I rischi e le sfide. Politiche sociali e ruolo del terzo settore

di Giacomo Panizza
Mi fa molto piacere essere presente al trentennale del “Gruppo Solidarietà”. Fabio Ragaini mi ha invitato, tra gli altri, chiedendomi di raccontare un pezzo di storia del terzo settore per come mi è capitato di viverla in alcune sue varie trasformazioni, tenendo presente la sua rilevanza sociale e alcune sfide future rappresentate dalla storia – come il dato di essere in un’Italia di 150 anni passata da Regno di sudditi a Repubblica di cittadini e cittadine -, dalla cultura – come ci ha descritto Roberto Mancini -, e dalla politica – specialmente quella irrinunciabile puntualizzata da Tiziano Vecchiato -.
Nel mio parlare, userò un certo linguaggio ed esprimerò dei punti di vista provenienti da esperienze sociali vissute. Sono parziali modi di leggere e interpretare; eppure, chi fa volontariato o comunque è impegnato nel terzo settore, deve necessariamente passare attraverso l’agire, pensarlo e ripensarlo. Sa che deve dire la sua, come sa di dover ascoltare le ragioni di altri, conoscitori di altri settori. Il contatto con persone, famiglie, comunità locali e istituzioni, ci porta a vivere esperienze spesso gratificanti, “calde”, attraenti e coinvolgenti; altre volte faticose, contraddittorie e conflittuali: e per tutto questo, quando serve, ci facciamo aiutare da altri che studiano certe discipline umanistiche, sociali, economiche, organizzative o, come oggi con Mancini, ci mettiamo in ascolto della filosofia, o anche della spiritualità. Avendo a cuore di “far bene il bene”, ci facciamo aiutare volentieri.

Il gruppo che fa comunità: ieri spontaneo, oggi e domani una sfida
Come mai vi siete denominati “Gruppo Solidarietà”? Trent’anni fa, “gruppo” e “solidarietà” erano termini palesemente contrari a “istituto” e a “emarginazione”, e allo stesso tempo sottolineavano qualcosa cui si aspirava. Gruppo è indicativo di quel periodo. Connotava leggerezza e apertura, aspetti relazionali ed esistenziali. Dice di un’organizzazione leggera, nella quale suddividere compiti a turno, intercambiabili. Invita a condividere i saperi e le pratiche. Mette insieme persone differenti con interessi diversi. La parola gruppo ci portava a questi aspetti, a condividere alcuni scopi, e a narrarci: quante storie ci siamo raccontati in gruppo, quelle di chi veniva ad aiutare e di chi veniva a chiedere aiuto. E ci illuminavamo: al posto dei libri a quei tempi c’erano tantissimi di questi racconti.
Ogni gruppo fa “potere” nei territori, fa capitale sociale, soggettualità… e fa anche fare qualche nemico nella geografia dei poteri locali. Tante di queste cose, io le ho capite vivendole ma anche riflettendoci e facendomi aiutare da chi ci studia sopra.
Mi sono dilungato sul termine “gruppo” perché a distanza di trent’anni nel linguaggio del terzo settore si sono introdotti i termini “servizi”, “associazione”, “cooperativa”, “fondazione”, “ente”, “impresa sociale” e altri ancora, come “manager”, con significati più specializzati. Il che va bene, ma ritengo che il terzo settore non debba tralasciare i significati sociali, relazionali ed esistenziali dell’essere e fare gruppo. Mi permetto di sottolineare che nel terzo settore si rischia di perdere la dimensione del “gruppo”, appiattendosi su quella di “organizzazione”. Entrambe sono importanti, ma oggi nella società si vanno indebolendo le relazioni, la condivisione di scopi comuni, la valorizzazione di ciascuna e tutte le persone, la fidelizzazione ad appartenenze aperte, il radicamento sociale; mentre invece li vanno riscoprendo le intelligenti organizzazioni economiche.

Ciò che oggi denominiamo “terzo settore” ha avuto un imprinting
Che cosa stava accadendo a metà anni ’70 nel campo socio assistenziale? Accanto agli interventi concentrati sostanzialmente negli istituti di ricovero, si andavano diffondendo capillari iniziative “leggere”, di piccole dimensioni e con buone intuizioni valoriali ma deboli nei saperi professionali e nell’offrire garanzie di continuità. Iniziative al 90% di ispirazione ecclesiale. Io ho vissuto da dentro quel momento “magico”, l’ideatore del quale fu monsignor Giovanni Nervo, a nome della Caritas italiana. Cosa proponeva? Giovanni Nervo propose di sdoganare questi soggetti che svolgevano assistenza sociale, perché ormai stavano stretti nella chiesa e alla chiesa. Certamente la chiesa rimaneva presente, vicina, ma si riteneva importante fare in modo che queste realtà costituissero autonome soggettualità giuridiche, e autonomi movimenti civili.
Ci siamo indaffarati a creare questa novità. Abbiamo un po’ bisticciato sul nome dea dare a questo “mondo” che già si presentava come arcipelago: la parola “volontariato” suscitava perplessità perché – vi rendete conto – in quegli anni il volontario era colui che firmava per la leva militare. In tempi di guerra fredda tra la Russia e l’America, le quali mettevano basi missilistiche un po’ dappertutto, parecchi di noi facevamo fatica a digerire questa parola, ma alla fine l’abbiamo assunta per il motivo che si portava dietro l’idea di impegno volontario per la giustizia sociale e la solidarietà, riscontrabile nel cristianesimo, nelle ideologie socialiste, nella cultura anarchica e dal volontarismo etico.
L’imprinting è rintracciabile nelle mille facce della solidarietà che si andava esprimendo in molteplici modalità. Erano modi di organizzarsi con radici lontane nella storia italiana. Dopo secoli di cristallizzazione nelle forme di enti e di congregazioni religiose, in un breve periodo essi si sono articolati in quello che chiamiamo il “terzo settore”. Solo talune componenti politiche e sindacali ci criticavano, sostenendo che ciò che andavamo facendo come “privati” doveva piuttosto trovare la sua collocazione nel welfare statuale. Lo stato infatti, con a capo un partito di cattolici, non dava cenno di voler istituire il sistema di welfare di cui c’era bisogno, ma la contropartita di ciò che i nostri critici ci chiedevano era di lasciare a se stessi i bisognosi i poveri e gli emarginati che incontravamo, al fine di far scoppiare il bubbone politico. Noi abbiamo preferito scommettere sul farsi carico di alcune persone e categorie bisognose e parallelamente premere sui vari governi nazionali succeduti e su istituzioni regionali proponendo di legiferare in materia di welfare. Tiziano Vecchiato può garantire dei vari tentativi agiti in più tappe, fino al varo della 328 del 2000.
Inoltre, andavamo in giro a spiegare a persone-gruppi-enti “di chiesa” che essi erano persone-gruppi-enti “civili”, chiamati a responsabilità storiche e sociali e non solo ecclesiali, e che il paese aveva bisogno di più cittadini solidali che di un nucleo di cristiani benefattori. Considerando la genesi di questo pezzo di storia, propongo che quest’assemblea incarichi Tiziano Vecchiato, perché della Fondazione Zancan, di portare a don Giovanni un grande grazie a nome di tutti noi.
Quel movimento di sperimentatori si è collegato, e si è confrontato sui temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale, della solidarietà nelle sue dimensioni umane e sociali, economiche e istituzionali, sul fare bene il bene dotandosi di competenze e strumenti adeguati ad aiutare e accompagnare chi ne avesse bisogno. Ha preso parola e, da raggruppamento di privati benefattori, si è trasformato in volontariato prima e in terzo settore poi.
Questa riprogettazione dei gruppi sociali ha giuridicamente e concettualmente aiutato a separare dalla chiesa istituzionale una miriade di iniziative da essa e con essa promosse; ha anche liberato l’autonomia dei gruppi di impegno sociale, fino a venire considerati nell’articolo 118 della costituzione rinnovellata; ha stabilito le premesse per varie leggi regolatrici degli interventi promossi dal basso della società. Ma la realtà sociale s’è dimostrata più grande e complessa di quella che allora avevamo inteso fronteggiare con il volontariato. L’Italia non è un paese per volontari. Ancora oggi, risultano scoperte vaste problematiche sociali, non inquadrabili nel volontariato ma solo in un idoneo sistema di solidarietà pubblica di welfare.

Lo stato sceglie di abbandonare il sociale, e il sociale organizza risposte
Ce ne siamo accorti subito. In seguito all’approvazione del DPR 616 dell’estate 1977, abbiamo percepito che gli amministratori degli enti locali, seppur incaricati con decreto, non davano segno di volersi assumere i compiti degli enti disciolti. Avrebbero aperto spazi a enti di diversa natura: privati lucrativi? di beneficenza? di che tipo?
Simili interrogativi serpeggiavano nei raggruppamenti dei volontariati. Abbiamo dovuto interrogarci per decidere il da farsi, che comportava la certezza più che il rischio di trasformare parecchi nostri gruppi in enti di servizio per la gestione di servizi territoriali: realtà che richiedevano di andare oltre il volontariato, che in definitiva esigevano la gestione di servizi stabili, con garanzie di personale a tempo pieno, con sostegno economico adeguato al mantenimento di strutture e alla continuità educativa, terapeutica, riabilitativa eccetera. Ad esempio, il Cnca – coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza – si è costituito storicamente durante questa fase, collegando tra loro realtà già esistenti alle quali di fatto andava stretto l’essere gruppo di volontariato – senza ancora una legge – , poiché la gestione di case e comunità di accoglienza richiedeva organizzazioni stabili dotate di forme giuridiche e contrattuali che esulavano dal volontariato in generale.
Queste modificazioni legislative delle responsabilità degli enti locali territoriali e di articolazioni dei gruppi, hanno spianato la strada all’accrescimento numerico e tipologico del terzo settore, per cui man mano vennero varate delle leggi che altro non fecero che riconoscere le attività e i servizi che il nostro mondo sociale aveva già inventato e messo in campo per l’animazione sociale, i minori, l’handicap, le dipendenze, e così via.
Questa fase, al di là dei vari compromessi tra partiti politici e raggruppamenti sociali loro cinghie di trasmissione, a mio avviso ha prodotto leggi sostanzialmente buone per l’operatività del terzo settore. Meno buone per la garanzia dei diritti delle persone bisognose e vulnerabili. Infatti il rischio, tutt’ora persistente, consiste nel pensiero diffuso che i servizi sociali sono migliori se a gestirli è il terzo settore e non il comune o la provincia o la regione o loro strumenti operativi come le aziende sanitarie.
Altro rischio è la scarsa conoscenza delle politiche sociali, per cui ancora troppa gente si riferisce a ciascun singolo servizio come se fosse una realtà compiuta in se stessa e non come parte di un complesso di servizi e professioni sociali messi a sistema. È invalso questo modo riduttivo e distorto di concepire le “risposte” sociali, anche in vari soggetti del terzo settore, per cui – specie in tempi di crisi e di tagli – ognuno di essi bada a se stesso, operando in maniera che venga finanziato “quel” particolare servizio, ostacolando l’idea di costruire sui territori un valido sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Tre soglie con protagonismo e ambiguità
Della storia del volontariato, trasformato e ricomposto nel terzo settore, sottolineo tre passaggi, tre soglie storiche in cui è stato protagonista di sfide e di rischi.
Considero il triennio 1975-78 come la prima soglia. In questo frangente di protagonismo sperimentatore, si è coagulato il movimento del volontariato, il quale si è autocompreso e autoproposto; ha dichiarato e imposto la sua soggettualità nel panorama culturale e sociale, politico e perfino istituzionale; si è dato il nome, ha intravisto dei percorsi e li ha sperimentati direttamente. Qui stavamo in sintonia con le nuove leggi nazionali che traspiravano sicurezza sociale e diritti per tutti: il DPR 616/77 per la soppressione degli enti inutili e il decentramento di tante materie ai territori, le riforme della psichiatria, della sanità, del carcere, della scuola, e altre ancora, un po’ tutte caratterizzate – rispetto al passato – da un maggior coinvolgimento, oltre che degli addetti ai lavori, dei soggetti sociali nella prevenzione e nella partecipazione alla soluzione delle problematiche sociali.
Una seconda soglia la situerei a cavallo del 1990, di quest’altra corposa stagione di leggi sociali, puntate a riconoscere e rafforzare ma anche a “utilizzare” il terzo settore: la 266 sui rapporti tra il volontariato e le istituzioni, la 381 sulle cooperative sociali, la 104 sull’handicap, la 285 sui minori, la 162 sulle tossicodipendenze, la 135 sull’Aids, e così via. Qui, non poche associazioni di volontariato e cooperative sociali, svolgono attività sociali da cosiddetti “utili idioti”, fornendo alibi a enti locali latitanti. Numerosi volontari e volontarie “si lasciano” strumentalizzare nelle cooperative sociali e nella gestione al ribasso di servizi sociali. Complessivamente il terzo settore indebolisce il welfare, mettendo le pezze rinuncia a portare avanti una strategia per costruire i primi passi di una necessaria riforma dell’assistenza in Italia, senza pudore delega la riflessione sulle sue esperienze a enti esterni e con esso benevoli, come la Fivol.
La terza soglia la porrei nel 2000, nella promulgazione della legge 328. Qui – dato per scontato il ruolo del terzo settore nella gestione dei servizi e nella partecipazione alla costruzione del sistema integrato del welfare territoriale – scatta opportunamente la regolazione dei servizi messi in campo: dall’accreditamento alle rette, dalla programmazione alla valutazione, dai pagamenti alle penalità. La nota positiva della 328 nei confronti del terzo settore riguarda senz’altro la partecipazione ai tavoli dei piani di zona. Io non so come sia andata da voi nelle Marche, ma in Calabria ho potuto vedere cordate del terzo settore imporre ai tavoli la lista dei bisogni territoriali, bisogni che non erano altro che quelli dei quali essi stessi detengono i servizi. Conflitti d’interessi palesi. Quali cambiamenti si apporteranno alla cultura, alla politica, al bene comune, ai sistemi di potere?
Nel periodo in cui pare tramontata la stagione delle grandi associazioni quali cinghia di trasmissione dei partiti politici che le foraggiavano in cambio di voti, esistono dei rischi e delle sfide che interrogano esclusivamente il terzo settore.
Pensiamoci: com’è possibile che non si facciano battaglie sulle cose che abbiamo sentito qui stamattina, ma si mettono tutte le energie sul recuperare il 5per1000 nella finanziaria? É possibile che non si accndano conflitti nei territori, nelle regioni, a scala nazionale? Soltanto due o tre volte il nostro mondo si è radunato in piazza a Roma per dire che “la solidarietà non è un optional”, e manifestando per qualche taglio a qualche finanziaria. Anche le proposte alternative che si elaborano insieme a “Sbilanciamoci!”, diventano battaglie scaricate sui rappresentanti nazionali, delegati a contrattare con governi e ministeri punti su cui nemmeno tra loro sono uniti!
E qui abbiamo un rischio nel rischio: rappresentato dai non pochi leader del terzo settore, che agiscono la loro leadership a somma zero, prime donne rincorrenti le telecamere e le candidature politiche, conosciutissimi, i quali convogliano la mole di energie dei gruppi su se stessi e non sul benessere sociale, sulla carriera personale e non sulla crescita del gruppo, sul capo e non sui ricambi di leadership e di ruoli, sul “pater” e non sull’autonomia delle persone in carico, che infantilizza chiamandoli “i miei ragazzi”.
Un altro grosso rischio l’ha espresso Tiziano Vecchiato. Abbiamo un paese colabrodo. Io ho qui appuntato “un’Italia a pezze colorate”, cioè con politiche sociali disuguali. Ad esempio, la Calabria per i servizi sociali stanzia 27 euro annui pro capite: sette, dieci, venti volte meno dell’una o l’altra o quell’altra regione, e di conseguenza non ha il numero di operatori sociali e neppure di servizi come le altre. Che faremo con la sfida del federalismo, se non decolleremo dalla stessa linea di partenza? Il federalismo rimane una bella sfida, rimane che devo farci i conti, che non posso accontentarmi di sostenere che la Calabria faccia di tutto per ottenere i soldi della perequazione, ma anche pretendere e fare in modo che la Calabria impari a spendere correttamente i soldi di cui già dispone.

