Volontariato: un patrimonio in “movimento”
di Giacomo Panizza
(relazione alla V Conferenza Nazionale del Volontariato.Napoli, 13/14/15 aprile 2007)
Col titolo intendo includere il volontariato tra i patrimoni fruttuosi della storia recente del Sud. Patrimoni decifrabili come quell’insieme di beni materiali e immateriali, valori, ideali, azioni e organizzazioni dal basso che molti padri e madri del volontariato hanno lasciato in eredità alla società meridionale, affinché ne disponga al meglio. Insomma, le eredità si lasciano in dono, con gratuità e accortezza. Ma, i patrimoni perdurano? Alcuni non si possono semplicemente conservare, ma occorre mantenerli in «movimento». E il volontariato è uno di questi.
Un po’ di storia
Il patrimonio di essere cittadini solidali e perciò politicizzati
Oltre trent’anni fa, grazie al «giro» capillare di Caritas italiana, si diffuse al Sud il medesimo stile di volontariato in contemporanea con l’altrove del Paese. Svolti in prevalenza su Roma, gli incontri preparativi alla creazione e al lancio di questo inedito soggetto sociale raggruppavano sì poche persone ma provenienti da tutta Italia, Sud compreso [1] .
Per rimarcare l’importanza attribuita fin dagli inizi al pensiero, alla strategia e alla competenza come elementi necessari per fare volontariato sul serio, ricordo i nomi di Giovanni Nervo, Luciano Tavazza, Vodia Cremoncini. In quel frangente si progettò di dare dignità civile alle esperienze di impegno socio assistenziali già esistenti, sorte prevalentemente in seno alla chiesa cattolica, connotandole anche oltre la dimensione religiosa che le aveva generate e protette, e sospingerle oltre l’agire singolo e la mera beneficenza, per collocarle in una dimensione di politica sociale attiva. Si diede loro il nome di «volontariato» curando di centrarne la ratio nella libertà solidale di chi il volontariato lo vuol fare esigendo però di comporla coi diritti di emancipazione di chi abbisogni di aiuto. Concettualmente si sostenne la necessità di passare da azioni individuali gratuite a scelte collettive conglobanti la giustizia, la cittadinanza, la polis. [2] Insomma: la gratuità veniva «riciclata» impastata con la solidarietà e la partecipazione. Idea convincente, se persino congreghe religiose secolari aggiunsero alla propria sigla la dizione «volontariato».
Fin da subito ci si mise d’impegno sui problemi dell’emarginazione sociale, collegandoli con i temi della pace e dell’ambiente. Certo: al Sud l’emarginazione era conseguenza di molti fattori, tra i quali la carenza di servizi sociali e la pratica perversa di politiche economiche penalizzanti. A differenza del volontariato del Nord Italia, rischiavamo di avvitarci sui nostri rari servizi e sulle nostre poche iniziative, senza vedere la macroscopicità di un welfare incompiuto in lungo e in largo per tutto il Sud. Ad esempio, scoprimmo di essere in ritardo nella lotta per la chiusura dei manicomi o nella sperimentazione dei servizi territoriali alternativi agli istituti totali.
La pace non ci richiamava solo alle manifestazioni contro le testate nucleari a Comiso o ad ostacolare la costruzione di nuove basi missilistiche, come quella di Crotone: la parola «pace» per noi implicava anche dire «no!» alle mattanze e alle faide delle mafie.
I temi della responsabilità verso l’ambiente, poi, si declinavano nelle lotte alla costruzione delle fabbriche a carbone e altre mascalzonate che governi distratti propinavano ai bisogni occupazionali del Sud, scatenando «guerre tra poveri», come quando nella piana di Gioia Tauro si assisteva a scene in cui operai e sindacalisti si scontravano con volontari e ambientalisti.
Siamo partiti esagerando, «alla grande», con forti aspettative sul locale, sul nazionale, sul mondo. Eravamo disponibili e politicizzati. In quel periodo le suggestioni culturali consistevano o nell’accettare «il sistema» o nello «sparare al cuore dello Stato»: erano nodi dibattuti, specie tra giovani e «maestri» (cattivi o buoni). Di fronte a polarità politiche che si dimenticavano degli esseri umani, abbiamo preferito sperimentare un’altra strada, scommettendo sulla promozione e gestione di iniziative socializzanti seppur, allora, ritenute da molti altri come compiti del solo «pubblico istituzionale».
