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Handicappati in Calabria

               Handicappati in Calabria
Comunità Progetto Sud, Marra Editore, Cosenza, 1985

   
Sottotitolo del libro è: Manuale di informazione. Si tratta di un testo che oltre a fornire notizie tecniche offre suggerimenti che derivano proprio da quanti vivono in prima persona le situazioni esistenziali e sociali difficili derivanti dall’handicap e dalle disfunzioni dei servizi sociali, sanitari e culturali. Il libro è rivolto principalmente agli handicappati della regione Calabria, i meno assistiti di tutta Italia. Ma il libro è scritto anche per gli amministratori, i quali spesso non conoscono né l’entità dei problemi degli handicappati né la via di uscita per risolverli, ed allora nei loro bilanci prevedono poche lire per affrontarli male, salvo stornarli infine per le necessità “più urgenti”.

 


 

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Note sociali

               Note sociali
AA.VV., Comunità Edizioni, 2005 

 
Una ricerca nel campo delle politiche sociali e del lavoro sociale. Qui, peraltro, lo scrivere e il documentare sono stati pensati nel segno dell’esempio per gli altri, inteso non tanto come “buon esempio” quanto invece come materiale su cui studiare e riflettere.
Il libro prende le mosse dal contesto calabrese in cui si è definita la sperimentazione dei patti territoriali per il sociale, un contesto aspro e difficile dotato di un corpo sociale spesso ferito da quel virus dell’illegalità che getta sempre una volta di troppo nella rassegnazione o, peggio, nell’indifferenza. Le persone che si sono impegnate in questo percorso hanno invece scelto la via, feconda, del confronto e della sperimentazione sul campo, con l’intenzione di dare vita a dei cantieri sociali in cui, prima ancora dei bisogni e delle risposte a quei bisogni, si definisse la sensibilità adeguata e l’adeguata preparazione al mestiere sociale.
Il libro si rivolge ai dirigenti e agli operatori della PA, delle Asl, delle imprese sociali e dell’associazionismo impegnati nella costruzione dei sistemi locali di welfare, nonché agli studenti di scienze del servizio sociale, di psicologia, di sociologia e di tutte le facoltà interessate alle politiche sociali e ai servizi sociali, educativi, di inclusione e di cura. Come si vedrà, si tratta di un testo agile, dotato di una ricca bibliografia e redatto da diversi autori che lavorano nelle università, nella PA e nel terzo settore.
Libro

 


 

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Percorsi per abilita’ competenti

               Percorsi per abilità competenti
Galati M., Barbuto R., Quaderni della Comunità Progetto Sud, Lamezia Terme, 2000

   
Le persone disabili possono divenire soggetti socialmente attivi e competenti nei processi di inserimento al lavoro, ed abilitare se stesse a costruire il proprio progetto personale e professionale e renderlo fruibile nel mercato del lavoro.  Questo testo verte su questa idea centrale, che ha accompagnato l’intero percorso per l’attuazione dell’Agenzia Lavoro su Misura e ne rimane obiettivo prioritario. Esso nasce dalla riflessione sulle pratiche e sulle esperienze compiute da operatori del sociale: professionisti, peer counselor, rappresentanti di organizzazioni di tutela dei diritti nel promuovere la progettazione ed implementazione dell’Agenzia Lavoro su Misura, la quale come servizio è stata realizzata in Calabria, nell’ambito del progetto europeo multiregionale “Selfprop”, dall’Associazione Comunità Progetto Sud in rete con il CNCA, titolare del progetto nazionale.

 


 

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Manifesto contro la cultura dell’emarginazione

               Manifesto contro la cultura dell’emarginazione
Panizza G., (a cura di), Lamezia Terme, 1982 (elaborazione in lavoro di gruppo col metodo della scrittura collettiva)

Il manifesto descrive l’autocoscienza di persone e gruppi che hanno vissuto direttamente il problema della discriminazione sociale e dell’emarginazione. Dopo un resoconto introspettivo e dopo considerazioni sociopolitiche, il documento esprime il “no” a tutte le culture che emarginano le persone in nome delle classi e delle etnie, del sesso e delle ideologie, del denaro e del ruolo sociale. In finale vengono descritti i criteri di una cultura non emarginante, con dentro libertà, spazi di autonomia, ragioni e strumenti, capacità di tenerezza umana e di solidarietà sociale. 