Alla riscoperta di valori e di strumenti nei rischi e nelle sfide del terzo settore
Gli strumenti di supporto al terzo settore e alle sue componenti e articolazioni, di cui ci siamo dotati in quest’ultimo decennio, rappresentano una sfida e un rischio da assumere con intelligenza e saggezza storica, perché a me paiono fragili economicamente e democraticamente, e ambivalenti se non addirittura ambigui. Mi riferisco ai convegni e alle conferenze del volontariato, che troppo spesso sono sul volontariato. Sto parlando anche del Forum nazionale del terzo settore, con al suo interno una spinosa questione di potere e di rappresentanza tra i componenti. Così anche i Centri di servizio del volontariato, vere sfide ai gruppi di volontariato, perché li utilizzino meglio come loro strumenti e non come loro suggeritori o rappresentanti. Parlo anche della Fondazione per il Sud, dei criteri coi quali sceglie sia i progetti che i territori da sostenere, con una’autonomia al di sopra di tutti e tutto, facendo così la “sua” e non una generale politica sociale. Parlo dell’autonomia acritica e della pletora dei destinatari del 5×1000, di cui ho già detto. Ecco, questi strumenti presentano aspetti positivi e altri di ambiguità di cui è importante per il terzo settore esserne consapevoli.
Dal nugolo dei valori emergenti dall’esperienza del volontariato prima e del terzo settore poi, ci possono essere principi da riscoprire e conservare anche per il futuro prossimo, perché validi e forse persino irrinunciabili?
Conosciamo quelli che sono ritenuti “i valori del volontariato”, la gratuità, la solidarietà, la qualità delle relazioni con l’altro, la sussidiarietà, la responsabilità, la cittadinanza, il suo ruolo politico, la sua funzione culturale. E i suoi atteggiamenti e ruoli, la sua presenza preziosa, la sua la sua la sua. Ecco, credo che siano tutti aspetti grandiosi e preziosi, in certa misura validi anche per il resto del terzo settore. Però oggi vorrei ricordare che alla base di questi valori non dovremmo porre il volontariato e il terzo settore, ma le persone tutte, specialmente quelle che hanno bisogno del volontariato e del terzo settore e inoltre della società e delle istituzioni, per poter ritornare “persone” compiutamente di eguale rispetto alle altre.
La rilevanza, il “peso” incommensurabile della dignità umana di ciascuno e di tutti, è il fondamento del nostro e altrui impegno. Nessuna persona è di Serie B. L’abbaglio maggiore che noi corriamo è quello di passare sopra alla dignità umana di chi viene aiutato, e anche di chi aiuta. Quando operiamo con la tratta, con la prostituzione, con il fine vita, ovunque con chiunque è dipendente dalle nostre cure, ci ricordiamo che stiamo operando sull’alto livello della dignità umana?

La sfida della complementarietà tra differenti diritti
In questi giorni i giornali ci martellano col dibattito sull’irrinunciabilità dei diritti politici, sull’ingiustizia di escludere alcune liste del Lazio e della Lombardia dalli competizione elettorale di quelle regioni. Dicono che “non è lecito non far votare il popolo” perché verrebbe privato del suo diritto di voto. Ma certo! Però nemmeno si può continuare a rischiare di morire in ospedale come avviene in Calabria, non si può esser privati di relazioni umane come capita in più parti d’Italia, non si può venire imbottiti di farmaci, non avere servizi, vivere in ghetti, dover viaggiare mille chilometri per una diagnosi, dover abbandonare genitori casa amici per sottoporsi a un programma di riabilitazione un’ora al giorno per la durata di vent’anni o per tutta la vita! Sapete perché io sono in Calabria? Perché negli anni ’70 un gruppo di calabresi con disabilità e in carrozzella aveva chiesto di ricoverarsi alla Comunità di Capodarco di Fermo per poter fare fisioterapia e, opportunamente, invece che spostare tutti quanti loro, in accordo la comunità ha spostato me.
Cito questi esempi per sostenere che anche i diritti sociali son irrinunciabili, che hanno parità cogli altri diritti, e non sono da meno. Sono equivalenti. Non si può dar retta a chi a maggioranza numerica pretende – e spesso ci riesce – di tagliare sulle spese sociali dei cittadini più poveri di lui. La sfida per il terzo settore diventa anche quella di rendere più sociale la politica; e anche di travasare socialità nell’economia di mercato.
La scommessa futura del terzo settore certo non verterà su aspetti di natura tecnica, pur importanti, ma sarà piuttosto quella di volare alto, di esprimere consapevolezza e eticità di gruppi che socializzano il territorio. Io sono nato a Brescia e mi rendo conto che socializzare il territorio a Brescia è differente che a Lamezia Terme, dove c’è la ’ndrangheta, un non-stato che socializza a modo suo zona per zona, violenza su violenza.
Comunque e ovunque, sarà importante il modo di porsi come gruppi, oltre che come enti e servizi. Anche al tempo di internet. Gruppi per l’utilità pubblica, specialmente per persone e categorie fragili e vulnerabili. Gruppi di persone persuase della dignità e dei diritti umani di tutti, anche del “diritto di dare” agito non solo dal volontario ma anche dalla persona con disabilità, o sofferente mentale, o dipendente da sostanze, o povera in canna, o immigrata. Costoro non devono solo ricevere ma raggiungere la possibilità di potere a loro volta dare, vivere la verità esistenziale che davvero “è più bello donare che ricevere”.

Di nuovo mi complimento per i trent’anni del Gruppo Solidarietà, e auguro ai componenti e alla sua rete sociale di continuare ad essere un gruppo radicato nel territorio e con lo sguardo sul mondo; un gruppo che non ha paura del futuro quando gli chiederà coerenza, rigore, radicalità. Una scossa forte al terzo settore si prefigura quella diretta a minare i nostri valori quando, col pretesto dei tagli e della crisi, ci chiederanno di operare beneficenza e non promozione dell’autonomia delle persone; così come quando tenteranno di imporci di snaturare le nostre professioni sociali per farcele declinare in custodia, controllo, separazione dei deboli a tutela dei benestanti e benpensanti. Ebbene: con 30 anni di esperienza dal basso sapete da soli a chi e quando dovrete rispondere coi vostri “no” o coi vostri “sì”. Auguri.

Nota informativa della Comunità Progetto Sud riguardante il recente attentato di stampo mafioso

di Giacomo Panizza
La Comunità Progetto Sud ringrazia le tantissime persone che, a nome proprio o di gruppi sociali, enti pubblici e privati, hanno manifestato solidarietà e incoraggiamento, in seguito al recente attentato subito. La vostra è una calda e corale vicinanza che ci aiuta a mantenere e ravvivare gli ideali di accoglienza, giustizia sociale e legalità.

L’officina meccanica che ha visionato i due automezzi danneggiati ha confermato che i tubi dei freni sono stati tranciati di netto, e inoltre ha rilevato la manomissione del sistema ABS. Insomma: chi ha agito non intendeva semplicemente danneggiare qualche automobile ma intimorire e nuocere a persone, indifferentemente se operatori della comunità o disabili in situazione di handicap grave. Infatti, uno dei mezzi guastati è omologato per il trasporto di persone in carrozzina a rotelle. La ripida discesa antistante la sede della Comunità di Via Conforti di Lamezia Terme non lascia dubbi sulla pericolosità del messaggio criminale; solo la prontezza di riflessi ad afferrare il freno a mano ha salvato gli autisti e gli altri occupanti dei veicoli. È un attentato oltre che un avvertimento.

Di fronte a questo episodio delinquenziale, ho potuto scorgere nei volti dei soci e dei collaboratori della Comunità Progetto Sud alcune espressioni di smarrimento, ma poi il coraggio e la speranza hanno ripreso la loro quotidiana robustezza.
All’opposto, invece, ho provato a immaginare le espressioni di chi, nella notte tra il 2 e il 3 novembre, è venuto nascostamente a compiere un gesto malvagio, di chiaro stampo mafioso. Sotto quei tuoni fragorosi e quel diluvio che pioveva dal cielo, come vi sentivate mentre tagliavate i fili e i tubicini dei freni? E mentre stavate sdraiati per terra, con la schiena inzuppata nel lago d’acqua, mentre vi accanivate sull’ABS per danneggiare di più la stabilità dell’automobile? Avete fatto un pensiero a chi vi ha comandato di fare questo? Vi siete chiesti se vi stima? Di certo no! Chi vi comanda di “lavorare” di nascosto vi usa e getta: quanto gli importa di voi, della vostra dignità e coscienza, della vostra salute e del vostro futuro? Invece la Comunità Progetto Sud vi augura che possiate divenire più capaci di apprezzarvi, di amare la coscienza pulita, la vostra salute, il vostro futuro, insieme all’amore di qualcuno che vi è caro e al quale siete cari.

Vi auguriamo di acquisire coraggio e speranza nella vita, provando esperienze di bene e non di male, esperienze di libertà e non di manovalanza ai boss, provando a sentire quanto sia bello vivere rispettandosi e aiutandosi a vicenda.

Lamezia Terme, 6 novembre 2009 

Da Amantea una sola voce: Riprendiamoci la vita, vogliamo una Calabria pulita!

di Giacomo Panizza
Benarrivata tra noi Signora Anna Maria.
Con la scopertura della targa commemorativa
da oggi questo lungomare di Amantea
prende il nome di suo marito, il comandante De Grazia.
Per lei Natale è un nome che fa rivivere affetti e ideali,
per noi accende coraggio e senso dello Stato,
e l’aspirazione a dare continuità al suo impegno.

Le parole Amantea, Cetraro, Crotone,
Praia a Mare, Serra Aiello,
Tirreno, navi, mare… sono espressioni nostrane
che non evocano più turismo, spiagge e sole,
verde e blu, ma veleni e tumori,
abissi oscuri portatori di malattie e di morte.
Oggi siamo tutti e tutte qui, protagonisti,
per protestare contro chi inganna,
chi fa affari sporchi,
chi ha compiti di vigilanza ma non vigila,
e siamo qui anche
per riprenderci la Calabria più pulita
nell’ambiente e nei comportamenti individuali,
sociali, politici, amministrativi.
Questa di oggi è una protesta della società civile.
La popolazione che ha visto lo scempio del mare
rifiuta espedienti per galleggiare a malapena.
Qui la gente ci vuole vivere, non sopravvivere.

Chi ha affondato navi e scaricato veleni nel mare
sono imprenditori e imprese bluff.
Chi vi ha collaborato sono affaristi
sporchi che inquinano pure se stessi e i loro figli,
sono ’ndrangheta e mafie,
sono i loro sodali colletti bianchi
ben accasati nelle PPAA e nelle Istituzioni,
conniventi con nemici occulti del bene comune,
del mare nostrum, della democrazia.
Costoro intendono far passare
il modello dell’appropriazione criminale,
vigliacca e occulta di ditte e di gruppi
spacciandosi per modelli imprenditoriali.

Senza tema di populismo
credo che si possa affermare
che se vi sono veleni inabissati in questo mare
non sono originati in Calabria,
ma prodotti da varie ditte di vari Nord.
Come dir loro che sono criminali?
Noi intendiamo individuare chi li copre e assolve.
La loro logica criminale
fa un salto di qualità e di quantità che spiazza perfino
il classico metodo del racket
in cui la ’ndrangheta e le varie mafie
incrementano i loro misfatti
caso per caso, negozio dopo negozio,
ditta dopo ditta, presentandosi a viso scoperto
per far pagare e sottomettere
persone, aziende e territori.
Invece qui essi consumano crimini nel massimo silenzio.
Si accontentano: gli basta semplicemente fare soldi!

Però il mare si ritorce contro, avvelenando tutti:
contamina gli ingenui che non sanno,
ammorba coloro che sanno ma per paura tacciono,
inquina noi anche se sappiamo e ci ribelliamo.
Il mare presenterà il conto anche ai criminali stessi!

Perciò la protesta di oggi è anche propositiva,
è un invito a riprenderci la vita e la Calabria.
Immaginate che un giorno si giunga al punto
di concepire questo tratto di mare
come un’area dismessa, un mare da svendere
o forse da recuperane nel corso di secoli o di millenni.
Qualche imbecille capace di affermare
che questo è un problema calabrese, o solo del sud,
lo incontreremo ancora.
Ma il mare nostrum non appartiene
solo ai litorali calabresi: è europeo e mondiale;
è di tutti e per tutti.

In risposta a questo disastro di veleni e inquinamenti
non vogliamo leggi del caso per caso, fuori contesto.
E non vogliamo leggi superficialmente rassicuranti
ma farraginose nelle procedure,
o timide nell’indicazione dei costi
e delle responsabilità.
Non vogliamo che si ragioni ancora
con la paura dei costi e dei conti,
mentre per talune opere non urgenti,
o addirittura inutili e dannose,
ci si vanta di investimenti faraonici.
Responsabilmente, noi vogliamo conoscere quanto costa
pulire e prevenire in termini di impegni economici,
e quanto ci costa in nuovi stili di vita civili e di legalità.
Per questo oggi siamo qui:
per dire che noi ci siamo e ci stiamo a mutare le cose!

Pacificamente, noi vogliamo esserci
dentro una politica-chiave
per l’ambiente e l’economia,
per il mare e la democrazia.
Vogliamo partecipare
a una politica sostenibile
che possa esprimere la doppia fedeltà:
alla tutela del mare
e del lavoro nel mare;
doppia fedeltà alla riqualificazione del territorio
e degli impieghi a ciò confacenti;
fedeltà all’ecologia e a un’economia locale dignitosa
e senza gabbie che sanciscono disuguaglianze.

Le prossime politiche ambientali
devono investire con lungimiranza su questo mare.
Ne va anche di non poca occupazione sulla terra,
sulle coste, nella regione intera.
Auspichiamo che si faccia presto,
perché certi problemi prima si fronteggiano
e più sono risolvibili.
Purtroppo non aiutano a fare bene né a fare presto
i silenzi e le frasi di rito
di uomini e donne eletti in Calabria
per la politica locale, nazionale ed europea,
né le parole vuote, le decisioni inefficaci,
le indecisioni incomprensibili,
di chi dovrebbe o potrebbe fare ma non fa.

Noi oggi manifestiamo perché vogliamo sentirci di casa
in un territorio e in una Repubblica
capaci di mettere ai margini
gli avvelenatori, affaristi, mafiosi e collusi.
Vogliamo sentirci di casa
in un territorio e in una Repubblica
capaci di rimettere al centro il presente e il futuro
di questa terra di Calabria,
col suo mare, col suo cielo e con la sua gente.