Era un volontariato promotore e difensore di diritti sociali, disponibile a giocarsi svolgendo una propria parte, ma al contempo facendo fare alle istituzioni la parte loro. Ingenuamente si arrivò pure al punto di pensare l’utopia, cioè di programmare di scomparire come volontariato perché le istituzioni col tempo avrebbero assunto il ruolo gestionale dei servizi che il volontariato stesso andava scoprendo e indicando come necessari alle persone e alla collettività. Pertanto, pur in assenza di coperture legislative si sperimentarono case famiglia, comunità terapeutiche, servizi leggeri in alternativa agli istituti di ricovero, tracciando anche piste di intervento sociale di prevenzione e di riabilitazione, fino alla riduzione del danno.
Se saltassimo questa forte dimensione di politicizzazione e consapevolezza posta agli inizi dell’avventura del volontariato, non capiremmo abbastanza tante cose di allora, ad esempio la celerità e la padronanza con cui tanti gruppi, provenienti da tutta Italia, siano intervenuti in Irpinia immediatamente dopo la micidiale scossa di terremoto del 23 novembre 1980. Ci stavamo incontrando e organizzando solo da cinque anni: insomma si è cresciuti velocemente, e anche al Sud.
Nel Mezzogiorno in quel primo periodo furono promossi diversi incontri significativi, programmatici, non «sul» volontariato ma «del» volontariato [3] : convegni operativi generatori di ulteriori convegni moltiplicatori dell’«imprinting» di un volontariato che voleva essere attento alle persone, alle relazioni umane, ai diritti e ai doveri di cittadinanza, alle cause politiche e alle soluzioni politiche [4] di tante disuguaglianze presenti nella società. Al riguardo, tra i gesti simbolici di allora va segnalato il rifiuto di indossare divise, si rifiutavano camici e gerarchie come segni di abolizione delle differenze di potere esistenti tra «assistenti» e «assistiti» nei servizi svolti dal volontariato. L’asimmetria del potere insita nelle relazioni di aiuto faceva parte dei concetti allora insopportabili.
In tanti, radicati nei nostri territori, abbiamo gettato le fondamenta di una bella stagione culturale. Decidendo, operando e riflettendo in prima persona – connotazione etica basilare dell’essere volontari e volontarie – l’intenzione primaria non era quella di dare noi l’assistenza ai «bisognosi», ma di provocare mutamento e partecipazione sociale; perciò si mettevano a fuoco le ingiustizie sociali e le difficoltà di persone, famiglie e territori, e si proponeva di fronteggiarle insieme alle amministrazioni pubbliche e agli operatori dei servizi. Oppure denunciando.
Questa visione del volontariato, collocabile all’incrocio tra l’accompagnamento di chi fa fatica, i ruoli pubblici degli Enti locali e i saperi dei professionisti dei servizi dedicati, è patrimonio degli inizi. La sfida a non fare da soli fu raccolta subito, anche al Sud. Dalla metà degli anni 70 in poi nacquero in continuazione associazioni di volontariato. La disoccupazione dilagante e la scarsità dei servizi sociali fecero la loro parte per connotarne le caratteristiche; si tramutarono in fretta gruppi di volontariato in cooperative sociali; i servizi snelli divennero servizi pesanti con lavoro precario.
Si svilupparono molteplici forme di volontariato, i «volontariati», con scopi, ambiti di intervento e metodologie differenti tra loro non solo nei dettagli tecnici ma nella sostanza politica, differenti come sono differenti le dame della carità dai gruppi di advocacy, differenti come sono i volontari dei gruppi di vita da quelli di certi servizi specializzati. È rivelatore che oggi esista: un filone di volontariato che gestisce i CPT; un altro filone persuaso che occorra rimanerne fuori perché i CPT li deve gestire solo lo Stato; e un terzo filone che sostiene che i CPT non li debba gestire né il volontariato né il resto del terzo settore e nemmeno lo Stato.
Un po’ di domani
Volontariato per innovare coesione sociale e democrazia
Il volontariato del Sud è un patrimonio in equilibrio instabile, non una rendita. Contemporaneamente alla sua crescita, si sono moltiplicate anche molte e complesse problematiche sociali ed economiche che lo sfidano in maniera insolita. Vogliamo che ci sia ancora il volontariato domani? «Come» lo vogliamo? Che fa servizi ai Centri di Servizio? Che ripara i danni delle disattenzioni sociali della politica? Che rincorre i disastri causati dalle guerre tra i clan? Le sfide sono tante. Saremo capaci di futuro se sapremo assumere uno stile di «volontariato adulto».