  

 


 

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Il dono e lo scambio

               Il dono e lo scambio
Antiseri D., Panizza G., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012

   
È possibile fondare una società solo su relazioni di fraternità potendo fare a meno dell’economia e delle relazioni di scambio economico che contraddistinguono fin dall’antichità le società umane? E, viceversa, è possibile immaginare un mondo regolato esclusivamente dalla legge del mercato, dall’interesse dei singoli e dalle relazioni di scambio economico? A partire da queste domande nasce un dialogo tra il filosofo cattolico Dario Antiseri e il sacerdote Giacomo Panizza sull’importanza del dono e dello scambio, ma anche sulla ragione critica, l’etica, la proprietà, la solidarietà, la pace, la povertà e il benessere. Attraverso brevi capitoli, argomentazioni e domande reciproche gli autori delineano un quadro composito, a tratti in rapporto dialettico e a tratti ricomponendo in una visione complementare i rispettivi punti di vista.

 


 

Dallo stato nascente all’istituzionalizzazione

Tesi di master di Angela Regio, responsabile del Centro di Riabilitazione della Comunità Progetto Sud, dal titolo: “Dallo stato nascente all’istituzionalizzazione: un patrimonio di cui avere memoria, da non disperdere e da rigenerare”.

leggi la Tesi 

 


 


 

Àlogon 89

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La morte di Franco può dire qualcosa al piano di rientro della sanità calabrese?

di Giacomo Panizza
La notte del 26 gennaio è morto Franco, una persona con disabilità, molto debole a causa della distrofia muscolare. In questi mesi, le tensioni con gli addetti del comparto socio sanitario regionale l’hanno sovrastato e debilitato ben oltre l’evoluzione della sua malattia.

È stato, col fratello Mimmo e altre persone in carrozzina a rotelle, tra i pochi che in Calabria mettono in atto vere lotte di opposizione ai ricoveri nelle strutture assistenziali che imprigionano e catalogano nella fila degli ultimi, dei diversi e dimenticati. Franco partecipava al gruppo che elabora proposte positive per sé e per gli altri, servizi di sostegno all’ordinario vivere nella società. Rifiutava di venire escluso, si sentiva normale e di valere. Si sentiva persona, come tutti.

Tra le proposte concrete, compartecipava alla sperimentazione del progetto “Abitare in autonomia” con la Regione Calabria, ma la Regione, col termine dell’ultimo anno – pur sapendo che costa meno qualche ora di assistenza a casa che un ricovero residenziale – sta accampando problemi economici, mettendo in campo schermaglie, alibi, il nascondersi dietro un dito con rimpalli di competenza tra gli Uffici alla sanità e gli Uffici per i servizi sociali. La minaccia di sospensione dell’assistenza, sofferta come violenza ai diritti basilari e ai suoi bisogni vitali, ha mandato Franco in depressione. L’insicurezza di poter essere assistito a casa sua, a Tiriolo insieme al fratello Mimmo, e lo spettro del ricovero chissà dove, han contribuito ad aggravargli il quadro psicosomatico rendendolo più fragile e vulnerabile. Non ce l’ha fatta.

Altre persone con disabilità subiscono lo stesso ricatto, sprovviste di tutele sindacali perché assistite da pochi operatori, sono indebolite da mesi di ansia, stordimento, paura dell’irrazionale esito di una vicenda per la quale la politica socio sanitaria calabrese le costringe alla morte civile ricoverandole in istituti, Rsa, case protette e quant’altro, piuttosto che garantire loro la vita normale presso abitazioni nel loro territorio.

Tutti ci chiediamo: che sanità è quella che porta alla depressione e non cura? E che sociale è quello che abbandona chi non può nemmeno lavarsi cucinare vestirsi muoversi autonomamente? Lo chiediamo alla Regione Calabria! In particolare a quei politici, dirigenti e burocrati che non si sono nemmeno accorti che Franco è morto prima della sua ora.