Intervento tenuto ad Amantea il 24 ottobre 2009, alla cerimonia di scopertura della targa commemorativa e dedica del lungomare al capitano di corvetta Natale De Grazia, medaglia d’oro, morto in circostanze rimaste oscure mentre indagava per scoprire la verità sul traffico di rifiuti tossici e sul misterioso affondamento di alcune navi nel Tirreno.
Dopo il saluto, la vedova del capitano, signora Anna Maria Vespia, è intervenuta affermando, tra le altre cose: «Non scoprire la verità fa morire due volte. Da dove mio marito ha lasciato bisogna continuare. Avete dato valore al suo sacrificio. Tutto questo vale più di una medaglia d’oro perché deriva dalla gente. Questo gesto è bello non solo perché commemorativo ma propositivo. Speriamo che la gente cominci a svegliarsi e a pretendere la verità.»
Si è dato poi avvio alla manifestazione nazionale promossa dal locale Comitato Natale De Grazia, alla quale hanno partecipato migliaia e migliaia di persone, in nome della ricerca della verità sulle navi dei veleni e per il rilancio della democrazia, della salute e del lavoro in Calabria.

Il territorio lametino e le multietnie, la diversità e l’accoglienza

di Giacomo Panizza
Lamezia Terme è una città di passaggio per tante persone: per quelle che scendono dai monti circostanti la piana in attesa di spostamenti altrove, per quelle che dal nord Italia vengono coinvolte in brevi esperienze di lavoro, per quelle straniere che approdano in Italia in cerca dell’Europa. I colori dei volti, il taglio degli occhi, i vestiti e i gesti, il profilo e gli accenti del parlare, le labbra e il gesticolare testimoniano innumerevoli diversità di popoli e etnie oggi presenti tra di noi. Ma a Lamezia Terme queste persone si possono esprimere? Incontrano veramente gli altri? Rinvengono anche l’Altro che è Dio?
Pensando agli stranieri dimoranti in città consideriamo i numeri ma soprattutto i volti. I dati comunali che li riguardano al 31 dicembre 2006 segnano 1.632 persone di cui 776 maschi e 856 femmine; quelli provenienti dai Paesi dell’Unione Europea, prevalentemente dell’Est, sono 189 di cui 26 maschi e 163 femmine; quelli extracomunitari sono 1.443 di cui 750 maschi e 693 femmine. Se vi aggiungiamo 631 persone di etnia Rom, più altre di provenienza extracomunitaria non regolarizzate, più altre ancora appartenenti alla comunità marocchina dimorante in Gizzeria e altre nel circondario lametino, il numero assume un’importanza considerevole.
Dati ulteriori li estraiamo dalle attività quasi trentennali della Caritas diocesana. Ad oggi, sull’utenza biennale di circa seicento persone presso l’Agenzia di Mediazione Culturale, le provenienze più consistenti risultano: rumeni, polacchi, ucraini, bulgari, turchi, tra gli europei e i mediorientali; marocchini e senegalesi tra gli africani; cinesi, pakistani, indiani, tra gli asiatici; venezuelani e peruviani tra gli americani.
Come possiamo ignorare tutte queste numerose diversità di popoli e etnie che percorrono le strade del comprensorio lametino? Come non considerarle? Come perdurare analfabeti rispetto al via vai di gente e al meticciato in atto? Penso che non dovremmo usare più lo stesso linguaggio di ieri per definire gli stranieri presenti tra noi oggi. Ad esempio: capita ancora di sentir parlare con enfasi di “identità diverse”; ma lo straniero, come tutti, prima di avere un’identità è una entità, una persona ovvero un “mistero” irracchiudibile in categorie né culturali né religiose né etniche. In quanto persona è molto di più, è più grande del semplice appartenere all’Europa o all’Africa, a un’etnia o a una religione. Altro esempio di linguaggio improprio o inconsapevole: ci capita spesso di sentire individuare il luogo dove i Rom sono “inclusi” da vent’anni come “campo nomadi”; ebbene, quei nomadi là dentro il ghetto di Contrada Scordovillo non sono nomadi, al contrario sono immobili, fermi, recintati, inibiti nelle esperienze e nelle visioni del mondo… altro che liberi “figli del vento”!
Insomma, dovremmo sforzarci di superare certe vecchie categorie interpretative, poiché esse non ci aiutano a comprendere in maniera aggiornata il fenomeno degli stranieri immigrati in questo nostro territorio il quale è a sua volta ancora luogo di emigrazione; piuttosto lasciamoci aiutare dalla Parola di Dio e dalle scienze umane a comprendere meglio noi stessi e gli altri stabiliti tra noi. Torniamo ad apprendere dall’ascolto dell’altro, a non negare il diverso da noi, a non separare il mondo di noi dal mondo di loro. Ognuno prende e dona, integra “parti” di sé e degli altri. La verità è che nessuno è solo africano o zingaro o europeo o lametino…, anche se ci sono resistenze a riconoscerla. Il termine più esatto per dire interculturale è dire interpersonale. Certo, non basterà “stare” affiancati in un luogo, occorre divenire più consapevoli che stare insieme è sia gratificante che impegnativo: l’altro impegna non solo gli spazi ma le libertà, i sentimenti, le “tue” verità. Se ci fosse bisogno: reimpareremo l’arte di incontrarci.
Una diocesi si dimostra “intelligentemente cristiana” in base a quanto scommette sull’accoglienza tra le persone che vi dimorano, facendo esprimere al meglio le proprie e le loro ingegnosità e differenze, le proprie e le loro potenzialità e singolarità. Una città cristianamente ispirata sa, fin dal catechismo, che le diversità le ha create Dio, ha pensato Adamo diverso da Eva, ogni suo figlio e figlia esclusivi, originali, speciali, unici, affidando poi ognuno all’accoglienza dell’altro. Solo Caino fuggiasco dopo il fratricidio ha potuto pensare di giustificarsi dicendo: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Nei flussi di tanta gente verso Lamezia Terme il cristiano sa che la città è anche una grande famiglia che si prende cura dei suoi componenti. Sa di poter e dover dire all’altro, al normalmente diverso, allo sconosciuto che lui non è un individuo solitario, che non sarà lasciato solo dagli altri, che Dio e una comunità e la Chiesa gli sono vicini, insomma che è capitato in una città accogliente, in una città di cui non ricorderà solo l’architettura o il clima o i cibi ma soprattutto chi l’ha accolto.

La ‘ndrangheta è un’associazione segreta che vuol farsi conoscere da tutti

di Giacomo Panizza

Finalmente si parla di’ndrangheta,
ma facciamo attenzione al “come”

A Lamezia Terme, alla fine di febbraio 2007, dalla compagnia teatrale Residui è stato portato in scena Laura C.. «Laura C.» era una nave mercantile che durante la seconda guerra mondiale trasportava il tritolo, poi usato dalla ’ndrangheta per intimidazioni, attentati, stragi. Rappresenta lo stare alla finestra di non poca gente di Calabria che lascia campo libero alla ’ndrangheta; è uno spettacolo sull’immobilismo che si rifà, e nemmeno velatamente, ad Aspettando Godot: vi traspare l’attendere per il lungo tempo di una vita spoglia dei vissuti, in aspettativa senza attesa né sorpresa in cui non ha luogo cambiamento alcuno ma la mera ripetitibilità. Al capolavoro teatrale di Samuel Beckett, all’atteggiamento di anime in stallo senza inquietudine e di un’umanità rassegnata e sospesa, si è ispirato questo lavoro teatrale tragico come il fato, classicamente «greco».

Lo spettacolo, metafora del presente, invita alla riflessione e a quella ribellione che sembrano ancora disattivate seppur degli uccisi, del racket, delle intimidazioni, dei voti di scambio, di investimenti economici nei mercati illeciti e leciti gestiti dalla ’ndrangheta oggi finalmente se ne parli più che nel passato anche recente. Invita a parlare e non più tacere. Serve parlarne, ed in particolare parlarne curando il “come”, affinché la ’ndrangheta non venga più sottovalutata come un’organizzazione retrograda o viceversa mitizzata come impenetrabile e invincibile. Piuttosto, occorre realisticamente contestualizzarla nelle sue dimensioni effettive. Sono disponibili faldoni e documenti a iosa, risultati di ricerche e indagini delle forze dell’ordine, dei giudici e dell’intelligence, articoli di giornali, filmati e molte altre cose ancora che parlano di ’ndrangheta. Se ne dibatte nelle aule dei tribunali, e ne parlano diffusamente le cronache, i giornali e le riviste, le radio, le televisioni e ora anche i siti internet gestiti da istituzioni, da gruppi giovanili e da agenzie pubbliche e private.

A conferma c’è anche un recentissimo elaborato, governativo, predisposto per i futuri programmi della Commissione Antimafia. «E credo non sia più rinviabile un’apposita relazione sulla ’ndrangheta (…) Parliamo dell’organizzazione mafiosa meno studiata, meno conosciuta anche perché più impenetrabile, più ramificata territorialmente in Italia e all’estero. Tutti gli inquirenti e le recenti indagini giudiziarie ci dicono di un’organizzazione che ha conquistato un suo primato nel traffico degli stupefacenti su scala mondiale. E questa forza è accumulata anche in virtù della sua struttura familiare che l’ha protetta dal fenomeno dei collaboratori. Ma è un’organizzazione che ha tessuto una ragnatela di rapporti col mondo economico, col mondo politico, con un potere che in Calabria vive anche di relazioni occulte e massoniche in forme pervasive, fino ad arrivare, come dimostrano le ultime vicende di Vibo, ad intaccare settori degli apparati dello Stato e della stessa magistratura. Del resto, è in questo contesto che parte la sfida politico-mafiosa, con l’omicidio del vice presidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, producendo nella regione un salto di qualità fino ad ora mai conosciuto, a differenza della Campania e della Sicilia. Al livello della sfida che la ’ndrangheta ha lanciato con questo omicidio e che quotidianamente e in forma violenta riafferma con la propria presenza sul territorio, su tutto il territorio della regione, deve sapersi sviluppare la nostra capacità di inchiesta, denuncia, sostegno all’azione di contrasto e di riconquista democratica. C’è un assalto della ’ndrangheta alla politica e alle istituzioni, che prefigura il rischio di una vera e propria crisi democratica e di fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella democrazia. A questo livello, anche attraverso la nostra presenza come Commissione sul territorio, a fianco dei sindaci, degli imprenditori, dei giovani, dei cittadini che si ribellano, dai commercianti di Lamezia che realizzano la prima serrata, ai ragazzi di Locri, vedo che dovremmo dare senso al nostro lavoro e, attraverso esso, dare sostegno all’azione degli apparati investigativi e della magistratura, affinché l’azione di legalità e trasparenza politica e morale non abbia, in questa regione, alcuna zona franca».

Eppure, nonostante queste e altre innumerevoli analisi cristalline, nella vita quotidiana civile e istituzionale sembra che non ci si accorga degli ammazzati, dei ricattati, di quelli che pagano protezioni e scambi, di quelli che vanno a braccetto con la ’ndrangheta passando mimetizzati sulla scena sociale e politica. Non si danno giusti pesi e parole a ciò che entra nella dimensione di mafia organizzata e di mafiosità intesa come mentalità diffusa, liquidando l’argomento con battute quali: «Ci vorranno secoli, ma la ’ndrangheta ci sarà ancora» o «Non è cosa nostra» o «Tanto si ammazzano tra di loro». Sopravvalutare la ’ndrangheta come invincibile o ritenerla ininfluente o estranea alla vita quotidiana personale è un’ingenua e pericolosa sottovalutazione dei suoi programmi inequivocabili e senza scrupoli di invasione di campo nei territori “pubblici”.

Una realtà criminale puntiforme
e minuziosamente organizzata,
che media e accumula

A Nicastro, uno dei tre comuni che nella storia recente si sono uniti per formare l’attuale città di Lamezia Terme, nel 1888 si viene a conoscenza del primo codice di ’ndrangheta. In seguito, nuove scoperte delle forze dell’ordine contribuiscono a stabilire che la ’ndrangheta aveva lasciato tracce antecedenti nella provincia di Reggio Calabria. Il fenomeno «è documentabile fin dai tempi dell’Unità» d’Italia, e non va posto in continuità e nemmeno confuso con l’antecedente storia calabrese del brigantaggio.

Anche altre notizie, ricavabili da sentenze, da ordinanze di cattura o di custodia cautelare, e da una certa letteratura, rendono conto della ’ndrangheta come di una organizzazione non localistica né difensiva, ma di una pericolosa realtà con obiettivi di espansione e conquista, con vitali capacità, con capi di “norma” maschi di tutte le età, con innumerevoli ammazzati – pure tra di loro -, e con un’enorme, sorprendente e continua disponibilità di giovani appartenenti ai clan o ingaggiati “extra”.

Parecchi autori hanno messo mano a una plausibile ricostruzione storica della ’ndrangheta cercando di descriverne l’evoluzione. Il risultato è un disegno di soggetti e di operazioni puntiformi, non sempre collegabili tra loro con prove provate, ma che innegabilmente consentono di poter tracciare, nell’arco di un secolo e mezzo, la diffusione della ’ndrangheta con percorsi iniziati dalla Calabria verso i vari continenti e in seguito dalla Calabria al resto d’Italia. E ritorno. Ne risulta la narrazione di una realtà complessa, creativa, vulcanica, a tratti terrificante e a tratti attraente. Ti viene in mente Roberto Saviano di Gomorra, quando confessa in contemporanea la repulsione e il fascino seduttivo che il sistema camorristico esercita sui giovani… e che ha esercitato anche su di lui.

I “locali” della ’ndrangheta comunicano in codice, con frasari e modi prestabiliti, usano rituali e simbologie mutuate dalle pratiche religiose, in specie quelle cristiane. «Il “locale” può essere definito come l’organismo a livello territoriale su cui si articola la ’ndrangheta. Esso solitamente ha competenza su uno o più paesi della stessa area. (…) è la struttura di base della ’ndrangheta che sorge in un determinato paese, allorché si supera il numero minimo di 49 affiliati…». La sommatoria dei numeri accertati porta a prefigurare una struttura, anche militare, che computa migliaia di persone. Infatti «in provincia di Reggio Calabria ci sarebbero almeno 73 “locali”, 23 nel mandamento del centro, 26 in quello jonico e 24 in quello tirrenico. Nelle altre quattro province i “locali” sarebbero almeno 63, di cui 15 nel catanzarese, 14 nel cosentino, 16 nel crotonese e 14 nel vibonese». Ciascun “locale” utilizza un codice proprio, seppur molto somigliante con gli altri. Anche grazie al ritrovamento di codici o alla dettatura a memoria da parte di alcuni ’ndranghetisti catturati e collaboranti si è potuto disegnare una ricostruzione storica verosimile della ’ndrangheta. I vecchi codici disponibili, scritti spesso con grafia incerta e italiano impreciso, sono chiarissimi invece sulla parola d’ordine segreta degli affiliati; sulle regole di appartenenza, fino a stabilire la punizione certa dei traditori; sugli scopi del “locale”. Accanto agli aspetti magmatici e cangianti, la ’ndrangheta si contraddistingue attraverso due pilastri costantemente presenti fin dall’inizio della storia dell’organizzazione criminale: la mediazione sociale e l’accumulazione di ricchezze e di dominio.