Tra le questioni che ci sollecitano alcune vanno prese sul serio, cominciando dalle tre messe a titolo di questa 5 Conferenza nazionale: la gratuità, la solidarietà e la partecipazione. La gratuità è modalità identificativa del volontariato in sé stesso, e quindi escludente qualsiasi forma di remunerazione con marchingegni simil lavoro o peggio lavoro nero. La solidarietà lo sfida sui terreni della dignità umana e dell’equità sociale, piuttosto che sui fondali marini in cerca di altri bronzi di Riace. La partecipazione ci sfida a rigenerare cittadinanza al Sud, scommettendo sul ruolo attivo delle fasce sociali tuttora tagliate fuori da qualsiasi ideazione e costruzione del proprio e altrui destino.
Oltre a queste tre sfide io ne sottolineerò solo altre tre. La prima riguarda la coesione sociale connessa con la legalità. Le mafie fanno coesione sociale, ma sopprimendo la legalità. Impongono un loro modo catturante di coesione e appartenenza.
Non si può negare una preoccupazione sul grado di coscienza sociale serpeggiante nelle nostre comunità locali, nelle quali un conto è il grado di consapevolezza dei diritti umani e un’altra cosa sono gli atteggiamenti pratici di riconoscimento di tali diritti. Ci sono sordità inspiegabili con la sola logica. Talvolta basta dire: Rom, tossicodipendenti, ex carcerato, stranieri, malato di mente… per evocare allarme sociale piuttosto che accoglienza, per richiamare sicurezza pubblica piuttosto che sicurezza sociale. Eppure la legalità esige di appianare le disuguaglianze, e di non avere tra noi persone di «serie B».
Qui il volontariato deve contrapporre un diverso modo di fare libero e liberante. Nei territori in cui il controllo sulle relazioni, sull’economia, sui voti politici, è spesso nelle mani dei gruppi mafiosi, occorre che il volontariato si spenda a rinforzare se stesso e gli altri soggetti sociali che vivono il territorio. Vi è una parte di controllo e di potere che i mafiosi si prendono con la violenza, ma vi è pure un’altra parte di controllo che qualcuno dà loro quando paga il pizzo, quando compra la droga che trafficano, quando diventa cliente di supermercati o di banche che riciclano denaro sporco.
Accettare questa sfida significa socializzare effettivamente i territori, riprendersi spazi e piazze, strade e luoghi comuni. Hanno fatto bene i gruppi di «Libera» a organizzare la marcia dei trentamila a Polistena il 21 marzo scorso. Il volontariato in queste manifestazioni c’è. Tutti lo ammettono. Lo vede anche la mafia, la ’ndrangheta, il «sistema» camorra e la sacra corona unita. Certo: al termine della manifestazione il volontariato ritorna al quotidiano, sostiene le associazioni antiracket, partecipa manifestamente all’utilizzo sociale dei beni confiscati, va di nascosto ad aiutare una famiglia per interrompere una faida, opera per inserire in un quartiere i figli del boss in galera, accompagna la moglie di un ucciso di mafia a sparire e ad andare lontano per salvare i figli.
Una seconda sfida tocca i nodi della politica come democrazia. I nodi non sono solo i numeri. Le mafie hanno capito benissimo la democrazia dei numeri, facendo incetta di quelli bastanti per occupare pezzi di partiti, di amministrazioni e ruoli pubblici. I nodi non sono nemmeno i servizi sociali bensì le politiche sociali partecipate.
Anche nel meridione aumentano le persone che scelgono il volontariato, ma domandano che le si tenga lontane dalla politica! Diventa raro imbattersi in un gruppo che studia le voci di contrasto alla povertà nei bilanci comunali o regionali, o che prepara proposte per i piani operativi di sviluppo dei territori. Al massimo vanno ai tavoli dei piani di zona perché interpellati sul tema dei servizi sociali. Insomma, i dati ottimisti sulla crescita numerica del volontariato al Sud non ci possono accontentare, quando la crescita è in una dimensione lontana dalla politica e legata alla dimensione dei servizi socio assistenziali. Si rischia di fare una miope politica legata ai soli nostri servizi.