Al contrario, la Calabria ha bisogno di amministratori che nello svolgimento del loro dovere si accorgono delle persone malate e deboli che lottano contro la morte civile, che esigono di rimanere nel pieno della vita sociale. Non abbiamo bisogno di una scriteriata politica che attua piani di rientro ragionieristici, ma di una politica che si prende cura di far rientrare la perduta dignità umana delle persone ammalate.
Lamezia Terme, 27 gennaio 2011

Elenco delle cose che mi piacciono del Sud

di Giacomo Panizza

FABIO FAZIO:
Don Giacomo Panizza, fondatore della comunità “Progetto Sud”, legge l’Elenco delle cose che mi piacciono del Sud

DON GIACOMO PANIZZA:
Del Sud mi piace chi se ne sta a mani nude, disarmate; chi non si lascia tentare ad opporsi ai violenti coi loro stessi metodi.

Mi piace tenermi negli occhi la luce, il cielo, il mare con le Eolie dentro e la riga del sole rosso che ci tramonta dietro.

Mi piace ascoltare la gente del Sud parlare le sue parole.

Dal Sud ho imparato che non tutto è urgente, non tutto deve essere perfetto o in orario, non tutto è essenziale: e mi è piaciuto.

Al Sud mi piace chi fa il padrino senza fare il padrone, chi fa doni per amicizia e non per legarti al suo clan.

Mi piacciono le madri che non dimenticano i figli, qualunque cosa abbiano combinato; madri che supplicano i boss di ’ndrangheta di svelare dove hanno buttato o seppellito i loro figli, spariti di lupara bianca, per portarci un fiore.

Del Sud mi piacciono le donne, attente e appassionate, con cuori grandi.

Mi piace vedere i giovani “sbattersi” coi partiti politici, con l’utopia di rinnovare i partiti e la politica.

Mi piacciono quelli che in tribunale si ricordano le facce e le parole di chi ha chiesto loro il pizzo, indicandoli davanti a tutti.

Mi è piaciuta l’idea di emigrare a rovescio, di andare a conoscere limbo e inferno, purgatorio e paradiso, la mia vita con altri altrove.