Primo pilastro: la ’ndrangheta fa mediazione, media di tutto e di più. Gestisce la mediazione come controllo su soggetti che hanno ruolo sociale, potere politico, capacità economiche, e anche su soggetti deboli e bisognosi. È controllo su ricchezza e potenza. Mette insieme, anche coercitivamente; facilita gli interessi di ognuno, anche degli opposti. Li favorisce o li sospinge a “incontrarsi”, a far affari insieme, a “risolvere” problemi, agendo in proprio sostituendosi anche alle istituzioni, alle leggi, persino al welfare. Assume ruoli di terzietà, ma non al di sopra e al di fuori delle parti in causa, divenendo piuttosto la causa obbligante delle operazioni di messa in comune, di mediazione appunto. Si dimostra mediatrice con tutte le parti politiche, seppur da tempo oltre a corrompere vi si infiltri direttamente. Rispetto ai partiti e alle polarità politiche «non ha preferenze, è bipartisan, ma non sta mai all’opposizione».

La ’ndrangheta controlla il territorio sul quale si arroga la mediazione tra i diversi poteri esistenti. Essa ne incarna uno, gli altri li avvicina assumendo un ruolo autoritario e allo stesso tempo autorevole. Ruolo attraente verso affaristi e verso politicanti in carriera, ma anche verso giovani influenzabili e/o senza possibilità occupazionali. Controlla il territorio costringendo molti soggetti a sottostare. La menzione delle logge massoniche nella citata Relazione Antimafia aiuta a non dimenticare che la ’ndrangheta talvolta viene cercata da altri, coi quali si allea anche “alla pari”: altre organizzazioni mafiose, persone di logge massoniche deviate, politici e colletti bianchi, imprenditori e così via.

Il secondo pilastro della ’ndrangheta è l’accumulo di ricchezze e di potere. Certe volte denaro e beni, certe altre ruoli e spazi di potere; spesso li persegue cumulativamente. Il boss di ’ndrangheta ricerca il potere, fa parte della sua mission. Lo conquista, se lo merita sul campo con la violenza, ma molto potere gli viene da chi glielo cede e regala: dalla gente che non vede non sente non parla, da istituzioni pavide o colluse, da chi paga il pizzo, da chi gli chiede un aiuto, da chi si pensa su un pianeta parallelo, da una comunità che non si ribella.

L’accumulo di denaro è inscindibile dall’accumulo di potere. Il mafioso non si limita a fare business, sarebbe uguale a un qualsiasi imprenditore. Nemmeno si accontenta di rubare, sarebbe uguale a qualsiasi ladro. Tramite l’arte della violenza di cui è capace, si sente forte al punto di riuscire ad avere ricchezza e potere e consenso senza nemmeno la necessità di “avvertire” la vittima designata. Il giro di denaro, lecito o illecito (ormai è diventato secondario), mira anche all’accumulo di spazi da occupare, da cui poter dominare. La ’ndrangheta accumula denaro congiuntamente a potere e li raccoglie con o senza uomini e donne della politica, con o senza partiti ma occupando spazi decisionali sia strategici sia interstiziali. Le basta intrecciare affari con quei politici che pensano ai propri affari, di partito o partitino, rassicurata dalla logica di cui quei politici sono portatori: una logica non orientata al bene comune, una logica per la quale chi fa politica gestisce il potere per sé e non per rispondere ai doveri di accompagnamento e di servizio della crescita collettiva.

Il giro sporco d’affari della ’ndrangheta calabrese sul quale il Ministero dell’Interno ha realizzato le seguenti statistiche e considerazioni, non può attuarsi se non in collaborazione stretta con incaricati corrotti della politica e della pubblica amministrazione. è uno dei principali nodi strategici europei per l’importazione e l’esportazione di stupefacenti, provenienti dal Sud America e dal Medio Oriente, che le cosche smerciano sia in loco sia sull’intero territorio nazionale. I rilevanti guadagni del narcotraffico (circa 22 miliardi di euro per la ’ndrangheta) sono utilizzati per effettuare operazioni di riciclaggio nei mercati mobiliari ed immobiliari. Le estorsioni, l’usura, l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, lo smaltimento di rifiuti solidi urbani e speciali e l’immigrazione clandestina sono gli altri settori di sicuro interesse criminali, con forti ripercussioni sull’economia locale. Molte sono le aree “sensibili” di questa Regione. A titolo esclusivamente esemplificativo, indichiamo il crotonese (tra Isola Capo Rizzuto e Cutro, il cui territorio ospita già numerosi e rinomati villaggi vacanze ed altre strutture di particolare valore economico) il catanzarese (tra i comuni di Paola e Amantea ma anche Lametia Terme, in relazione all’importante ruolo che la cittadina ha assunto per lo sviluppo della regione) e le tradizionali aree del reggino. Forte è l’interesse della criminalità per lo scalo marittimo di Gioia Tauro e l’attigua area di sviluppo industriale». L’indice di permeabilità mafiosa (IPM) in Calabria è stabilito dall’Eurispes nei valori di 52,7 punti per la provincia di Reggio Calabria; di 32,2 punti per la provincia di Crotone; di 30,9 per Catanzaro; 28,1 per Vibo Valentia; 24,5 per Cosenza. Il giro d’affari è calcolato sul 3,4% del pil nazionale. Come si fa a pensare che la ’ndrangheta non sia collegata con l’economia, la politica e altri poteri? Come si fa a dubitare che in Calabria si stia vivendo in regime di libertà controllata o che ci siano enti pubblici a sovranità limitata?

Vischio ’ndrangheta:
come reimmaginare
la cittadinanza dei diritti?

La ’ndrangheta è un pericolo pubblico che tiene in libertà vigilata i cittadini calabresi. C’è una palese vischiosità nei rapporto tra i gruppi di ’ndrangheta e i soggetti sociali, economici e politici del territorio. Le denuncie ufficiali per intimidazioni e danneggiamenti, comprese le minacce telefoniche, nell’anno 2006 assommano a 12.000, evidenziando un metodo spietato usuale della ’ndrangheta per raggiungere il suo scopo di controllo del territorio. Il controllo di economie e commerci, di relazioni e opinioni, di voti e burocrazie, non viene agito totalmente da qualcuno “su” qualcun altro, piuttosto assomiglia al controllo sociale soft, nel quale il controllato non solo obbedisce ma anche collabora “convinto” che gli convenga farsi proteggere o entrare a far parte di un’economia o relazioni o poteri socializzati dalla ’ndrangheta. Essa si struttura proprio manipolando i sistemi di relazione e di appartenenza, di affetto e familiari “di sangue”, e li tesaurizza per formare il suo capitale sociale.

La ’ndrangheta è conosciuta più per le intercettazioni ambientali realizzate dall’intelligence di polizia che per le denunce di coloro che hanno subìto danni o assistito a episodi malavitosi. Le denunce alle forze dell’ordine riguardano i danneggiamenti e lasciano “ignoti” gli estortori e gli aguzzini. Pur conoscendoli. Infatti la gente in genere conosce, anche con prove non provate, i “locali”. Una città come Lamezia Terme, ad esempio, ha più di un “locale” organizzato con capi, gruppi di fuoco, responsabili di varie azioni e settori interni e esterni, gerarchie, quali le famiglie Iannazzo, Giampà, Torcasio, a loro volta collegate con le famiglie locali dei Cerra, Da Ponte, Cannizaro, De Fazio, Bagalà, Argento, Mauro, Corrado, Dattilo, Gattini, Mercuri, Arcieri, Strangis eccetera, a loro volta collegate con altre in particolare della provincia di Reggio Calabria, come i Giorgi-Pizzata di San Luca. Allo stesso modo si possono menzionare i clan calabresi sparsi in regione e non solo: i nomi sono conosciuti dalla gente in genere, dalle vittime della ’ndrangheta, e dai Palazzi di Giustizia.

Generalmente territori ampi ospitano più clan, più ’ndrine. Soltanto in pochissime zone, come nel vibonese, si attua una monocrazia come ad esempio la cosca Lo Bianco a Vibo Valentia o la famiglia Mancuso a Limbadi. Alla gente pare di navigare a vista nella nebbia, di sostare nel chiacchiericcio disordinato di una realtà confusa, e al contempo le sembra di percepire il sentore che qualcun altro invece ci veda e ci capisca benissimo. La gente “sa” che la ’ndrangheta c’entra, l’immaginario collettivo calabrese lo registra ma si percepisce immerso in un cupo tunnel: perché poi occorre dimostrare con formali verità processuali, con carte incontestabili, con testimoni che testimonino la verità dei fatti… Altrimenti hai torto tu… E sai cosa ti aspetta… L’esistenza della ’ndrangheta, non della ’ndrangheta in genere, ma di quella del tuo territorio, è un segreto che si deve sapere. Essa stessa lo vuole. La presenza inefficace e inconsistente dello Stato non favorisce nei cittadini quel senso dello Stato che li potrebbe far ribellare in piena ragione e anche in piena giustizia contro organizzazioni forti. La gente sa che la ’ndrangheta trae la propria forza non solo da sé ma anche dalle relazioni che imbastisce, relazioni in cui c’è anche non poca parte di società. La ’ndrangheta non è un corpo estraneo alla cosiddetta “Calabria degli onesti”. Da sola – senza la sponda di poteri, di colletti bianchi, di pedine collocate in certi snodi del sistema pubblico, di “brodo primordiale” alimento corrotto e dipendente – non esisterebbe. Non è un gruppo di cattivacci che tiene in scacco un popolo di buoni. L’attrazione vicendevole, seppur non “alla pari”, sortisce questo modello storico di ’ndrangheta. Pertanto, è importante colpire il gruppo mafioso e i suoi sporchi affari, ma sta diventando essenziale colpire le sue relazioni, ledendo congiuntamente gli interessi di imprenditori, commercianti, gruppi sociali, politici, classi e ceti investiti di rilevanza pubblica invischiati in qualsiasi rapporto con la ’ndrangheta. In questo quadro culturale, per poter segnare una svolta, occorre scommettere senza se e senza ma sui diritti umani fondamentali, facendo leva su alcuni punti nodali ineludibili. Il compito strategico fondamentale ritengo sia proprio quello di dare cittadinanza ai diritti civili (di lavoro, di impresa, di pensiero, di proprietà, …), ai diritti politici (di democrazia legale e reale, di votare e candidarsi, di rappresentare interessi pubblici, …), e ai diritti sociali (di avere servizi per la sanità, la scuola, il trasporto su strade, autostrade e ferrovie, l’assistenza – quante leggi nazionali la Regione Calabria non ha ancora recepito, facendo un regalo alla ’ndrangheta, nemmeno quelle per cui non occorre spendere alcun Euro ma, appunto!, introdurrebbero regole). Insomma, con la ’ndrangheta non bisogna solo non collaborare, bisogna anche pretendere i diritti.

Primo punto ineludibile è riconoscere che siamo in emergenza democratica. Le capacità di produzione e riproduzione delle forme democratiche di governo locale sono sottoposte ad alti rischi. I comuni sciolti per infiltrazioni mafiose rappresentano la punta dell’iceberg, non la totalità del problema. In regione le denunce di intimidazioni e attentati nel 2006 contro politici e amministratori pubblici e sindacalisti sono state 187. Le reazioni dello Stato appaiono eccezionali piuttosto che ordinarie e costanti. “Il pesce puzza dalla testa” – si dice – e i dati lo confermano: ventidue onorevoli consiglieri regionali sono indagati. Il toto-indagati parte dal numero certo di 22, ai quali si dice che occorra aggiungerne un x di già rinviati a giudizio e un y di già raggiunti da sentenza di condanna per alcuni provvisoria e per altri definitiva: x e y rappresentano il mistero da svelare. Dei 22 invece si sa che 5 sono indagati palesemente per reati di tipo mafioso, 5 per i finanziamenti riguardanti la legge 488 sulle agevolazioni a fondo perduto, 7 per voti di scambio, il resto per altro. Fuori dalle meticolose regole dei tribunali poste a garanzia nei processi, la gente fa difficoltà a credere che il movimento di soldi e di voti possa avvenire indipendentemente dai “locali” della ’ndrangheta.

Il secondo punto, chiama in campo il pacchetto delle leggi inerenti la ’ndrangheta. In esso spicca la patata bollente della certezza della pena per i reati di mafia a tutela delle vittime, del loro effettivo rischio di (ri)subire violenza. Per questo una giustizia giusta esige di ripensare anche le attuali modalità di applicazione del famoso articolo 41 bis. Oggi è diventato annacquato, si è snaturato insieme ad altri articoli del codice penale. Addirittura, di fatto, favorisce i boss, i forti tra i carcerati. Per i reati di mafia occorre diminuire il potere discrezionale del giudice altrimenti, costretto per legge a dover decidere su un divario troppo grande ed elastico tra anni di pena minima e pena massima, il giudice starà a metà, o sul minimo… o dove? Spetta ai legislatori, cioè ai politici, stabilire con maggior precisione le pene da infliggere: su questo punto i governi di destra o di sinistra non si sono affatto differenziati. Stessa perplessità sorge anche pensando a quanto avvenuto recentemente per l’indulto, sul punto riguardante proprio i politici colpevoli di episodi di voto di scambio. I reati di voto di scambio, essendo stati compresi nell’indulto, sono stati dichiarati invalidi. Quei politici sono stati ripuliti e rivestiti della veste candida, per cui possono ri-candidarsi, possono continuare a partecipare a parate antimafia, possono lottare contro la criminalità con le parole senza preoccuparsi di mettere in campo anche “uomini e mezzi”, personale dedicato e finanziamenti adeguati allo scopo da raggiungere. Perfino l’attuale legge elettorale fa un gran favore alla ’ndrangheta, non consentendo alla volontà popolare di poter indicare quali persone lanciare in politica.

Il terzo punto fondamentale riguarda la società civile, la sua mimesi con la ’ndrangheta e i suoi vincoli di appartenenza, le relazioni asimmetriche e i metodi violenti, mimesi mista alla voglia che la stessa società ha di uscire da un sistema di omertà, di soffocamento delle libertà, di scacco alla dignità umana e ai bi-sogni di futuro. Se ne vuole liberare anzitutto il mondo economico, specie quello del lavoro e dell’imprenditoria. Ormai gli imprenditori vengono con derisione chiamati “prenditori” a causa dei tanti episodi di collusione tra essi con i politici, i colletti bianchi e le ’ndrine, finalizzati a intascare denaro pubblico senza resa alcuna.

La società civile deve ancora togliersi l’archetipo del mafioso forte, invincibile, coraggioso e protettore. Proprio le uccisioni a tradimento, le intimidazioni nei confronti di chi lavora, gli agguati di sorpresa, i sequestri di persone inermi, l’indebolimento di economie già deboli come quella calabrese, e così via, ne denotano la vigliaccheria, l’incapacità di rispetto, la disumanità. Forse può diventarle utile la cultura, quella cosiddetta colta come quella popolare, mediata dallo spettacolo Laura C., o dalla canzone di Sanremo, o da film sull’uccisione di magistrati o di preti o di persone che hanno vissuto resistendo e che ora esistono in ciò che altri hanno colto, trasformandolo in diritti e doveri di cittadinanza, in vita. Si può progettare di estirpare la ’ndrangheta? O ci dovremo accontentare di curare pian piano le ferite di questa nostra società? Estirpare o curare? Occorrerà dare valore a entrambe le ipotesi, rinforzando tutte e due le direzioni di impegno. Di sicuro, se si pensa almeno di disarmare la ’ndrangheta, si deve risanare la società, le regole della politica e dell’economia locale, ancora invischiate con essa.

