomento sul peccato, il versetto puntualizza la grandezza dell’uomo cieco dalla nascita; e anche dei ciechi, degli storpi, dei muti, dei sordi, dei malati; in definitiva di tutte le persone deboli e indebolite del mondo che non ce la fanno a sopravvivere da sole. Dal brano mi viene l’istruzione che Gesù si aspetta che le opere di Dio si manifestino nel cieco nato e non tanto, o non soltanto, negli amorevoli genitori o nei valenti volontari che l’assistono. Coloro che la società rende invisibili, Dio, al contrario, li tiene in cima ai suoi pensieri, e si aspetta che compiano grandi cose. Insomma, mentre la società li esclude Dio li pensa giganti, li prefigura autori di grandi cose. Anche quando vengono resi vittime di oppressione, egli – come ha fatto con Gesù – pone la sua speranza attiva in loro. L’Onnipotente che spera, sembra suggerire che la speranza sia più grande di Dio, bisognosa della nostra complicità… Non mi addentro nell’esegesi della citazione “sperare contro ogni speranza” perché non mi tornano mai i conti; però questo messaggio ha la forza di mettere e rimettere in moto tante mie energie, e mi sprona a scommettere su quel fragile bimbo in braccio a sua madre e su altri e altre che, come lui, fanno tanta fatica a vivere. E mi fa stare e fare “con” loro e mai nulla “su” di loro. Mi pone in ascolto della loro misteriosa grandezza.
Ho potuto, così, ammirare persone gracili impegnate ad aprire sentieri di speranza ad altre più in forze di loro. Ho visto persone vulnerabili rigenerare relazioni interrotte; far nascere dal niente gruppi solidali di famiglie, di volontariato e di auto e mutuo aiuto; buttarsi in iniziative per il bene comune della polis. A Lamezia Terme, quando nessuno si sentiva il coraggio di fare il primo passo contro lo strapotere delle cosche mafiose, un raggruppamento di questi “piccoli”, considerati diversi e inferiori, a proprio rischio e pericolo hanno compiuto una “grande opera”: hanno scelto per primi di utilizzare le case confiscate alla ’ndrangheta, col preciso intento di rompere l’immaginario collettivo di paura dei clan e rimettere in cammino la speranza.

La speranza non è tutta pura
L’esperienza mi ha fatto toccare con mano una speranza “sporca”, ovvero quel certo modo di sperare nel quale Dio non ha l’esclusiva, una speranza composta di molti desideri e interessi umani ma di una sola briciola di Assoluto.
Una siffatta speranza l’ho vista in alcuni genitori che si lamentavano dei “figli perduti”. Erano Papà che per i figli avevano programmato una carriera da dottori o dirigenti, mentre questi occupavano il loro tempo cogli emarginati. «Ho sborsato soldi per farlo laureare, e lei lo accomuna ai disabili, tossicodipendenti, malati di Aids, rom… Invece che in uno studio, lavora sulla strada!» Li percepivano come inutili protettori di scansafatiche e parassiti della società; però, col passar del tempo, comprendevano che, viceversa, quei figli erano degli utilissimi promotori di speranza e di riscatto sociale. E ne uscivano fieri.
In Calabria, come dappertutto, compaiono anche speranze equivoche, nelle quali Dio non viene neppure messo tra parentesi! Vi sono persone che – chi con leggerezza e chi con convincimento – conciliano le loro malefatte con le tradizionali pratiche religiose. Come quelle dei giovani aspiranti alla carriera di boss di ’ndrangheta, che si impongono per portare in spalla le statue religiose nelle processioni. O quelle di certi politici e imprenditori che sperano di procacciarsi affari e carriere affidandosi a compagini corrotte; o quelle di individui e gruppi organizzati a strappare privilegi per sé stessi a discapito della collettività.