La ‘ndrangheta come luogo di educazione totale

di Giacomo Panizza

Le due scuole

Il western dava la prima scena di botte. «Vai vai, menalo», tuonò all’improvviso Giuseppe nel buio della sala. Digrignava «Uccidilo! spaccagli le mani!». Il “buono”, scaraventato all’esterno del vagone postale, stava fortunosamente aggrappato allo stipite della porta del treno che sfrecciava nella prateria. In affanno, era alla mercé del “cattivo” il quale, senza perder tempo, corse alla sacca dei dollari e se la svignò per le carrozze posteriori. «Cornuto!» sentenziò Giuseppe, mentre io sulla poltrona accanto appuntavo nella mente alcune domande da rivolgergli al momento opportuno.
Quella sera Giuseppe aveva da poco compiuto 17 anni. Poiché era minorenne, il giudice l’aveva affidato al nostro Gruppo appartamento in alternativa al carcere, in prova, al fine di poter vagliare al meglio sue eventuali possibilità di sganciamento e riabilitazione da quel gruppo criminale di stampo mafioso di adulti insieme ai quali era stato catturato al Passo Aquavona, sopra Lamezia Terme, durante uno scontro a fuoco coi carabinieri.
Non avevo mai visto nessuno indignarsi tanto col “cattivo” perché questi se ne scappava coi soldi senza aver prima eliminato il “buono”, sfracellandogli le nocche delle dita di quelle mani ben enfatizzate dalla macchina da presa per creare suspense, che lo mantenevano penzolante fuori dal treno in corsa.
Al rientro gli evocai il tifo accalorato che aveva espresso durante certe scene del film, e dal suo dire risaltava il suo impersonarsi negli avversari degli “infami della legge” e il suo preciso quadro valoriale circa come si sta al mondo. Ci credeva. In sintesi, mi spiegò che nessun Gruppo appartamento o carcere minorile o degli adulti né altro avrebbe potuto fermare i giovani di ’ndrangheta. Per la prima volta in vita mia capivo che non stavo ascoltando parole sulla mafia ma dalla mafia. Era giovanissimo. Non aveva concluso le scuole dell’obbligo ma si notava che alla mafia vi era stato educato e aveva imparato benissimo.
Dopo quell’episodio, solo rare volte ho avuto la sensazione di riudire parole di mafia dal di dentro. Sensazione che provai anche immerso nella lettura di Anime nere di Gioacchino Criaco (Rubbettino 2008) fresco di stampa.
«A quel tempo ci sembrava normale chiamare porco un uomo, quello era il nome coniato dai rudi e cinici pastori della montagna per gli ostaggi che numerosi soggiornavano negli intricati boschi dell’Aspromonte (…) Il porco camminava tranquillo, non aveva mai chiesto soste acqua o cibo, così arrivammo prima del previsto (…) La mattina seguente, come sempre, prendemmo l’autobus delle 6 e 30 che ci portava in città ai banchi del liceo, dove ci ritrovammo, seduti, ad affrontare cinque ore di lezione. Tre studenti normali».
I tre giovanissimi protagonisti frequentano il liceo e le operazioni di sequestro. Sono due scuole, di cui la prima – il liceo – serve loro per apprendere saperi tecnici e funzionali, mentre la seconda – fatta di sequestri, omicidi, traffici di droga, carceri, eccetera – rappresenta i basilari saperi della vita.
Quello che l’Autore definisce romanzo, sostenendo che il libro tratti fatti e personaggi frutto di pura fantasia, pare più la descrizione circostanziata di avvenimenti accaduti a persone e “famiglie” vere. I vissuti dei clan e gli elenchi di fatti di mafia locale e di “mafia export” (vedi Mafia export di Francesco Forgione, Baldini Castoldi Dalai 2009) sono particolareggiati, alcuni paiono come appresi di prima mano e altri con la prima socializzazione. Frasario, logiche ed episodi gli escono dalla penna e da sotto la pelle come espressioni di persona ben informata e consapevole. Tranne (voluti?) paragrafi misurati, sembra di leggere genuine esperienze dei giovani di ’ndrangheta, avvenimenti reali romanzati.
Da ciò e da come scrive, l’Autore mostra di conoscere da vicino i comportamenti di ’ndrangheta, esperienze che toccano un’alta percentuale di giovani calabresi in quanto facenti parte di quel contesto, o perché lo vedono da vicino, o lo captano da discorsi e da modi di dire, o attraverso la lettura dei frequenti articoli di cronaca, o dai commenti a sentenze dei tribunali e ad altri atti giudiziari. La stessa vicenda di suo fratello Pietro, catturato recentemente in seguito a una latitanza di undici anni e condannato a venti, che sta scontando in regime di 41bis, non viene menzionata nel libro, ma di certo contribuisce a fornirgli le parole di una cultura che traspare dai tantissimi risvolti che emergono dal “romanzo”. Libri simili diventano necessari per aiutare i più a comprendere l’humus culturale della ’ndrangheta andando oltre la sua dimensione militare e di business. Come il caso di Gomorra, essi illuminano il lettore sulle chiavi interpretative di un quotidiano rimosso ma ben attuale, che polarizza e indirizza i giovani di ’ndrangheta e anche oltre, perché è fuor di dubbio che la ’ndrangheta insegna forma ed educa anche oltre i perimetri dei clan insinuandosi fin dentro le famiglie “normali” nel senso di ordinarie. Quelle che tacendo consentono alla ’ndrangheta di spadroneggiare. Infatti, il luogo d’incidenza della sua interazione educativa è la situazione reale: ieri la famiglia e il territorio, e oggi, con la globalizzazione, vi ha aggiunto il mondo. Da Gomorra:
«Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo:
“Robbe’, cos’è un uomo senza laurea e con la pistola?”
“Uno stronzo con la pistola”.
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea senza pistola?”
“Uno stronzo con la laurea…”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea e con la pistola?”
“Un uomo, papà!”
“Bravo, Robertino!” »
Dentro la mentalità comune confluiscono più forme di mafiosità: quella dei boss e quella delle donne di mafia, quella dei giovani in carriera nelle cosche e quella degli altri giovani, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città. Tutto ciò non accade per caso. Si esprime attraverso regole “educative” piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, non certo della crescita umana dei suoi giovani componenti, per i quali è stabilito che sia secondario persino il sentimento di amicizia.
Rivolte all’interno come regolamenti rigidi, queste regole si impongono nelle comunità locali come regolazione sociale. Esse insegnano ai giovani il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali, come ad esempio riscuotere il pizzo, mostrano che chi apprende, dopo essere stato messo alla prova, ottiene fiducia e fa carriera interna. L’educazione dei giovani criminali avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano e dimostrano che uno sparuto gruppo di persone riesce ad “ammaestrare” interi quartieri e un’intera città.
I giovani di oggi, rispetto a quelli di ’ndrangheta di un decennio fa, non hanno solo da imparare dai loro “vecchi”; a loro volta possiedono strumenti nuovi per poter insegnare cose nuove e utili ai genitori, ai capi, ai boss, perché come i loro coetanei hanno familiarità con linguaggi e saperi digitali, capacità specifiche di contabilità, ragioneria, partita Iva, finanza, fiscalità, acquisite alla “scuola normale”.