Metafora dell’antiracket

di Giacomo Panizza
1
C’era una volta, in una città pianeggiante,
un artigiano appassionato del suo lavoro,
di quelli che “chi fa da sé fa per tre”,
al punto che tutti se ne meravigliavano e si chiedevano:
“Che piacere trova a lavorare?
Quali interessi nasconde?”.
Fu così che qualcuno in particolare
si interessò a lui.

2
Arrivarono sulla soglia della sua bottega due giovani mai visti prima,
chiesero: “Permesso?” e poi chiesero il “pizzo”.
Volevano persuaderlo di avere amici carissimi
in carcere da aiutare.
Ma l’artigiano rispose: “No”.
Arrivò anche una Commissione ispettrice
di carte e macchinari.
Uno degli ispettori lo prese in disparte,
e gli chiese un “prestito” a titolo personale,
spiegando un suo impellente bisogno.
L’artigiano, di nuovo, rispose “No”.
Arrivò egli stesso fino ad un Ufficio (era dell’ASL? non ricordo)
per sollecitare una pratica ferma da due anni
mancante di un “visto” necessario
per ingrandire l’attività e creare ulteriore occupazione.
Dietro lo sportello chiesero una “mancia” per “oliare” l’iter bloccato.
Disse: “No”.Risposero: “Ni”.
Il “pizzo” dei “colletti bianchi” è più paziente
dei rozzi giovanotti malavitosi, che alcuni giorni dopo
gli fecero”click click” col cane della pistola
affiancandolo con la moto lungo la strada
del suo ritorno a casa dal lavoro.

3
Per il nostro artigiano l’orizzonte si profilava nero.
Un bel giorno ricevette la visita
di un amico, artigiano come lui,
che sottovoce gli raccontò fatti preoccupanti… uguali ai suoi.
E aggiunse che era a conoscenza di altri artigiani,
e commercianti,
e imprenditori,
che subivano le stesse pressioni dai malavitosi
e gli stessi ricatti dai “colletti bianchi”.
Discutendone tra di loro e analizzando la situazione, però,
si rincuorarono nel rammentarsi che in città,
negli ultimi tempi, si andavano promuovendo
corsi di educazione alla legalità,
e marce e sit-in contro il racket.
Ma, alla fine, ai due amici queste belle iniziative non bastavano:
“Sì, bene, ma il nostro problema come si risolverà?”.

4
Fu in quel periodo
che sentirono parlare di un esperto – Tino Magro –
il quale, in prima persona nella sua città di là del mare,
fu costretto in passato ad affrontare
identiche pressioni, richieste, lungaggini, minacce.
Egli è ritenuto “esperto” perché non solo disse “No”,
come i nostri protagonisti,
ma si organizzò
coinvolgendo altri amici e compagni,
artigiani e commercianti e imprenditori
a dire “No” tutti insieme,
e ad architettare denunce da presentare
alle forze dell’ordine e ai tribunali.

5
I nostri due artigiani dunque resistettero
e di lì a breve “politicizzarono” il loro problema.
Il grattacapo – ne erano certi – non era solo loro,
e pertanto lo avrebbero affrontato non da soli ma insieme
a tanti altri.
Uscirne insieme! Questa è politica: è cosa di tutti e non “cosa nostra”.
Divennero consapevoli che il nodo di fondo
non era principalmente quello economico,
ovvero di conti che debbono quadrare,
e nemmeno solo di ordine pubblico, efficacissimo quanto intelligente:
sotto minaccia compresero che insieme ai soldi
qualcuno macchinava di portar via loro, ai loro cari e alla città,
la dignità di lavoratori, la fierezza di cittadini, l’anima.
Rabbrividirono al pensiero di perdere il sorriso,
e di non poter camminare sul Corso a testa alta.

6
Con determinazione, e saggia prudenza,
si confrontarono, si autoselezionarono, incrementarono,
si raccontarono, aumentarono l’amicizia
e infine programmarono come quando si lancia una nuova ditta.
Fu così che accumularono un capitale!
Capite tutti che non sto parlando dei soldi
ma della ricchezza proveniente dai valori umani e civili,
morali e di senso, culturali e simbolici,
che essi hanno plasmato
coi loro “No” ai ricatti mascherati da protezioni,
e coi loro “Sì” a essere se stessi e alla voglia di ingegnarsi.

7
Come finì la storia?
La storia finì in maniera che i nostri protagonisti
misero in circolo quel capitale di valori prodotti congiuntamente.
Diffusero un tipo di capitale che invece di esaurirsi si moltiplicava,
procedendo gratuitamente, “fuori mercato”,
senza tema di concorrenza,
offrendolo a tutti, persino alla Chiesa (la quale comprese subito,
per una certa affinità, che quei “prodotti” erano raffinati, immateriali,
ovvero spirituali: per questo si moltiplicavano donandoli).
Anche la città desiderò appropriarsi di quel capitale
poiché sentiva un vitale bisogno di quei valori.
I nostri protagonisti, guardandosi negli occhi,
si ringraziarono vicendevolmente dell’avventura vissuta in comune:
dell’essersi fidati a fare “insieme”
piuttosto che cercare ognuno
da solo
di risolversi “qualcosa” per sé. 

Volontariato:un patrimonio in”movimento”

 di Giacomo Panizza
(relazione alla V Conferenza del Volontariato, Napoli, 13/14/15 aprile 2007)
Col titolo intendo includere il volontariato tra i patrimoni fruttuosi della storia recente del Sud. Patrimoni decifrabili come quell’insieme di beni materiali e immateriali, valori, ideali, azioni e organizzazioni dal basso che molti padri e madri del volontariato hanno lasciato in eredità alla società meridionale, affinché ne disponga al meglio. Insomma, le eredità si lasciano in dono, con gratuità e accortezza. Ma, i patrimoni perdurano? Alcuni non si possono semplicemente conservare, ma occorre mantenerli in «movimento». E il volontariato è uno di questi.

Un po’ di storia

Il patrimonio di essere cittadini solidali e perciò politicizzati

Oltre trent’anni fa, grazie al «giro» capillare di Caritas italiana, si diffuse al Sud il medesimo stile di volontariato in contemporanea con l’altrove del Paese. Svolti in prevalenza su Roma, gli incontri preparativi alla creazione e al lancio di questo inedito soggetto sociale raggruppavano sì poche persone ma provenienti da tutta Italia, Sud compreso [1] .

Per rimarcare l’importanza attribuita fin dagli inizi al pensiero, alla strategia e alla competenza come elementi necessari per fare volontariato sul serio, ricordo i nomi di Giovanni Nervo, Luciano Tavazza, Vodia Cremoncini. In quel frangente si progettò di dare dignità civile alle esperienze di impegno socio assistenziali già esistenti, sorte prevalentemente in seno alla chiesa cattolica, connotandole anche oltre la dimensione religiosa che le aveva generate e protette, e sospingerle oltre l’agire singolo e la mera beneficenza, per collocarle in una dimensione di politica sociale attiva. Si diede loro il nome di «volontariato» curando di centrarne la ratio nella libertà solidale di chi il volontariato lo vuol fare esigendo però di comporla coi diritti di emancipazione di chi abbisogni di aiuto. Concettualmente si sostenne la necessità di passare da azioni individuali gratuite a scelte collettive conglobanti la giustizia, la cittadinanza, la polis. [2] Insomma: la gratuità veniva «riciclata» impastata con la solidarietà e la partecipazione. Idea convincente, se persino congreghe religiose secolari aggiunsero alla propria sigla la dizione «volontariato».
Fin da subito ci si mise d’impegno sui problemi dell’emarginazione sociale, collegandoli con i temi della pace e dell’ambiente. Certo: al Sud l’emarginazione era conseguenza di molti fattori, tra i quali la carenza di servizi sociali e la pratica perversa di politiche economiche penalizzanti. A differenza del volontariato del Nord Italia, rischiavamo di avvitarci sui nostri rari servizi e sulle nostre poche iniziative, senza vedere la macroscopicità di un welfare incompiuto in lungo e in largo per tutto il Sud. Ad esempio, scoprimmo di essere in ritardo nella lotta per la chiusura dei manicomi o nella sperimentazione dei servizi territoriali alternativi agli istituti totali.
La pace non ci richiamava solo alle manifestazioni contro le testate nucleari a Comiso o ad ostacolare la costruzione di nuove basi missilistiche, come quella di Crotone: la parola «pace» per noi implicava anche dire «no!» alle mattanze e alle faide delle mafie.
I temi della responsabilità verso l’ambiente, poi, si declinavano nelle lotte alla costruzione delle fabbriche a carbone e altre mascalzonate che governi distratti propinavano ai bisogni occupazionali del Sud, scatenando «guerre tra poveri», come quando nella piana di Gioia Tauro si assisteva a scene in cui operai e sindacalisti si scontravano con volontari e ambientalisti.
Siamo partiti esagerando, «alla grande», con forti aspettative sul locale, sul nazionale, sul mondo. Eravamo disponibili e politicizzati. In quel periodo le suggestioni culturali consistevano o nell’accettare «il sistema» o nello «sparare al cuore dello Stato»: erano nodi dibattuti, specie tra giovani e «maestri» (cattivi o buoni). Di fronte a polarità politiche che si dimenticavano degli esseri umani, abbiamo preferito sperimentare un’altra strada, scommettendo sulla promozione e gestione di iniziative socializzanti seppur, allora, ritenute da molti altri come compiti del solo «pubblico istituzionale».
Era un volontariato promotore e difensore di diritti sociali, disponibile a giocarsi svolgendo una propria parte, ma al contempo facendo fare alle istituzioni la parte loro. Ingenuamente si arrivò pure al punto di pensare l’utopia, cioè di programmare di scomparire come volontariato perché le istituzioni col tempo avrebbero assunto il ruolo gestionale dei servizi che il volontariato stesso andava scoprendo e indicando come necessari alle persone e alla collettività. Pertanto, pur in assenza di coperture legislative si sperimentarono case famiglia, comunità terapeutiche, servizi leggeri in alternativa agli istituti di ricovero, tracciando anche piste di intervento sociale di prevenzione e di riabilitazione, fino alla riduzione del danno.
Se saltassimo questa forte dimensione di politicizzazione e consapevolezza posta agli inizi dell’avventura del volontariato, non capiremmo abbastanza tante cose di allora, ad esempio la celerità e la padronanza con cui tanti gruppi, provenienti da tutta Italia, siano intervenuti in Irpinia immediatamente dopo la micidiale scossa di terremoto del 23 novembre 1980. Ci stavamo incontrando e organizzando solo da cinque anni: insomma si è cresciuti velocemente, e anche al Sud.
Nel Mezzogiorno in quel primo periodo furono promossi diversi incontri significativi, programmatici, non «sul» volontariato ma «del» volontariato [3] : convegni operativi generatori di ulteriori convegni moltiplicatori dell’«imprinting» di un volontariato che voleva essere attento alle persone, alle relazioni umane, ai diritti e ai doveri di cittadinanza, alle cause politiche e alle soluzioni politiche [4] di tante disuguaglianze presenti nella società. Al riguardo, tra i gesti simbolici di allora va segnalato il rifiuto di indossare divise, si rifiutavano camici e gerarchie come segni di abolizione delle differenze di potere esistenti tra «assistenti» e «assistiti» nei servizi svolti dal volontariato. L’asimmetria del potere insita nelle relazioni di aiuto faceva parte dei concetti allora insopportabili.
In tanti, radicati nei nostri territori, abbiamo gettato le fondamenta di una bella stagione culturale. Decidendo, operando e riflettendo in prima persona – connotazione etica basilare dell’essere volontari e volontarie – l’intenzione primaria non era quella di dare noi l’assistenza ai «bisognosi», ma di provocare mutamento e partecipazione sociale; perciò si mettevano a fuoco le ingiustizie sociali e le difficoltà di persone, famiglie e territori, e si proponeva di fronteggiarle insieme alle amministrazioni pubbliche e agli operatori dei servizi. Oppure denunciando.
Questa visione del volontariato, collocabile all’incrocio tra l’accompagnamento di chi fa fatica, i ruoli pubblici degli Enti locali e i saperi dei professionisti dei servizi dedicati, è patrimonio degli inizi. La sfida a non fare da soli fu raccolta subito, anche al Sud. Dalla metà degli anni 70 in poi nacquero in continuazione associazioni di volontariato. La disoccupazione dilagante e la scarsità dei servizi sociali fecero la loro parte per connotarne le caratteristiche; si tramutarono in fretta gruppi di volontariato in cooperative sociali; i servizi snelli divennero servizi pesanti con lavoro precario.
Si svilupparono molteplici forme di volontariato, i «volontariati», con scopi, ambiti di intervento e metodologie differenti tra loro non solo nei dettagli tecnici ma nella sostanza politica, differenti come sono differenti le dame della carità dai gruppi di advocacy, differenti come sono i volontari dei gruppi di vita da quelli di certi servizi specializzati. È rivelatore che oggi esista: un filone di volontariato che gestisce i CPT; un altro filone persuaso che occorra rimanerne fuori perché i CPT li deve gestire solo lo Stato; e un terzo filone che sostiene che i CPT non li debba gestire né il volontariato né il resto del terzo settore e nemmeno lo Stato.