La speranza esiste solo laddove c’è chi spera
Ho conosciuto Giuseppe e la sua speranza di venire perdonato dai tossicodipendenti, ai quali aveva causato grossi problemi. Era stato un venditore di morte, un “grossista” di eroina e cocaina, ma quando in carcere gli hanno diagnosticato il tumore che gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita, ha supplicato il giudice il quale gli ha concesso di uscire dal carcere, cogli arresti domiciliari da scontare presso la Comunità Progetto Sud. A Lamezia Terme, Giuseppe ha potuto conoscere la fatica di chiedere perdono e trascorrere l’ultimo periodo della vita sperimentando gratuità e gratitudine.
Ho conosciuto Toruzzo su una panchina del Corso che egli usava come “casa sua”. Cavavo dalla borsa un panino una birra e una sigaretta per volta facendo a metà di tutto; comunicavamo tra noi a gesti e cogli occhi più che a parole, a causa delle sue difficoltà di intendere e di volere e di esprimersi, e delle mie difficoltà di comprendere il dialetto di Nicastro e di pronunciarlo correttamente. A motivo della sua povertà intellettiva era soprannominato “Capo ninna” (testa piccola) e umiliato come “scemo del villaggio” dai cafoni. Anche i ragazzini lo schernivano, dandogli del “tu” nonostante avessero quarant’anni di meno; mentre lui rideva, derideva, ma ne soffriva. Dopo alcuni mesi di chiacchierate sconclusionate ma empatiche, un giorno di Pasqua Toruzzo si è auto-sfrattato dalla panchina ed è salito alla Comunità Progetto Sud, dove, introducendosi con la speranza dei semplici, impossibile da non esaudire, ci ha detto: «Questa è la casa mia!».
Ma ho incontrato anche le speranze sbagliate di giovani con la morte dentro, perché pensavano di riempire con le droghe il vuoto dell’esistenza. Così la morte si mostrava in altri giovani, dai volti disperati e rassegnati, durante i tempi terrificanti dell’esplosione del virus dell’Aids.
Ciò nondimeno, io mi sono sorpreso a cogliere la pochezza della mia speranza solo il giorno in cui ho visto un uomo disperato decidersi a cambiare vita. Egli, soggiogato dalla mafia, sperando contro ogni speranza, si è ribellato e ha denunciato gli estorsori. Senza saperlo, mi ha regalato la speranza più inaspettata e, in seguito, altri padri di famiglia, imprenditori e commercianti hanno denunciato quei mafiosi che li tenevano assoggettati. In questo contesto, la speranza – unita a una forte paura – è passata anche da me, quando alcuni mafiosi mi hanno minacciato di morte, sconvolgendomi la vita.

Mi è difficile sperare
Io trovo difficilissimo sperare davvero. Da solo, ci provo in molti modi ma alla fine un seme di speranza mi piove dal cielo gratis, al di là di ogni mia scaletta logica o teologica. Mi viene più semplice “sperare di sperare” coi disperati, coi quali piango e rido, e m’innamoro. Ugualmente, mi trovo bene con coloro che già sperano, raggiunti prima di me dal Dio della speranza. Insieme agli altri, insomma, la speranza mi si rivela più calda, più praticabile, più tutto. Insieme, anche quando percorriamo la via della croce, l’Invisibile si fa più vicino

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Abstract delle pubblicazioni di Giacomo Panizza

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La ’ndrangheta sul collo la si vince educando

di Giacomo Panizza (Articolo pubblicato su Italia Caritas, settembre 2012, pp16-18)
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La legalità è un banco di prova della credibilità della cultura di un popolo. E anche della Chiesa. Trainando con sé valori umani quali onestà, lealtà, rispetto delle persone e della verità, corresponsabilità nella definizione e nell’adesione alle regole condivise, essa contraddistingue la comunità che la esercita e la trasmette attraverso l’educazione. C’è un nesso inscindibile tra legalità ed educazione: al punto che in un Paese maturo è impossibile pensare di potenziare la legalità e al contempo indebolire l’educazione.
In Italia la legalità non ha assunto compiutamente il peso che le spetta. Anzi, si enfatizza l’illegalità esibendola quasi come “lo” stile di vita del Paese Italia.

Viene agile ricordare una nota storiella di costume.
«Sono stati pubblicati i risultati di un recente sondaggio commissionato dalla FAO e rivolto ai governi di tutto il mondo. La domanda era: “Dite onestamente qual è la vostra opinione sulla scarsità di alimenti nel resto del mondo”.
Ecco in sintesi le risposte: gli europei non hanno capito cosa fosse la “scarsità”; gli africani non sapevano cosa fossero gli “alimenti”; gli americani hanno chiesto il significato di “resto del mondo”; i cinesi hanno chiesto delucidazioni sulla parola “opinione”; gli italiani stanno ancora discutendo su cosa possa significare “onestamente”».

L’immaginario collettivo ci qualifica popolo di “furbetti”, iniziando dai “piani alti”. Ma il trionfo dell’illegalità distrugge la speranza. Nel secolo scorso, lo scrittore calabrese Corrado Alvaro sentenziava che “la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.