L’educazione della forza
Se come proposto da Luigi Monti nel primo numero della rivista “gli asini” (Oggi e domani, 2010) per educazione intendiamo «tutti i discorsi, gli ambiti e le attività legate alla formazione dei valori e alla trasmissione della cultura», l’educazione praticata nelle famiglie di ’ndrangheta è fatta di comportamenti e parole che esprimono significati e giudizi di valore stabiliti dalla ’ndrangheta stessa; e questo essa lo trasmette all’interno e all’esterno fin dove le serve. Cosa sia bene e cosa sia male non viene ricercato o studiato nella realtà oggettiva, ma viene stabilito dai clan in maniera autoreferenziale, a seconda dei loro mutevoli interessi di dominio e di ricchezza che connotano onorabilità dubbie, essendo persino modificabili a piacimento. Ad esempio, in determinati periodi storici, nella ’ndrangheta si reputava disonorevole gestire la prostituzione e il traffico di droga, invece da qualche lustro non è più così: alcuni clan calabresi controllano prostituzione e tratta e altri si sono trasformati nei maggiori trafficanti di droga del mondo.
Abitualmente si pensa alla ’ndrangheta come a un’organizzazione introversa ammantata di omertà. In verità, il non parlare e non far sapere non le si addice, poiché essa vuole dire, insegnare, educare. «La ’ndrangheta è un’associazione segreta che vuol farsi conoscere da tutti» (è il titolo di un mio articolo apparso su “Lo straniero” n.82, 2007) poiché non occulta le azioni che compie – nemmeno quando fa sparire qualcuno di lupara bianca -, ma le firma, vi imprime i “suoi” significati e li comunica. Non conquista solo denaro, merci, beni e persone, ma anche i significati. In stridente opposizione alle varie pedagogie emancipatrici, la ’ndrangheta più che la forza dell’educazione attua l’educazione della forza. Considera tutte le componenti della definizione di educazione citata di Luigi Monti, però ha “suoi” discorsi, ambiti, attività, valori, e li trasmette coi codici culturali che essa stessa foggia ed esprime, sia con le buone che con le cattive maniere.
Verso i “suoi” giovani si manifesta come educazione totale in cui azioni, senso ed etica assumono le spiegazioni attribuite dai clan, da ritenere esaustive e impermeabili a interpretazioni diverse, derivanti dalla ragione o dalla religione o dal senso comune. È un’educazione etero diretta, in cui all’educando non viene concessa alcuna possibilità di emanciparsi e di raggiungere un individuazione del sè, per cui i giovani di ’ndrangheta faticano a distanziarsi e a mettere sotto critica il quadro di riferimento dei propri modi di agire, pensare e giudicare. Non si percepiscono “criminali” come generalmente vengono intesi, o come definiti sul dizionario, o come configurati dalle leggi dello stato. Lo stesso termine “crimine” a loro dice forza, superiorità, avvedutezza, bravura e affini, gratificanti significati. “Crimine è la funzione ricoperta dall’affiliato che ha la responsabilità delle azioni criminali del locale” (Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Fratelli di sangue, Pellegrini 2006). È un’educazione performante, al punto che essi intendono come “bene” ciò che per gli altri è inteso come “male”. Siamo di fronte a un’educazione totale poiché totale è il controllo operato da parte di chi educa e totalizzanti sono i metodi e i significati che trasmette a chi viene educato. Lo si deduce anche dal come le mafie – non solo la ’ndrangheta – padroneggiano e manipolano sentimenti e valori della famiglia, da come usano e stravolgono simboli e significati religiosi, da come ritualizzano, formano, premiano e castigano.