Un po’ di domani

Volontariato per innovare coesione sociale e democrazia

Il volontariato del Sud è un patrimonio in equilibrio instabile, non una rendita. Contemporaneamente alla sua crescita, si sono moltiplicate anche molte e complesse problematiche sociali ed economiche che lo sfidano in maniera insolita. Vogliamo che ci sia ancora il volontariato domani? «Come» lo vogliamo? Che fa servizi ai Centri di Servizio? Che ripara i danni delle disattenzioni sociali della politica? Che rincorre i disastri causati dalle guerre tra i clan? Le sfide sono tante. Saremo capaci di futuro se sapremo assumere uno stile di «volontariato adulto».
Tra le questioni che ci sollecitano alcune vanno prese sul serio, cominciando dalle tre messe a titolo di questa 5 Conferenza nazionale: la gratuità, la solidarietà e la partecipazione. La gratuità è modalità identificativa del volontariato in sé stesso, e quindi escludente qualsiasi forma di remunerazione con marchingegni simil lavoro o peggio lavoro nero. La solidarietà lo sfida sui terreni della dignità umana e dell’equità sociale, piuttosto che sui fondali marini in cerca di altri bronzi di Riace. La partecipazione ci sfida a rigenerare cittadinanza al Sud, scommettendo sul ruolo attivo delle fasce sociali tuttora tagliate fuori da qualsiasi ideazione e costruzione del proprio e altrui destino.
Oltre a queste tre sfide io ne sottolineerò solo altre tre. La prima riguarda la coesione sociale connessa con la legalità. Le mafie fanno coesione sociale, ma sopprimendo la legalità. Impongono un loro modo catturante di coesione e appartenenza.
Non si può negare una preoccupazione sul grado di coscienza sociale serpeggiante nelle nostre comunità locali, nelle quali un conto è il grado di consapevolezza dei diritti umani e un’altra cosa sono gli atteggiamenti pratici di riconoscimento di tali diritti. Ci sono sordità inspiegabili con la sola logica. Talvolta basta dire: Rom, tossicodipendenti, ex carcerato, stranieri, malato di mente… per evocare allarme sociale piuttosto che accoglienza, per richiamare sicurezza pubblica piuttosto che sicurezza sociale. Eppure la legalità esige di appianare le disuguaglianze, e di non avere tra noi persone di «serie B».
Qui il volontariato deve contrapporre un diverso modo di fare libero e liberante. Nei territori in cui il controllo sulle relazioni, sull’economia, sui voti politici, è spesso nelle mani dei gruppi mafiosi, occorre che il volontariato si spenda a rinforzare se stesso e gli altri soggetti sociali che vivono il territorio. Vi è una parte di controllo e di potere che i mafiosi si prendono con la violenza, ma vi è pure un’altra parte di controllo che qualcuno dà loro quando paga il pizzo, quando compra la droga che trafficano, quando diventa cliente di supermercati o di banche che riciclano denaro sporco.
Accettare questa sfida significa socializzare effettivamente i territori, riprendersi spazi e piazze, strade e luoghi comuni. Hanno fatto bene i gruppi di «Libera» a organizzare la marcia dei trentamila a Polistena il 21 marzo scorso. Il volontariato in queste manifestazioni c’è. Tutti lo ammettono. Lo vede anche la mafia, la ’ndrangheta, il «sistema» camorra e la sacra corona unita. Certo: al termine della manifestazione il volontariato ritorna al quotidiano, sostiene le associazioni antiracket, partecipa manifestamente all’utilizzo sociale dei beni confiscati, va di nascosto ad aiutare una famiglia per interrompere una faida, opera per inserire in un quartiere i figli del boss in galera, accompagna la moglie di un ucciso di mafia a sparire e ad andare lontano per salvare i figli.
Una seconda sfida tocca i nodi della politica come democrazia. I nodi non sono solo i numeri. Le mafie hanno capito benissimo la democrazia dei numeri, facendo incetta di quelli bastanti per occupare pezzi di partiti, di amministrazioni e ruoli pubblici. I nodi non sono nemmeno i servizi sociali bensì le politiche sociali partecipate.
Anche nel meridione aumentano le persone che scelgono il volontariato, ma domandano che le si tenga lontane dalla politica! Diventa raro imbattersi in un gruppo che studia le voci di contrasto alla povertà nei bilanci comunali o regionali, o che prepara proposte per i piani operativi di sviluppo dei territori. Al massimo vanno ai tavoli dei piani di zona perché interpellati sul tema dei servizi sociali. Insomma, i dati ottimisti sulla crescita numerica del volontariato al Sud non ci possono accontentare, quando la crescita è in una dimensione lontana dalla politica e legata alla dimensione dei servizi socio assistenziali. Si rischia di fare una miope politica legata ai soli nostri servizi.
Ad esempio, può accadere che il dibattito più alto che produciamo sia quello sulla droga: teorizziamo comunità sì o comunità no, riduzione del danno sì o no, punire o educare, proibire o legalizzare, venti spinelli o quaranta, scontriamo le tesi di Cnca e San Patrignano. Se ci avvitiamo sulle droghe perdiamo per strada i nodi delle politiche sociali. Se non funzionano gli ospedali di tutti, non possiamo rallegrarci che sia cresciuto il volontariato ospedaliero. Se la scuola normale non va, come fa il volontariato a compiacersi dei contributi che riceve per gestire i doposcuola?
Le Pubbliche Amministrazioni nel loro mix di politica e burocrazia rappresentano una sfida nella sfida. Credo che in esse si debba fare un passaggio di paradigma. Al Sud c’è un’emergenza PP. AA. evidente, in quanto non poche risultano inadeguate a reggere gli ultimi sviluppi della legislazione, della giustizia, della partecipazione… insomma della politica che si fa democrazia diffusa e partecipata. Il volontariato è sfidato a non darsi da fare solo a valle coi territori, bensì anche a monte con le istituzioni, al fine di costruire passi «facilitati» (!?) dalle regole normali, senza dover chiedere favori a nessun mediatore, a nessun colletto bianco, a nessun padrino.
L’ultima nota che mi sento di sottolineare qui, è che dobbiamo riconoscere che esistono criticità del volontariato attribuibili allo stesso volontariato e dalle quali occorre uscirne al più presto. La sfida è che il volontariato si prenda cura di sé nella casa comune del terzo settore e nella società, e che ci tenga ad esserci in quanto area di gratuità, di bene comune, di una cittadinanza che sostiene per tutti l’esercizio del diritto di dare, di fare, di governarsi anche da sé e non solo venir governati.
Nei confronti degli altri soggetti del terzo settore, quali la cooperazione sociale, le imprese sociali e le associazioni di promozione sociale, il volontariato dovrebbe rimarcare di essere distinto ma non distante. Così pure dal servizio civile volontario svolto in Italia o all’estero. Insieme a queste realtà vorremmo divulgare ideali e pratiche di solidarietà senza confini, e in particolare sottolineare che la politica o è sociale o non è politica, e che l’economia o è sociale o non è a dimensione umana.
La crescita numerica di tanti volti di poveri e impoveriti al Sud, e altri fattori ancora, stanno spingendo il volontariato a impegolarsi sulle prestazioni, sugli interstizi, sugli effetti piuttosto che sulle cause dei problemi; su discorsi di gestione spicciola e non di strategie. E nel Mezzogiorno i servizi del terzo settore, come quelli pubblici, paiono sempre più “dis-graziati”, ovvero fuori dal tocco di grazia di un loro potenziamento nei tempi brevi: vedi ad esempio il resoconto sulla magra entità delle quote pro capite dedicate agli interventi sociali nelle diverse regioni meridionali rispetto al resto d’Italia. Il terzo settore si sta avviando a diventare una brutta copia dei più brutti servizi pubblici e privati: brutta copia nel senso che invece di sostenere la socializzazione, la prevenzione e riabilitazione, si sta buttando su servizi economicamente più stabili quali i ricoveri totali, su quei contenitori dell’abbandono che come volontariato combattiamo fin dagli inizi e continueremo a ostacolare, perché non vogliamo servizi consolatori ma promotori di empowerment e di cittadinanza.
Il volontariato al Sud è chiamato con urgenza e intelligenza a rivedere l’agenda delle sue attività. Quelle di altre zone d’Italia non saranno riproducibili in toto. Ad esempio pur vivendo anche gli stessi problemi del Nord Italia, parimenti il volontariato del Sud non li può fronteggiare con un’economia locale debole e con luoghi di lavoro troppo vulnerabili. Così anche non può sottovalutare il fenomeno dell’educazione scolastica di base, caratterizzata da esiti poco efficaci di una scuola produttrice di alti tassi di evasione e mortalità scolastica. E nemmeno può misconoscere il disagio della gente connesso non tanto alla fruizione di servizi essenziali come l’ospedale, il pronto soccorso o il Trattamento sanitario obbligatorio, ma quello connesso con «il dopo» dell’intervento urgente o specialistico: disagio connesso con la trascurata e immorale privazione di servizi territoriali essenziali all’inserimento sociale, lavorativo, familiare che altrove in Italia invece ci sono.
Occorrerà riprendere il lavoro di comunità per co-costruire risposte adeguate con la gente nei territori, quartieri e città, nei paesi e nelle frazioni interne del Sud, anche superando i confini dei nostri servizi e delle nostre “mission”. Nell’agenda dei volontariati del Sud andrebbero previste sperimentazioni capaci di tracciare nuove vie ai diritti. [5]
Occorrerà evitare in futuro l’errore di gestire progetti scollegati. Fa bene al volontariato ripensarsi in attività snelle e in rete. Finalmente nel resto del terzo settore sono cresciute tante organizzazioni deputate alla gestione dei servizi stabili. Occorrerà procurare di stare di più in tensione costruttiva con gli operatori dei servizi pubblici e privati, con politici e amministratori, con i cittadini fruitori dei servizi favorendo, rispetto al passato, la nascita di più comitati degli utenti che di servizi, più iniziative di advocacy che di assistenza.
Per sorreggere realisticamente le future attività di volontariato, ritengo che abbiamo ancora bisogno di formazione. Accanto alla tradizionale formazione che ci fa apprendere dalle nostre stesse esperienze e a quella strutturata in setting nei vari corsi e percorsi che ci inventiamo, si potrebbero potenziare maggiormente anche altre metodologie di «apprendimento-servizio» [6] da operare sul campo con le comunità locali.
Abbiamo un patrimonio da rigenerare. Il patrimonio del volontariato è un’avventura, un’intrapresa, è fatto di volontari e volontarie, di ideatori, di «quadri», di organizzazioni, di strutture, e soprattutto di stili di vita basati sul dono generatore di relazioni umane e di polis. Non possiamo pensare di poter «passare» facilmente a qualcun altro questo patrimonio: i «nuovi» dovranno a loro volta ri-apprenderlo… se vorranno. Traghettare questi apprendimenti dalla vecchia alla nuova generazione è la prossima vera sfida: i volontariati del Sud dovranno saper rischiare in proprio investimenti strategici, sia per le attività che per la formazione da mettere in campo. E lo stesso vale anche per le politiche sociali delle regioni meridionali, per i programmi dei Centri di Servizio del Volontariato e della Fondazione per il Sud. Immaginare e costruire uniti più spazi di socialità per tutti farà solo bene al nostro Sud, e a tutti. E su queste sfide, soppesando le nostre risorse e vulnerabilità, mi viene da dire che «si può fare!».

[1] Del Sud alcuni partecipanti alla fase pionieristica eravamo: Italo Calabrò, Mimmo De Simone, Pippo Insana, Piero Modafferi, Mario Nasone, Giacomo Panizza, Gianfranco Solinas: tre preti, due collaboratori caritas e due sindacalisti. In seguito sopraggiunsero altri e finalmente non solo al maschile.

[2] Concetti entrati in seguito nella legge quadro sul volontariato n. 266/1991, e nel rinnovellato articolo 118 della Costituzione, comma 4: «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

[3] Segnalo gli incontri di Napoli e Castellammare in Campania; di Taranto e Fasano per la Puglia; Reggio Calabria e Lamezia Terme per la Calabria; Mascalucia sulle pendici dell’Etna per la Sicilia.

[4] Un tentativo di mettere in campo soluzioni politiche partitiche coinvolgenti i volontariati del Sud avvenne nei primi anni 90, con la costruzione di un cartello denominato «Oltre il frammento». Tramite esso si cercò di aggregare le plurali anime dei volontariati con quelle dei pacifisti e degli ambientalisti. Fu un fallimento. La debolezza e l’ingenuità organizzativa a muoversi in un ambito di competizione elettorale risultò velleitaria e ininfluente, nel mentre al Sud la politica partitica riapriva una stagione di strapotere sulla società civile, offrendo rapporti di clientela o di subalternità ai deboli e di collaborazione paritaria ai forti. Alcune realtà del volontariato si adeguarono, altre progettarono faticosi laboratori di cittadinanza sociale e civile.

[5] Tema mutuato dal Seminario di ricerca organizzato dalla Fondazione Zancan e Cnca Veneto: Rileggere i percorsi delle organizzazioni del terzo settore per tracciare nuove vie ai diritti, in Studi Zancan, Politiche e servizi alle persone, n. 2, 2006, pp. 85-190

[6] www.learnandserve.org/about/service_learning.html.

Una storia critica del terzo settore, per rispondere alle sfide dl presente e interrogarsi sul futuro

di Giacomo Panizza

«Abbiamo ballato in tanti una bella stagione culturale»

Il terzo settore
promotore e
difensore dei
diritti sociali

Si può affermare che il terzo settore in genere, in Italia, al suo formarsi si sia caratterizzato come sfera di vissuti che lo connotavano come «mondo» promotore e difensore di diritti sociali? Sì, per parte mia lo posso e lo debbo affermare. Altrimenti non saprei nemmeno fornire spiegazioni plausibili alle innumerevoli iniziative avviate e ai molti servizi realizzati insieme a tanti altri, singoli e gruppi. Gente che ha profuso energie facendosi carico di persone e situazioni di disagio e lottando per ideali di giustizia.
Impegnarsi per i diritti è stata la molla scatenante di molte delle esperienze che ora, in gran parte, si sono trasformate in servizi stabili: sociali, sociosanitari, promozionali, di prevenzione, di mediazione ed educativi. Basti dire che non pochi servizi, sperimentati nella stagione di fine anni settanta, sono stati sentiti come esperienze di vita, anche al punto da sottovalutarne ingenuamente quegli aspetti di programmazione, di organizzazione e di sostenibilità che oggi, nello stesso terzo settore, vengono riconosciuti necessari ex ante.
Quel clima diffuso di sentire sociale certo si nutriva di una letteratura ricca di idealità egualitarie (era la cosiddetta «epoca dei grandi maestri» a livello mondiale e di grandi riforme legislative a livello nazionale). Quel clima stimolava dibattito nell’area dei servizi pubblici e in quella del «privato sociale» (per esempio, in relazione alla proposta e attuazione di varie leggi quali la riforma psichiatrica, il riordino dei servizi sociali, la riforma carceraria, quella sanitaria, l’obiezione di coscienza al servizio militare ecc.).
I vissuti di solidarietà, connessi col lavoro sociale, si collocavano dentro una cornice in cui i diritti umani venivano concepiti senza frontiere geografiche o culturali, e accomunavano «anime» differenti, le quali su altre questioni culturali o politiche si collocavano persino su fronti tra di loro contrapposti. E adesso?

Un cammino
personale,
ma non solo

La mia esperienza personale incomincia molto tempo fa, intrecciando un momento storico che indubbiamente mi ha aiutato a cogliere da un punto di vista favorevole la genesi e l’evolversi, o l’involversi, del terzo settore. Allora, dal 1974 al 1978, mi trovavo a frequentare, per conto delle Comunità di Capodarco, un «luogo» di confronto tra realtà italiane di impegno socio assistenziale, di ispirazione ecclesiale, avviato con pochi ma precisi obiettivi: anzitutto, col proposito di sganciare enti e servizi dall’ombrello di «madre chiesa»; inoltre, con l’obiettivo di accompagnare il loro/nostro cammino laico, di autonomia e di responsabilità; infine, sostenendo la creazione di movimenti o coordinamenti di secondo livello tra le stesse organizzazioni.
In un gruppo di persone «con le mani in pasta» sui temi sociali e in stretto collegamento con la Caritas Italiana, ci siamo trovati a escogitare un nome per l’area della solidarietà, al fine di enfatizzarne l’importanza e definirne meglio i contorni. In questo frangente si è rielaborato il significato del termine «volontario» (che nel linguaggio comune allora indicava coloro che mettevano la firma nelle Forze armate) e, non senza difficoltà anche tra di noi, lo abbiamo applicato all’impegno sociale di persone aggregate in gruppi o in enti privati. Quel periodo ha fatto un po’ di storia e letteratura, ha coniato frasari e stabilito significati, al punto che taluni – purtroppo anche tra gli addetti ai lavori – intendono ancora oggi il termine «volontariato» come sinonimo di «terzo settore».