Legalità, nome della carità
In Calabria le dodici Caritas diocesane hanno elaborato il progetto Costruire speranza, nel quale si evidenzia la legalità come un attualissimo nome della carità. Non che prima fosse assente, ma adesso pare utile esprimere meglio la legalità come grande valore civile, irrinunciabilmente cristiano. Il progetto sfida il dato dell’illegalità, della corruzione e della disonestà, e rimarca che al malaffare la ’ndrangheta 8in Calabria) aggiunge la caratteristica tipica (ovunque) delle organizzazioni mafiose: le quali non solo rubano, ma usano armi e uccidono; non solo si arricchiscono, ma sottomettono persone e territori; non solo violano le leggi dello Stato, ma si fanno Stato parallelo.
In Calabria i clan depredano le risorse locali, e hanno a che fare con l’impoverimento materiale e spirituale della nostra regione. È un ritornello ricorrente nei nostri incontri, che il compianto don Italo Calabrò affermava fin dagli esordi delle Caritas calabresi. Il progetto si propone dunque di accompagnare le diocesi perché diventino capaci di gestire efficacemente l’utilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e di seguire le trafile burocratiche, non per caso frequentemente difficoltose e ostacolate da lungaggini e “incidenti” di percorso. L’intenzione è formare alcune persone per offrire in ciascuna diocesi calabrese almeno un’opera segno che, componendo carità e legalità, sia di aiuto ai poveri e divenga un messaggio educativo per la Chiesa stessa e la società.
I numeri parlano da soli. A maggio 2012 in Calabria i beni confiscati erano 1.729, tra cui 143 aziende, ma solo due nostre diocesi hanno le mani in pasta in materia. Inoltre, accanto agli innumerevoli reati di mafia che hanno interessato singoli cittadini, il 2011 ha fatto registrare 103 intimidazioni ai danni di amministratori locali, e poi incendi di strutture pubbliche, spari su beni comunali, recapiti di proiettili a uffici pubblici in 222 comuni (il 54% del totale dei comuni calabresi), mentre lo Stato ha decretato 37 scioglimenti per infiltrazioni mafiose. In un simile contesto, non sorprende che siano stati destinatari di attentati e minacce anche alcuni sacerdoti (tra cui l’autore di questo testo, ndr).
Nasce in questo scenario il progetto Costruire speranza. Il quale intende valorizzare, più che il valore economico del bene confiscato, il bene educativo, per la diffusione di una cultura di legalità. Nei casi di destinazione sociale del bene confiscato, il significato che passa di bocca in bocca tra la gente è infatti che la ’ndrangheta non ci perde solo il bene, ma la faccia. Monsignor Giuseppe Merisi e don Francesco Soddu, presidente e direttore di Caritas Italiana, al convegno di lancio del progetto hanno efficacemente ribadito che «le mafie sono strutture di peccato» e che «costruire speranza significa passare da un’opera di denuncia ad azioni appassionate, individuali e collettive, di popolo e di istituzioni, al fine di realizzare legalità e solidarietà».