Ad esempio, può accadere che il dibattito più alto che produciamo sia quello sulla droga: teorizziamo comunità sì o comunità no, riduzione del danno sì o no, punire o educare, proibire o legalizzare, venti spinelli o quaranta, scontriamo le tesi di Cnca e San Patrignano. Se ci avvitiamo sulle droghe perdiamo per strada i nodi delle politiche sociali. Se non funzionano gli ospedali di tutti, non possiamo rallegrarci che sia cresciuto il volontariato ospedaliero. Se la scuola normale non va, come fa il volontariato a compiacersi dei contributi che riceve per gestire i doposcuola?
Le Pubbliche Amministrazioni nel loro mix di politica e burocrazia rappresentano una sfida nella sfida. Credo che in esse si debba fare un passaggio di paradigma. Al Sud c’è un’emergenza PP. AA. evidente, in quanto non poche risultano inadeguate a reggere gli ultimi sviluppi della legislazione, della giustizia, della partecipazione… insomma della politica che si fa democrazia diffusa e partecipata. Il volontariato è sfidato a non darsi da fare solo a valle coi territori, bensì anche a monte con le istituzioni, al fine di costruire passi «facilitati» (!?) dalle regole normali, senza dover chiedere favori a nessun mediatore, a nessun colletto bianco, a nessun padrino.
L’ultima nota che mi sento di sottolineare qui, è che dobbiamo riconoscere che esistono criticità del volontariato attribuibili allo stesso volontariato e dalle quali occorre uscirne al più presto. La sfida è che il volontariato si prenda cura di sé nella casa comune del terzo settore e nella società, e che ci tenga ad esserci in quanto area di gratuità, di bene comune, di una cittadinanza che sostiene per tutti l’esercizio del diritto di dare, di fare, di governarsi anche da sé e non solo venir governati.
Nei confronti degli altri soggetti del terzo settore, quali la cooperazione sociale, le imprese sociali e le associazioni di promozione sociale, il volontariato dovrebbe rimarcare di essere distinto ma non distante. Così pure dal servizio civile volontario svolto in Italia o all’estero. Insieme a queste realtà vorremmo divulgare ideali e pratiche di solidarietà senza confini, e in particolare sottolineare che la politica o è sociale o non è politica, e che l’economia o è sociale o non è a dimensione umana.
La crescita numerica di tanti volti di poveri e impoveriti al Sud, e altri fattori ancora, stanno spingendo il volontariato a impegolarsi sulle prestazioni, sugli interstizi, sugli effetti piuttosto che sulle cause dei problemi; su discorsi di gestione spicciola e non di strategie. E nel Mezzogiorno i servizi del terzo settore, come quelli pubblici, paiono sempre più “dis-graziati”, ovvero fuori dal tocco di grazia di un loro potenziamento nei tempi brevi: vedi ad esempio il resoconto sulla magra entità delle quote pro capite dedicate agli interventi sociali nelle diverse regioni meridionali rispetto al resto d’Italia. Il terzo settore si sta avviando a diventare una brutta copia dei più brutti servizi pubblici e privati: brutta copia nel senso che invece di sostenere la socializzazione, la prevenzione e riabilitazione, si sta buttando su servizi economicamente più stabili quali i ricoveri totali, su quei contenitori dell’abbandono che come volontariato combattiamo fin dagli inizi e continueremo a ostacolare, perché non vogliamo servizi consolatori ma promotori di empowerment e di cittadinanza.
Il volontariato al Sud è chiamato con urgenza e intelligenza a rivedere l’agenda delle sue attività. Quelle di altre zone d’Italia non saranno riproducibili in toto. Ad esempio pur vivendo anche gli stessi problemi del Nord Italia, parimenti il volontariato del Sud non li può fronteggiare con un’economia locale debole e con luoghi di lavoro troppo vulnerabili. Così anche non può sottovalutare il fenomeno dell’educazione scolastica di base, caratterizzata da esiti poco efficaci di una scuola produttrice di alti tassi di evasione e mortalità scolastica. E nemmeno può misconoscere il disagio della gente connesso non tanto alla fruizione di servizi essenziali come l’ospedale, il pronto soccorso o il Trattamento sanitario obbligatorio, ma quello connesso con «il dopo» dell’intervento urgente o specialistico: disagio connesso con la trascurata e immorale privazione di servizi territoriali essenziali all’inserimento sociale, lavorativo, familiare che altrove in Italia invece ci sono.