La «mitica»
stagione fondativa

Dal 1976, con la Comunità Progetto Sud e la Caritas di Lamezia Terme, ho incontrato tantissime persone che si proiettavano nelle iniziative sociali, compresi i primi interventi di protezione civile partecipati massicciamente «dal basso», quali per esempio la presenza in Irpinia in seguito al terremoto del novembre 1980. Ho percepito quel periodo come «mitico» e fondativo. Per le idealità di giustizia e uguaglianza e per i valori che ci accomunavano, specialmente quelli emergenti dalle riflessioni sui testi del Concilio Vaticano II, pensavamo che vi fosse ben poco da mutuare dal sistema assistenziale vigente pubblico e privato, entrambi lontani dal tema dei diritti, entrambi caratterizzati da rapporti asimmetrici tra assistenti e assistiti, entrambi con servizi da «umanizzare» e democraticizzare. Ci sentivamo in una situazione in cui c’era molto da inventare e da rischiare. Fummo facilitati anche da fatto che esisteva poco tra regole, vincoli standard operativi e professionali.
Il filo rosso di valori e princìpi che collegava le organizzazioni coinvolte era costituito dai diritti delle persone, dei poveri soprattutto: questi, in particolare, avrebbero dovuto emergere come soggetti di cittadinanza e non come oggetto di assistenza. In molti gruppi era esplicito il nesso tra i temi dell’impegno sociale e i temi della pace e quelli della responsabilità verso «il creato». I metodi venivano in prevalenza estrapolati dalla teoria e dalla pratica della non violenza, distanziandosi nettamente dalle metodologie delle Brigate Rosse.
Ridetto con l’enfasi del ricordo, oltre ai temi della giustizia e dell’uguaglianza, si mirava a sperimentare una cultura di fraternità diffusa nelle relazioni umane e sociali. Col tema dei diritti affermavamo l’importanza dei doveri: ovvero che le Pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di fare al meglio la loro parte per il corretto funzionamento degli ospedali, delle scuole, dei servizi pubblici normali; dovere di solidarietà pubblica che vale anche per la società in genere, gli operatori dei servizi, le stesse persone assistite e i gruppi di «volontariato».
In verità, occorre rimarcare che non sono mancate difficoltà e fatiche dentro l’area cattolica proprio su questi temi. Vi erano più anime, più metodi, più princìpi, più pratiche di intervanto sociale. Vi era chi metteva al centro i «suoi» poverini e chi il tema dei diritti, chi la motivazione cristiana del volontariato e chi l’esito emancipante dei servizi, chi privilegiava fare «movimento», per stimolare le istituzioni, e chi addirittura non nascondeva di voler gestire da privato le attività di welfare in sostituzione e in alternativa del pubblico.

Creazione
di idealità,
formazione
di leadership,
assunzione di peso
culturale e politico

Si diffondeva la voglia di organizzarsi dal basso e di corresponsabilizzarsi nelle iniziative sociali. Giovanni Nervo era anima e teoria della scommessa in atto, Luciano Tavazza assumeva la leadership di questo movimentarsi, in altri eravamo partecipi e d’accordo: la coesione sulle idee e i programmi in comune era sostenuta da fiducia ed entusiasmo.
Con questa compagine, a quei tempi la più visibile nel mondo magmatico del volontariato, per scelta strategica si sostenne il Movi (Movimento di volontariato italiano) fin dalle sue origini. Si trattava di puntare a governare il sociale da parte del sociale stesso, appoggiandone l’evoluzione organizzativa e la linea politica dei gruppi. Si trattava di dotarci di pensiero autonomo e di metodi, di cultura e programmi sotto la nostra diretta responsabilità. Ben presto si comprese che si erano scatenati appetiti di potere sul sociale da parte di taluni partiti e che si stava ingenerando un problema di potere nel sociale da parte di enti e di raggruppamenti che andavano man mano incrementando e componendo il terzo settore. Eravamo di fronte a una situazione inedita, la quale andava affrontata dal di dentro, da noi stessi.
In quel preciso contesto storico si mise insieme quel gruppetto di preti che decise di dare avvio al Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) come federazione di gruppi già esistenti e operanti. Al di fuori della cultura e dei raggruppamenti di matrice cattolica, nella società italiana vi erano ben poche organizzazioni dedite a farsi carico diretto delle persone in situazione di emarginazione. Le molte lotte sociali fiorenti in quella stagione non erano ispirate tanto al tema dei diritti sociali quanto a quello dei diritti civili e politici. Ma quando il Cnca, alla fine degli anni ottanta, propose la campagna «Educare non punire», per contrastare certe scelte contenute nella proposta di legge governativa sulla droga e le tossicodipendenze, la quasi totalità delle sigle di impegno sociale, educativo, ecclesiale, sindacale, culturale si aggregarono (e inspiegabilmente il Movi si chiamò fuori). Comunque abbiamo ballato in tanti una bella stagione culturale. E la prossima?

Il mutamento di quadro

Alcune esperienze
non rientrano più
nel volontariato
tout court

L’iniziativa intrapresa come Cnca nasceva dall’ulteriore consapevolezza che la definizione «volontariato» non era in grado di contenere sia l’evoluzione di molte nostre esperienze, sia non poteva consentire la gestione complessa di alcuni nostri, e non solo nostri, servizi stabili. Per esempio: con quelli di Capodarco, insieme al Gruppo Abele, avevamo partecipato attivamente nel dare avvio alla promozione del Movi, privilegiandolo ad altre cordate; eppure ci accorgevamo che i servizi che gestivamo e quelli che andavamo creando (le comunità di accoglienza per le persone tossicodipendenti) non rientravano strutturalmente sotto la logica e la forma del volontariato, pur impiegando anche un numero considerevole di volontari e volontarie.
Capodarco, poi, non rientrava nemmeno in questa tipologia a causa del suo strutturarsi in convivenze, del suo fare comunità tra persone «sane» che vivevamo in comune con quelle «handicappate». Ritenevamo di essere dentro a «scelte di vita» e non a scelte di impegno sociale e civile attuate nel tempo libero o «dopo» aver svolto correttamente il nostro lavoro quotidiano. La vita in comune era il quotidiano, ed era difficile totalizzarla o come volontariato o come lavoro sociale.
Quando più tardi, a distanza di tre mesi dall’approvazione della legge nazionale sul volontariato, fu varata la legge sulle cooperative sociali, si determinò chiaramente la differenza tra «volontariato» e resto del terzo settore, e ben presto si intravide verso dove si stava andando.

Un clima
di ostacoli
più che di alleanze

L’avvio e la gestione dei gruppi poggiava su leader, operatori e sostenitori quasi tutti volontari. Vi era una sensibile presenza di sacerdoti, religiosi e religiose, coppie e singoli con una chiara matrice cristiana. L’imprinting dato da questi attori registrò alcuni conflitti – più o meno profondi – con la chiesa ufficiale sui temi della povertà e della giustizia sociale. Conflitti che sono inoltre intervenuti con la Democrazia Cristiana e con altri partiti al Governo, a causa della denuncia di carenze evidenti di servizi sociali e del rifiuto di mettere in agenda una legge quadro in materia socio-assistenziale (faceva specie avere al Governo un partito cattolico che non legiferava in materia di bisogni e diritti sociali, tanto che in alcuni elaborammo più volte bozze di legge-quadro sul welfare).
Difficoltà ne esistevano anche con l’opposizione, a causa del fatto che in definitiva, come volontariato e altre realtà di privato sociale, portavamo avanti modelli di gestione privata dei servizi, mentre i partiti della sinistra consideravano l’intervento sociale come esclusiva competenza dello Stato, o comunque del pubblico. La frase era: «Lo stato è necessario, il volontariato è facoltativo». Eravamo distanti non solo rispetto alla comprensione dei termini, ma anche rispetto ai concetti basilari di «Stato» e di «volontariato». Certo, allora la legge n. 328/00 era futuribile.
Lo scontro avveniva anche con i sindacati, specie in relazione alle questioni riguardanti l’umanizzazione dei servizi: negli istituti di ricovero (anche di matrice cattolica) stavano relegate tante persone; agli operatori, ai sindacati che li tutelavano, alle direzioni degli enti, era inviso il volontariato, che andava ad aiutare e a curiosare … e a denunciare.

Impegno
nelle relazioni di
aiuto individuali
e sottovalutazione
delle cause
socio/politiche

I punti messi a fuoco erano: la relazione d’aiuto, la socializzazione delle situazioni di esclusione, la critica all’indifferenza diffusa intesa come povertà di valori. Ma altrettanto a fuoco non venivano messe le politiche sociali pubbliche. Il mondo del volontariato, divenuto man mano privato sociale o terzo settore o non for profit, ha lavorato molto per rinforzare le organizzazioni al proprio interno, ma ha sottovalutato la debolezza provocata dalla carenza di politiche sociali pubbliche. Ha accettato con crescente evidenza la delega dei servizi alla persona e alla collettività che le amministrazioni statuali e degli enti locali andavano decidendo e attuando.
Le varie organizzazioni di primo e di secondo livello abdicarono in gran parte alla lotta per la responsabilità sui diritti che le amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto assumere istituzionalmente. Inoltre, di fronte ai nuovi bisogni degli anni ottanta, quali il disagio giovanile e il dilagare delle tossicodipendenze, il Cnca ha faticato persino con alcuni suoi gruppi a sostenere teorie di intervento sociale che esso stesso aveva elaborato, come quella del «contesto competente», valorizzante le abilità delle reti dei territori, oltre che le capacità delle istituzioni. Purtroppo l’abbandono strisciante ma crescente delle politiche sociali da parte dello Stato e degli enti locali in generale, faceva il paio con un terzo settore che andava scommettendo più sui propri servizi che su quelli pubblici o su quelli promossi o promuovibili in collaborazione con il pubblico, fornendo così alibi ad un pubblico che stava abdicando al suo ruolo di garante dei diritti.

Passaggi
sostanziali nel/del
terzo settore

Durante sei lustri si è potuta notare una trasformazione concettuale, e non solo, dell’impegno sociale. Nelle comuni riflessioni iniziali – e nella letteratura del Cnca lo si può ancora riscontrare -, l’impegno sociale veniva inteso come impegno di persone, d’individui e di gruppi, a operare nel campo sociale; inoltre era inteso come impegno verso persone in difficoltà, situazioni di fatica, emarginati, verso cui ci si riteneva corresponsabilmente solidali. E ancora, era inteso come impegno verso il mondo (del nostro immaginario collettivo?), pensando di puntare a costruire società più accoglienti. Era un po’ il concetto francese di engagement: cioé non solo il mio impegno, ma anche il perché e il per chi e verso chi e verso quale progetto di società mi impegno. In definitva era un concetto prefigurante mutamento sociale, col sogno di un futuro per tutti più umano nelle relazioni e più giusto nelle sue «strutture». Questo appassionava.
Considerando la storia del terzo settore, riassumendo in sequenze, ritengo che si possa dire che all’inizio si è sottolineato maggiormente il vissuto motivazionale e politico (da «polis»); poi il volontariato promozionale; poi ancora la gestione manageriale dei servizi; infine, l’impresa sociale. Sono snodi, stadi utili e necessari, dai quali non credo si debba o si possa tornare indietro. Sono andati un po’ ridefinendo logiche, aspetti giuridici, status professionali degli operatori e posizionamenti di tutto il comparto del cosiddetto «terzo settore» nei confronti del primo e del secondo settore. Insomma, la storia è andata avanti.

La storia è andata
avanti, non così
la memoria storica

Invece, ciò che non ha camminato di pari passo ritengo sia stata la memoria storica. È raro trovare oggi chi, come allora, sostenga il mix che caratterizzò gli «inizi», ovvero un terzo settore intenzionato a comporre la promozione e la gestione di servizi con la promozione e la tutela dei diritti (dei cittadini-utenti). Questa idea urge nella memoria di coloro che parteciparono alla nascita del terzo settore in Italia, ma non in quella di tanti parvenu.
Esagerando un po’, sembra che si siano susseguiti passaggi dall’impegno sociale (della società verso la società) a quello dei servizi, a quello per le professioni, a quello per le tecniche e le specializzazioni, e così via quasi a imbuto, tralasciando man mano cause e contesti, istituzioni e società, concentrandosi sul «lavoro sociale» inteso come attività rivolta a circoscritti problemi sociali. Quali altre trasformazioni si profilano per il terzo settore?

Alcune criticità per il futuro

Soggetto operativo
e/o politico?

Una criticità attuale del terzo settore, in generale in Italia, ritengo sia quella della sua preparazione a determinarsi come soggetto politico attivo. Vi è un diffuso bisogno di costruirsi la consapevolezza di essere soggetto politico perché sociale, anche e proprio per il fatto di essere differente dai partiti.
Ne è esempio la frequente delega a gestire servizi indipendentemente dall’andamento delle politiche sociali, che viene accettata spesso acriticamente, così come acriticamente capita di tacere sui diritti insoddisfatti di persone e famiglie, su ingiustizie sociali e vuoti legislativi. Così anche per lo spendersi esageratamente su temi di poca rilevanza rispetto ad altre (per esempio, la recente mobilitazione per salvaguardare i centri di servizio per il volontariato) e per l’impegnarsi poco contro lo svuotamento delle politiche sociali, sanitarie e scolastiche ecc.
Tra il primo e il secondo settore, il terzo viene schiacciato e si lascia schiacciare senza resistere: non si auto-propone, non fa cultura, non confida nel suo reale peso e nel capitale sociale che possiede.
Potrebbe meglio escogitare i modi per dire che c’è, che ha il gusto dell’autonomia, e che vuole giocarsi per la costruzione del bene comune: questo rappresentava in definitiva l’investimento basilare, inziale, di energie collettive e di crediti sociali, di economie e di tempi personali messi a disposizione.

Si scommette
poco sui soggetti
determinanti
per la cittadinanza

Un altro aspetto critico attuale è espresso da un terzo settore che si pone le domande sui servizi da gestire, ma sembra lontano dal cercare di capire e interpretare gli scopi per cui servono i servizi. Dovrebbe, oggi, ricercare nuove maniere di sensibilizzarsi, di porsi domande sui mali sociali, sui problemi, sulle solitudini, per entrarci dentro, per starci, per affrontare i problemi concreti insieme a più soggetti, coinvolgendo società e politica, per costruire insieme agio e qualità sociale, servizi e diritti diffusi (e non solo per le persone prese in carico). Gli esiti liberanti e socializzanti del welfare vanno (ri)messi al primo posto.
Sotto questo profilo si nota un’enfasi sul ruolo del terzo settore agìta dal terzo settore stesso, pensata dalla politica e circolante nell’immaginario collettivo. Una vasta area interna al terzo settore mette in risalto il principio di sussidiarietà, esautorando la responsabilità pubblica e i princìpi costituzionali di solidarietà.
In definitiva, si scommette poco sui ruoli di cinque attori pubblici che sono determinanti per la costruzione dei diritti di cittadinanza: la politica, la comunità locale, il mercato nel mondo del lavoro, il terzo settore e i cittadini-utenti-clienti del welfare territoriale.

Anime e energie
del terzo settore
a somma zero?