Alcune, insufficienti
In Calabria esistono alcune, e insufficienti, iniziative gestite da soggetti ecclesiali, dedite a educare, ma costrette a fare i conti con la forza antagonista del contesto mafioso. Iniziative che altrove vengono valutate come educazione civica o di socializzazione, da noi, provocati dalla radicata educazione alla ’ndrangheta, assumono anche la ratio di educazione alla legalità.
Eppure, sentirsi la ’ndrangheta sul collo impegna a organizzare attività educative specifiche. Non si parte da zero, esistono poche ma buone realtà ecclesiali impegnate in questo. Esse gestiscono corsi di educazione alla legalità rivolti a maestri e maestre, oppure sono catechisti che tengono le lezioni ai piccoli, anche ai figli di “quella” famiglia notoriamente mafiosa, sfidando le disapprovazioni. Sono chiese che collaborano con le scuole per sensibilizzare gli studenti a partecipare alle sfilate di protesta contro episodi di omicidio, di pallottole vaganti, di bombe fatte scoppiare presso aziende o negozi.
Sono gruppi che promuovono feste della legalità nella piazza del paese, dove anche i mafiosi possono osservarti e giudicarti. Sono gruppi parrocchiali e movimenti laicali che invitano personaggi a dialogare sul consumo e sul traffico di droga, tutt’ora nelle mani della ’ndrangheta. Sono persone attive nelle associazioni antiracket, che educano coi fatti a non pagare il pizzo.
Sono comunità situate in paesini dell’entroterra, che aggregano gli adolescenti in bande musicali, senza nascondere l’intenzione di ostacolare il loro coinvolgimento in bande criminali. Sono volontari e volontarie gestori di parchi gioco in zone ad alto tasso di criminalità mafiosa, destinati ai piccoli di tutte le famiglie, anche di quelle in cui gli adulti si massacrano reciprocamente. Sono doposcuola che evitano esposizioni mediatiche per non mettere in vista i figli di ’ndranghetisti uccisi o in carcere.
Alcune sono attività che è prudente non divulgare, perché si metterebbe a repentaglio l’incolumità e la vita stessa di persone, famiglie, educatori. Come quando si aiuta una persona ad abbandonare il proprio clan di mafia, o s’inventano soluzioni migratorie per orfani e mamme, perché fuggano lontano e tronchino così il vortice delle vendette senza fine. In altri casi tutto è palese: per esempio, quando una cooperativa agricola opera su terreni confiscati alla mafia, o si aprono servizi sociali e culturali negli edifici confiscati. Una Caritas diocesana da oltre un decennio ha sede in una struttura confiscata.
Dietro a questi esempi, e ad altri che si potrebbero enumerare in Calabria, c’è la presenza di uomini e donne di chiesa e strutture messe a disposizione dalle parrocchie: queste realtà, però, sono buone ma poche. E soprattutto non sono ancora diventate “cose nostre”, preoccupazioni della Chiesa, perché sostanzialmente ancora delegate a un numero esiguo di volonterosi. Ma oggi, a mezzo secolo dal Concilio Vaticano II, siamo più consapevoli che le iniziative di contrasto ai poteri e alle logiche perverse dei mafiosi devono venire assunte più responsabilmente dalle chiese locali, proprio in quanto chiese. Sul fenomeno del contrasto dell’illegalità nel Mezzogiorno non bastano bei documenti: si sente indispensabile che la Chiesa scenda concretamente in campo con interventi corali. Pienamente ecclesiali.

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Droga libera? Prima difendiamo l’anello debole: i tossicodipendenti

di Don Giacomo Panizza

Ho seguito con attenzione il dibattito lanciato da Calabria Ora sulla liberalizzazione delle droghe leggere.
Io credo che sia opportuno un rilancio di attenzione su questo problema, evitando di discuterlo “all’italiana”, trattandolo come tema estivo, senza continuità. È un tema da assumere seriamente, evitando di mandarlo alle lunghe.

Io metto le mani avanti evitando di denominare “droga leggera” la marijuana. Credo che non valga più tanto la distinzione tra droghe leggere e pesanti riguardo alle sostanze stupefacenti. Perché è un po’ come per il vino e i liquori, che hanno sì una differenza di gradi alcolici, ma la componente quantitativa, la “dose”, non è ininfluente. Si diventa ugualmente alcolizzati coi vini e coi liquori.

Ciononostante, ritengo che legalizzare la marijuana possa vibrare un bel colpo alla ’ndrangheta, ma non un colpo mortale. Anche perché gli introiti illegali intascati stanno viaggiando sui mercati legali come investimenti e non come depositi fermi. E i clan sono capacissimi di rilanciare le estorsioni, al sud e anche al nord e all’estero. Occorre prendere sul serio anche la ’ndrangheta.

Le problematiche della droga non si limitano ai giri di compravendita gestiti dalle mafie. C’è ad esempio la produzione. In Paesi del centroamerica o del medio oriente, dove l’ONU ha avviato programmi di riconversione delle piantagioni illegali, i prodotti agricoli sostitutivi non stanno dando ricavi sui quali poterci vivere. C’è stato un flop! Quei prodotti sono soggetti ai prezzi stabiliti dal mercato agricolo internazionale, che sono prezzi iniqui, dannosi per i proprietari terrieri quanto per i lavoratori dipendenti o stagionali.

Da quanto ho colto, a me pare che si stia ponendo la questione “droga e ’ndrangheta” in maniera limitata, polarizzata, mentre andrebbe allargata ad altre componenti, perché è una questione che tocca non marginalmente altri aspetti, quali i consumatori che ne fanno uso e abuso, altri che ne sono dipendenti nel corpo e nella psiche, altri ancora che sono familiari e amici, altri medici, e infermieri, e forze dell’ordine e guardie carcerarie, e avvocati e giudici, e ditte e incidenti e altro ancora, che formano e modificano la cultura, la società, la coesione sociale.