Occorrerà riprendere il lavoro di comunità per co-costruire risposte adeguate con la gente nei territori, quartieri e città, nei paesi e nelle frazioni interne del Sud, anche superando i confini dei nostri servizi e delle nostre “mission”. Nell’agenda dei volontariati del Sud andrebbero previste sperimentazioni capaci di tracciare nuove vie ai diritti. [5]
Occorrerà evitare in futuro l’errore di gestire progetti scollegati. Fa bene al volontariato ripensarsi in attività snelle e in rete. Finalmente nel resto del terzo settore sono cresciute tante organizzazioni deputate alla gestione dei servizi stabili. Occorrerà procurare di stare di più in tensione costruttiva con gli operatori dei servizi pubblici e privati, con politici e amministratori, con i cittadini fruitori dei servizi favorendo, rispetto al passato, la nascita di più comitati degli utenti che di servizi, più iniziative di advocacy che di assistenza.
Per sorreggere realisticamente le future attività di volontariato, ritengo che abbiamo ancora bisogno di formazione. Accanto alla tradizionale formazione che ci fa apprendere dalle nostre stesse esperienze e a quella strutturata in setting nei vari corsi e percorsi che ci inventiamo, si potrebbero potenziare maggiormente anche altre metodologie di «apprendimento-servizio» [6] da operare sul campo con le comunità locali.
Abbiamo un patrimonio da rigenerare. Il patrimonio del volontariato è un’avventura, un’intrapresa, è fatto di volontari e volontarie, di ideatori, di «quadri», di organizzazioni, di strutture, e soprattutto di stili di vita basati sul dono generatore di relazioni umane e di polis. Non possiamo pensare di poter «passare» facilmente a qualcun altro questo patrimonio: i «nuovi» dovranno a loro volta ri-apprenderlo… se vorranno. Traghettare questi apprendimenti dalla vecchia alla nuova generazione è la prossima vera sfida: i volontariati del Sud dovranno saper rischiare in proprio investimenti strategici, sia per le attività che per la formazione da mettere in campo. E lo stesso vale anche per le politiche sociali delle regioni meridionali, per i programmi dei Centri di Servizio del Volontariato e della Fondazione per il Sud. Immaginare e costruire uniti più spazi di socialità per tutti farà solo bene al nostro Sud, e a tutti. E su queste sfide, soppesando le nostre risorse e vulnerabilità, mi viene da dire che «si può fare!».
[1] Del Sud alcuni partecipanti alla fase pionieristica eravamo: Italo Calabrò, Mimmo De Simone, Pippo Insana, Piero Modafferi, Mario Nasone, Giacomo Panizza, Gianfranco Solinas: tre preti, due collaboratori caritas e due sindacalisti. In seguito sopraggiunsero altri e finalmente non solo al maschile.
[2] Concetti entrati in seguito nella legge quadro sul volontariato n. 266/1991, e nel rinnovellato articolo 118 della Costituzione, comma 4: «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
[3] Segnalo gli incontri di Napoli e Castellammare in Campania; di Taranto e Fasano per la Puglia; Reggio Calabria e Lamezia Terme per la Calabria; Mascalucia sulle pendici dell’Etna per la Sicilia.
[4] Un tentativo di mettere in campo soluzioni politiche partitiche coinvolgenti i volontariati del Sud avvenne nei primi anni 90, con la costruzione di un cartello denominato «Oltre il frammento». Tramite esso si cercò di aggregare le plurali anime dei volontariati con quelle dei pacifisti e degli ambientalisti. Fu un fallimento. La debolezza e l’ingenuità organizzativa a muoversi in un ambito di competizione elettorale risultò velleitaria e ininfluente, nel mentre al Sud la politica partitica riapriva una stagione di strapotere sulla società civile, offrendo rapporti di clientela o di subalternità ai deboli e di collaborazione paritaria ai forti. Alcune realtà del volontariato si adeguarono, altre progettarono faticosi laboratori di cittadinanza sociale e civile.
[5] Tema mutuato dal Seminario di ricerca organizzato dalla Fondazione Zancan e Cnca Veneto: Rileggere i percorsi delle organizzazioni del terzo settore per tracciare nuove vie ai diritti, in Studi Zancan, Politiche e servizi alle persone, n. 2, 2006, pp. 85-190