Nel panorama di aziendalizzazione della salute, dentro al parlare di impresa per la scuola, nel ritenere imprenditoriale la gestione dell’ambiente e mercantile la gestione dell’acqua, e così via, il terzo settore viene messo all’angolo. Su questi temi, le sue anime interne – gestionale assistenziale, movimentista, di advocacy, di impresa – si differenziano e si distanziano tra loro, andando anche in conflitto.
Le energie del terzo settore, soprattutto grazie al mercato dei servizi, rischiano un alto tasso di logoramento, e le varie sigle sembrano destinate a divaricarsi e a dissipare le loro potenzialità. Invece di stimolare la politica e la società a farsi carico del welfare e della qualità sociale della vita nei territori, gruppi ed enti del terzo settore, rischiano di investire le loro energie disponibili, professionali, economiche, culturali, simboliche, in questioni di leaderismi, di visibilità, di incameramento dei budget dei servizi, ponendosi gli uni contro gli altri.
Tantissime energie rischiano di venire spese senza un minimo di risultato utile; si tratta invece di moltiplicarne gli effetti.

Chi rappresenta
chi del terzo
settore?

La rappresentanza del terzo settore a livello nazionale e locale (seppur il tema si ponga anche a livello planetario: si pensi al Social forum, alla Tavola della pace, all’Onu dei popoli ecc.) si fa sempre più necessaria, sia come necessità interna che come richiesta dall’esterno dalle leggi di settore (per esempio, n. 285, n. 45, n. 328 e piani di zona ecc.). L’intelligenza della storia chiede ai componenti del terzo settore di muoversi insieme su alcuni punti strategici condivisi, e di designare al meglio luoghi e sigle di rappresentanza, poiché si va sempre più affermando la diffusione della governace.
Occorre superare l’attuale momento critico in cui il terzo settore viene ovunque rappresentato da alcuni gruppi che contano numerosi tesserati, poiché dovrebbero trovare congrua rappresentanza anche le realtà associative che operano a vantaggio dei non associati (come il volontariato, le comunità di accoglienza, le cooperative sociali ecc.), le quali non possono e non debbono iscrivere a soci le persone che prendono in carico o con cui vengono in contatto o in collaborazione per risolvere problematiche personali e sociali. Ma nel Forum del terzo settore questo punto di crisi permane aperto.
Inoltre, non dobbiamo sottovalutare il fatto che ad oggi molte sigle di impegno sociale, specialmente quelle storiche di ispirazione cristiana, che hanno contribuito a lanciare in Italia gran parte del movimento da cui è scaturito il terzo settore, non si sono iscritte al Forum, e quindi non sono rappresentate e rappresentabili da esso.

Possiamo dirci ottimisti?

Il posto e il ruolo
dei valori umani,
politici, religiosi

Non secondario è il fatto che l’espandersi del volontariato prima, e del terzo settore in genere poi, sia stato favorito dalla presenza di alcuni valori religiosi intenzionalmente mutuati dai Vangeli (i cosiddetti «valori del Regno») e di altri, condivisi con le idealità laiche di pace e di responsabilità per l’ambiente. Ora, mi sembra di poter affermare che i valori che il terzo settore in genere sta maggiormente sottolineando sulla scena nazionale siano riconducibili a quelli «interni» alle sue logiche e agli interessi dei suoi servizi sociali. A poco o nulla valgono gli slogan sulla persona al centro, la professionalità, la relazione, l’inclusione sociale. Nessuno metterà in discussione questi valori in sé stessi grandissimi, ma andrebbero declinati calcolando impatti culturali e interessi che oltrepassino quelli del terzo settore.

Un immaginario
fatto di prestazioni
o di organizzazioni
di prestazioni,
più che di strategie

Non si stanno facendo i conti con le matrici culturali che hanno spinto molti a «fare in prima persona» attività sociali, nemmeno per criticarle od eventualmente ritoccarle o riscriverne altre. Anche da questo dato si può capire la tendenza attuale a sottolineare più il pensiero organizzativo gestionale che quello strategico culturale e politico.
Aspetto critico del terzo settore attuale ritengo sia anche il fatto che gli interessi tematici esplicitati dall’immaginario delle recenti generazioni dei soci delle organizzazioni di terzo settore sembrano puntati sui servizi intesi come somma di prestazioni, sottovalutando l’ente in quanto organizzazione, oppure ignorando strategie per la difesa o la costruzione di diritti.
Anche la considerazione di questo immaginario ci può indicare che, oltre ad operare nei servizi, dovremmo anche operare sui territori, sulla legislazione, sulle regole amministrative, sulle alleanze e sulle reti formali e informali, sulla cultura, e così via.

La nuova
differenza tra
i leader e i manager

Inoltre, a differenza di «ieri», nei gruppi si nota la differenza tra i leader (gli inventori dei servizi) e i manager di recente acquisizione. La memoria valoriale e storica generazionale non si è ereditata come si auspicava. Oppure c’è stata scarsa capacità di trasmissione della leadership da parte dei «vecchi». I nuovi arrivati non incontrano facilmente una cultura organizzativa, piuttosto impattano in un’organizzazione che li inquadra, più che accoglierli e formarli. Spesso vengono messi all’opera a svolgere servizi, a eseguire prestazioni, a fare le pedine per le prestazioni da erogare, piuttosto che venire responsabilizzati su un progetto sociale e sulla mission dell’ente.
La criticità è quella di sentirsi in un clima lontano dal ricercare strategie per il cambiamento, dal tracciare nuove vie culturali, dal rigenerare soluzioni ai nuovi bisogni e diritti sociali.

Senza un indirizzo
culturale e politico
si diventa
troppo simili
al privato for profit

In certi aspetti oggi il terzo settore gestore dei servizi assomiglia, nei metodi, ai servizi gestiti dal privato for profit, mettendo anch’esso in campo prestazioni specializzate e parcellizzate, servizi di ricovero e di separazione dalla vita normale, piuttosto che fornire progetti di promozione e di inclusione sociale.
È necessario che il terzo settore ritorni a voler imprimere a sé stesso un indirizzo culturale e politico, decidendosi a svolgere un servizio «pubblico» capace di superare la trappola del mero mercato dei servizi sociali e puntando a collaborare con tutte quellle forze sociali e istituzionali che mirano alla costruzione di welfare comunitari.

Essere attori
sociali e non (solo)
tecnici del sociale

Anche la formazione all’essere attore sociale, autore di cultura professionale, innovatore di servizi e di coesione sociale, non può essere continuamente svilita in tecnicismi e metodologie di corto respiro. Servirà – ancora – sostenere scuole interne, in mano a raggruppamenti del terzo settore e non alle fondazioni di ditte o di banche, per poter foggiare anche idee e pensieri sociali maturati e appresi dalle proprie esperienze dirette.
Permane eclatante il problema della dignità di coloro che sono impegnati nel lavoro sociale, quasi ovunque senza possibilità di carriere, non sempre con dignità di statuto di lavoratori, abituati a contratti flessibili e precari.Ma forse questo è un problema solo del Sud, della Calabria da cui provengo?

Il sociale
non potrà essere
rilanciato che
dal sociale stesso

Chi rilancerà il sociale? Non si può non concordare che il sociale potrà venire rilanciato se non principalmente dal sociale stesso, da chi lo vuole, chi opera, si organizza, da chi fa rete e si allea. Potrà rilanciarsi se studia, ricerca, sperimenta, si appassiona e appassiona, se si dota di strumenti e linguaggi, se comunica significati, se intreccia e ascolta e valorizza le diversità sempre più manifeste. Se è convinto. E se convince.
Il sociale non è il terzo settore ma lo stato sociale. Il terzo settore e le sue grandi reti organizzate, come il Cnca, hanno buone ragioni per rilanciare i temi sociali dall’interno di uno Stato sociale… e di un’Europa sociale.

“Dal basso” una chiesa che opera per la ripresa delle politiche sociali

di Giacomo Panizza
Vogliamo guardare avanti e provocare cambiamento. Non possiamo rassegnarci al diffuso insopportabile immobilismo che la fa da padrone sui grandi problemi sociali che attanagliano tanti uomini e donne e famiglie calabresi. Anche la politica non può chiamarsi fuori dalle responsabilità di un indubitabile immobilismo che non produce risposte, risorse, progetti e piani di intervento sociale. Ci riferiamo in particolare al Piano sociale regionale di cui la Calabria ha bisogno estremo, e ai Piani di zona ai quali occorre pensare in tempo e bene.
L’atteggiamento di fondo è di guardare avanti spazzando via l’aria pesante di rassegnazione che si respira ultimamente ovunque ci si trovi a parlare delle politiche e dei problemi sociali in Calabria. Infatti, dopo aver varato la legge regionale n. 23 del 5 dicembre 2003 recante «Realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali nella Regione Calabria» il processo di attuazione della riforma prevista si è fermato. A nulla valgono le schermaglie che di tanto in tanto taluni politici, anche della stessa maggioranza di governo regionale che dovrebbe invece agevolare la realizzazione della legge 23, provocano, ma soltanto a parole. Si capiscono poco partiti che varano una legge all’unanimità ma poi la mantengono bloccata per anni! Il comparto sociale è in stallo. In coma. Va risvegliato! E va anche risvegliato bene, perché il sociale di cui c’è bisogno nella Calabria di domani non potrà continuare ad essere come quello di ieri e di oggi, non potrà perpetuare l’assistenzialismo ma dovrà mutarsi in promozionale, divenire capace di mettere in gioco la società e non solo i servizi sociali, di valorizzare le risorse della popolazione e non solo quelle delle Amministrazioni.
Occorre ripartire, pendere in mano i temi riguardanti l’emarginazione, la povertà e le fragilità, ma anche lanciare piani e progetti, costruire strumenti di lavoro sociale, formare nuove e vecchie risorse umane professionali e soprattutto dotarsi di capacità e di volontà “politica” di verifica e controllo delle regole e dei finanziamenti previsti per il sociale. Su questo conveniamo che alcuni organismi di riferimento ecclesiale non risultano immuni da colpe o da mancanze di serietà.
La Fondazione FACITE, ente di natura ecclesiale voluto dai vescovi calabresi, da tempo opera “dal basso” per la ripresa delle politiche sociali. In riferimento agli scenari sopra descritti, insieme alle Caritas diocesane, ha promosso per l’anno 2006 un ciclo di seminari di “formazione formatori” finalizzato a preparare persone capaci di favorire la realizzazione delle leggi sociali di cui la Calabria si è dotata.
I seminari sono rivolti a operatori caritas, componenti di servizi socio assistenziali, dirigenti e personale degli Enti pubblici e privati, gruppi di advocacy. Sabato 13 maggio mattina a Catanzaro, in Via Madonna dei Cieli, il primo di questi tratterà “I Piani di zona e la legge 23”. Dopo i saluti di Don Antonino Iachino, Presidente Fondazione Facite, avremo la relazione dell’avvocato Francesco Carnovale Scalzo, Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Lamezia Terme sul tema: “Il ruolo degli Enti locali nella promozione e gestione dei Piani di Zona”, e il Laboratorio formativo: “La partecipazione ai Piani di Zona: spazi attivi della società e della chiesa” curato da Don Giacomo Panizza. Obiettivo è mettere a fuoco i processi di costruzione dei Piani di zona di fronte ai quali è importante che le varie componenti del comparto pubblico e della società civile organizzata si trovino preparate e competenti. Inoltre si analizzeranno le “5C” della partecipazione socio-politica: consultazione, concertazione, coprogettazione, corresponsabilità, controllo, al fine di prefigurare i futuri Piani di Zona non come piani di alcuni addetti ai lavori ma come piani “di tutti”.

Don Giacomo Panizza – Responsabile formazione della Fondazione FACITE 

Riappropriamoci dei regali

di Giacomo Panizza
Fiumane di persone hanno gremito i negozi della città e del circondario in questi giorni di fine anno, recandosi a botteghe e vetrine per scegliere un regalo da fare a qualcuno. I veri commercianti conoscono benissimo quanto bisogno umano di gratuità esista, e ci speculano sopra.
Anche la mafia dà molto valore al dono e ai suoi significati. Nella logica mafiosa i doni li fa il “padrino”, collocando i “figliocci” in una condizione di debito e di riconoscenza nei suoi confronti. In seguito, quando lui vorrà, chiederà qualcosa in contraccambio ed essi non potranno rifiutarsi. I suoi doni sono “avvelenati”: catturanti e non gratuiti.
I “doni” dei mercanti e dei mafiosi sono snaturati: hanno un prezzo in denaro e in servilismo.
La circolazione dei doni è un fatto normale nelle convivenze sociali, ricevere e offrire regali fa parte della fiducia connessa alle relazioni umane. Ad esempio, se non ci fosse il Natale dovremmo inventarlo, tanto che più persone si scambiano doni nel periodo natalizio pur essendo notoriamente non cristiane.
Ogni dono è più che un semplice “regalino”. Concettualmente sottovalutiamo il dono collocandolo in spazi irrilevanti della vita familiare e nel “privato” intimo; lo intendiamo come una realtà marginale della vita sociale. Invece esso incide culturalmente nella vita sociale, economica e politica.
I regali, i doni, sottendono un messaggio culturale e sociale che per i molti rimane invisibile ma è essenziale. Ognuno ha ricevuto o fatto un regalo, sperimentando la gioia del legame che esso crea. Perché il dono non è solo “la cosa” che viene regalata, ma è la presenza, il calore, il messaggio, l’interessamento, le parole che contiene “quella cosa in quanto viene donata” da qualcuno a qualcun altro.
Qualunque regalo, grande o piccolo che sia, esprime significati di reciprocità, quali: “Io ti penso, io ci sono, io ti voglio bene, tu mi interessi, tu per me vali…” Nelle coppie e nei giri di amicizie consolidate l’interruzione dei regali è spesso sintomo di crisi.
La moltitudine delle persone tuffate nei negozi di giocattoli, di libri, di fiori, di casalinghi, di indumenti, di alimentari, si è appassionata a scegliere oggetti da regalo, attribuendo a ciascuno di essi un messaggio particolare indirizzato a qualcuno che ha gradito non solo “quella cosa” ma anche “quel pensiero”. Scegliere un regalo è impegnativo perché la cosa da donare è anche una frase da dire, un rischioso sbilanciarci con un nostro personale messaggio verso un’altra persona, la quale rimane libera di accettare o rifiutare il dono: il che equivale a accogliere o respingere il donatore.
Anche il Dio del Natale si è sbilanciato rischiosamente così con l’umanità, sottomettendosi alla regola del dono, offrendosi a ciascuno di noi i quali liberamente possiamo accettare oppure rifiutare “lui”.
La chiesa sa benissimo che Lametia Terme ha bisogno di riscoprire questa logica del rischio del dono. Piuttosto che un Natale “una tantum” ci vorrebbe un Natale permanente, non fatto di rari episodi di bontà ma generatore di presenze donative nelle famiglie, nella chiesa, nella società, nell’economia, nella politica: in definitiva nella vita.
Penso che la nostra chiesa e la nostra società dovrebbero rivalutare il senso compiuto del dono, non lasciandolo al consumismo di feste commerciali, né relegandolo a questioni infantili e piccolo borghesi familiari, e neppure permettendo che venga codificato dalla prepotenza della cultura mafiosa. La città ha bisogno di riscoprire la libertà del donare e del donarsi, di vivere una esperienza umana e religiosa nei suoi aspetti di senso, di grandezza, di gratuità.
Riappropriamoci dei regali. Non sono cose solo da bambini!

Natale 2004