Si tratta insomma di una problematica con molte cause e molti effetti incontrollabili, che coinvolge molti soggetti e molti fattori, e sconvolge molte persone e progetti del presente e del futuro. Insomma: le problematiche connesse alla droga non si limitano al mercato della droga ma si sommano anche al mercato della droga e influiscono sulla vita dei singoli e della società, del mercato e della cultura, delle libertà personali come della democrazia.

Tempo addietro, Craxi aveva associato il problema della droga ai drogati, anche perché aveva in mente mire di governo e modalità di governare poggiate sul fondamento della paura. Ma sappiamo che non è vero che gira la droga per sola colpa di chi si droga.
Nel 2012 non possiamo più ignorare l’esistenza di ogni altro fattore oltre all’arricchirsi delle mafie attraverso il mercato internazionale degli stupefacenti. Il legislatore ha legalizzato di fatto alcol e gioco d’azzardo per fare cassa, ci sono le mode giovanili che ritengono l’assunzione di droghe non una devianza ma uno status, siamo in una società che adesso ha tolleranza verso gli stili di consumo di certe sostanze, eccetera. E rimane da dirci, con leale corresponsabilità, quale società vogliamo. Una società di cura o di abbandono dei suoi componenti “indeboliti” o di componenti liberi di autodistruggersi?

In una società pluralista, dire “droga legale” è dire “droga immorale”? Il problema non è la droga, non è la sostanza, ma la gestione umana e umanizzante della sostanza.

Così, secondo me, un dibattito incorniciato nel binomio mafia e droga, va integrato con altri fattori. Di etica ad esempio.
La persona tossicodipendente ha problemi umani di libertà e di cittadinanza, di diritti e doveri da gestire.
Ha difficoltà riguardo al “vedere”, volere, decidere, avere e usare strumenti autonomamente.

La Regione Calabria, riguardo agli strumenti per la lotta alla droga, per la consapevolezza dei danni dell’uso e abuso di sostanze, per togliere dalla droga chi ne è dipendente, non ha fatto la sua parte.
Ha riconosciuto l’Atto di intesa Stato-Regioni del 5-8-1999, per la cura delle dipendenze, ma ha formalmente riconosciuto di fatto solo i Servizi per le Dipendenze (Ser.D) e due modalità di servizi territoriali (le cosiddette comunità terapeutiche riabilitative e comunità pedagogiche riabilitative), tralasciando tutti gli altri (pronta accoglienza residenziale, centri diurni a bassa soglia, area intermedia a bassa soglia, servizio per le alcoldipendenze, servizio per la comorbilità psichiatrica, o doppia diagnosi, servizio terapeutico riabilitativo donne con figli e coppie). Inoltre, da 5 anni ha lasciato cadere il dettato della legge nazionale n. 45 del 18-2-1999, che stabilisce interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria per i tossicodipendenti, riguardanti la prevenzione, l’informazione, l’educazione sanitaria, la promozione della salute e del benessere, la riduzione del danno, ecc.

I tossicodipendenti e le persone a rischio calabresi hanno meno servizi e meno tipologie di servizi degli altri in Italia.
La politica calabrese, che ha mandato in tilt il sistema sanità, non ha speso tanto per la salute dei calabresi, tantomeno per chi ha abusato di sostanze e ne è diventato dipendente, non considerando l’importanza di investire in educazione, socializzazione, informazione su droga e mafie, in occupazione giovanile e in servizi dedicati ai tossicodipendenti, anche nelle carceri, per come prescritto per legge. Ha speso per altro e altri.
In sintesi: legalizzare la droga contro l’arricchirsi della ’ndrangheta e tralasciare gli altri appetiti derivanti dal mercato mondiale e locale delle droghe, e mettendo da parte la necessità di prevenire, curare e riabilitare chi incappa nella dipendenza dalle sostanze, è condannare i drogati, l’anello più debole della filiera, a diventare “scimmie”, a drogarsi senza avere appigli per poter ritornare persone nuovamente capaci dei loro individuali diritti e doveri di cittadinanza.