Un’esperienza diretta mi ha fornito una lezione chiara sulla pervasività di quest’educazione totale.
Cito dal mio Finchè ne vollero. Diario spirituale perché materiale, Paoline 2002: «11 Luglio 1997. Oggi devo nascondere dei “piccoli” con la mamma, la quale intende denunciare le violenze subite in una ’ndrina, una famiglia che fa parte di un clan. Li accompagno in automobile fino a uno dei nostri “rifugi”, dove li seguiremo per alcune settimane, fintanto che la mamma farà la deposizione dal giudice. Al contempo si dovrà trovare casa e lavoro lontano dalla Calabria e dai luoghi di classica emigrazione calabrese. Conto su suor Rosetta e sulle sue suore.
Il piccolo maschio davanti a due sorelline, una più piccola e l’altra più grande di lui, e alla mamma, si atteggia a comandante. Fa il capofamiglia. Mi dice che è colpa delle “donne” se tutti loro sono costretti, ora, a nascondersi alla ’ndrangheta. Soggiunge: “Siamo in questa situazione perché loro (e mi addita tutte e tre le donne) hanno cantato!”. Vivevano in una cosca che li “proteggeva”, i figli non hanno lo stesso padre, e nessuno li ha legalmente riconosciuti se non la mamma. Lei non ce l’ha fatta più e ha denunciato chi picchiava lei e chi maltrattava le piccole. Ma lui, il capofamiglia, non vede queste cose. Il piccolo ha capito (sic!) che cosa devono vedere e fare i maschi e che cosa le femmine.”
Nel tempo trascorso con la ’ndrina, quel bambino aveva ricevuto l’educazione sufficiente per assimilarsi ad essa, assorbendo i discorsi, gli ambiti, le attività legate alla formazione dei valori e alla trasmissione della mentalità.
L’educazione della forza – che è il contrario della forza dell’educazione -, nella storia d’Italia non è retaggio dei soli contesti di mafia o di alcune regioni del Sud. Ad esempio, l’hanno conosciuta molti italiani di ieri, formati con l’educazione totale del regime fascista, come in altri modi la si conosce in molti anche oggi, nella forza suadente di poteri vari e di mass media che intasano il pensiero, distruggono l’intelligenza critica, inondano di sofismi qualsiasi spunto di indagine sulle obiettività dei fatti e sul dibattito antropologico ed etico. È un’educazione strisciante che si percepisce meno della brutalità fascista, ma l’approccio pedagogico è identico, è dispotico.
L’undicenne capofamiglia sopra citato, tuttavia, alla fine del viaggio in automobile mi ha fatto gustare la sua parte viva di cucciolo d’uomo.
«Al pomeriggio li accompagno in macchina verso il nascondiglio. Mentre viaggiamo sta piovendo. Il piccolino (di dieci anni), che si è messo sul sedile davanti, mette il dito sulla foto di Niki (dieci anni) che tengo sul cruscotto. “Chi è?”, mi domanda. (…) insiste: “Chi è?”. Tradisce un’ansia e una curiosità che colgo subito. “È mio figlio”, gli dico (…) mi chiede se va a scuola, se gioca al pallone, per quale squadra di serie A tifa… E parla, parla, parla.” (ancora da Finchè ne vollero).
Questa “parte viva”, umana, pulita, non si riaccende solo nei bambini; essa irrompe anche nelle coscienze dei giovani di mafia, incoraggiandoli a smettere di abbruttirsi e a desiderare di cambiare vita. L’educazione alla ’ndrangheta non produce automaticamente risultati totalizzanti, però, troppi di coloro che la subiscono vengono costretti a esercitare la forza, minacciare persone, far esplodere saracinesche e automobili, estorcere denaro a commercianti e imprenditori, sparare pallottole nelle case, sequestrare uomini donne e bambini, contrabbandare, uccidere, compromettendo così ogni possibilità di vivere la propria esistenza libera e unica, poiché adesso conoscono troppe cose della ’ndrangheta, compresa la certezza che essa permetterà loro di distaccarsi solo da morti.