Calabria Ora 10 luglio 2012

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Dove eravamo

           Dove eravamo. Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio
AA.VV., a cura di Perna M., Caracò Editore, Napoli, 2012

   
A vent’anni dagli attentati di Capaci e via D’Amelio, il libro prova a raccontare quei giorni drammatici attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti. Non solo familiari, magistrati, giornalisti, poliziotti, persone all’epoca già in prima linea nella lotta alle mafie, ma anche donne e uomini che, a partire dal quei giorni, hanno iniziato, ognuno nel proprio ambito, a combatterle.  
Nel testo anche un capitolo scritto da Giacomo Panizza, dal titolo “La lezione del ’92: dallo smarrimento alla sfida di libertà e solidarietà”, in cui scrive: “Finalmente il quadro mi era chiaro. La mafia non è una realtà criminale qualsiasi che si organizza per rubarci o estorcerci dei beni materiali, essa al contempo ci espropria dei beni spirituali quali le libertà civili, i diritti di cittadinanza e l’inviolabile dignità umana. Dunque bisognava muoversi, far parlare quel momento storico drammatico attraverso di noi, attraverso le persone, la società e una Repubblica meglio preparate“.
Video

 


 

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Equilibristi. Lavorare nel sociale

Equilibristi. Lavorare nel sociale

PANIZZA G., Economia, contesti, ambiente. Nuove prospettive di lavoro sociale, in AA. VV. Equilibristi. Lavorare nel sociale, 2015, pp. 111-132

Il lavoro sociale sarebbe da valorizzare, da elogiare non da stroncare. È utile e strategico. Contiene ampie prospettive. Raggiunge i suoi scopi non solo e non tanto in quanto può risolvere casi critici di singoli e disagi delle collettività. Parliamo di un lavoro che socializza davvero quando opera nei luoghi di vita della gente in generale – in quelli poveri come in quelli ricchi, in quelli salubri e in quelli malati, in quelli saccheggiati del loro capitale umano e in quelli rigenerati – al fine di rinforzare la società con competenze pratiche e di senso e rendere le comunità più coese e vivibili. Per le persone non c’è niente di più deleterio di una società asociale, chiusa e ostile perfino ai “suoi”. Si tratta di pensare sociale, coinvolgendo più soggetti ‒ sociali e istituzionali, civili ed economici – a impegnarsi a costruire comunità più aperte e accoglienti. Infatti, costruire tutto questo è parte essenziale del lavoro sociale.
Edizioni Gruppo Abele, Torino 

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Tra il dire e il welfare

Tra il dire e il Welfare

Panizza G., La crisi, i deboli, le istituzioni, la società, in Appunti sulle politiche sociali, n. 5/2012, pp. 1-7

Un’analisi su come la crisi attuale sta impattando sui servizi e sulle persone più in difficoltà. Non c’è solo un problema di riduzione o razionamento ma, ben più grave, sembra cambiata la prospettiva con cui si guardano i bisogni delle persone. L’intervento evidenzia alcuni nodi della situazione attuale delle politiche, interventi e servizi rivolti alle fasce più deboli della popolazione. Emerge la constatazione che “la modalità con cui si sta fronteggiando questa crisi pare proprio manchevole e ingiusta, perché non mette in conto la vita rubata alle persone fragili e vulnerabili, le più indifese. Il suo impatto sul welfare toglie servizi e aggiunge povertà, in modi differenti, in tutta Italia”. A fronte di questo quadro, l’analisi affronta anche il tema del ruolo – di promozione o conservazione – del terzo settore.

 


 

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Incontro don Giacomo Panizza

Incontro don Giacomo Panizza

PANIZZA G., Incontro don Giacomo Panizza, IPOC Editore, Milano 2015, pp. 101

Io&Te – Incontri & Testimonianze è una collana editoriale di libri-intervista in più serie tematiche destinata ai giovani.

Incontro don Giacomo Panizza in un giorno che potrebbe essere primavera, in qualsiasi momento cada nel calendario. All’Università della Calabria, dove tiene un corso di lezioni, giunge da solo, in auto, con un paio di lenti scure che nascondono solo per alcuni istanti uno sguardo luminoso e chiaro, trasparente come il cielo azzurro che ci sovrasta […] Sono ben consapevole del fatto che il tempo a nostra disposizione non basterà mai e poi mai a trattare sia pure di volata l’infinità delle iniziative che ho letto sul sito della Comunità Progetto Sud, oltre che averle conosciute (in parte) di persona. Così, fra le domande che ho preparato, decido di scegliere quelle più personali, inedite.
(Romolo Perrotta, dalla Prefazione)
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